Table Of ContentBOMPIANI
IL PENSIEROOCCIDENTALE
direttore
GIOVANNI REALE
segretari:
Alberto Bellanti
Vincenzo Cicero
Diego Fusaro
Giuseppe Girgenti
Roberto Radice
PINDARO
TUTTE LE OPERE
OLIMPICHE-PITICHE-NEMEE-ISTMICHE-FRAMMENTI
Testo greco a fronte
Introduzione, traduzione, note e apparati
di Enzo Mandruzzato
BOMPIANI
IL PENSIEROOCCIDENTALE
© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano
978-88-58-70121-8
Prima edizione digitale 2010 da edizione Bompiani
Il Pensiero Occidentale gennaio 2010
Immagine di copertina: Raffaello, Il Parnaso, Pindaro (part.).
Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani Cover design: Polystudio.
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INTRODUZIONE
di
Enzo Mandruzzato
PINDARO E IL SUO TEMPO
La Beozia, d’estate – la stagione vera della Grecia – è un’im-
mensa ciotola gialla e tragica, tra monti dai nomi memorabili,
feconda e brulla, dove il lago Copaide – da cui si recidevano le
canne per i flauti – è scomparso e quello di Ilice s’affossa netto,
irregolare e atroce come una piaga. Tebe (Tive) è un villaggio
rozzo e afoso, i ricordi di Orcomeno o di Cheronea o di Gla,
un tempo sospesa sulle acque, sono sperduti nella calura. Il
turista, quasi contento che non ci sia «niente da vedere», ha
fretta di risalire gli orli della ciotola e di scorgere il mare o l’a-
cropoli di Atene o Delfi.
Anche per un turista di due millenni fa, Strabone, Tebe non
aveva «neppure l’aspetto di quello che si dice un villaggio». Né
Pausania più tardi la trovò molto diversa. Eppure, con l’aiuto
delle guide, girò la Cadmea dalle sette porte, ricettacolo di
tante memorie, vide le tombe di Mela nippo, dei figli di
Anfione, il luogo del loro rogo dove an cora restava la cenere,
le sepolture dei personaggi del teatro attico, Giocasta e Tiresia,
Eteocle e Polinice ai cui riti funebri si ripeteva ogni anno, fede-
le come il miracolo di S. Gennaro, il fenomeno del fumo che si
divideva. Molti i templi, nei dintorni, tra cui quello caro a
Pindaro di Apollo Ismenio, con opere di artisti come Prassitele
o Fidia. Ma ciò che contava di più erano i ‘luoghi’: dove
Cadmo vinse il Serpe, dove sedeva la profetessa Manto, dove
la terra inghiottì Anfiarao, e nessun animale veniva a brucarvi
l’erba né alcun uccello si posava sulle colonne che delimitava-
no quello spazio. Al tempo di Pausania si confondevano le
rovine già mitiche, come la dimora e il talamo di Alcmena,
dove fu concepito Eracle, con quelle storiche come le tombe
dei morti della guerra contro Fi lippo o della stessa casa di
Pindaro, che Alessandro Magno aveva ordinato di risparmiare
dalla distruzione.
INTRODUZIONE
Pareva e pare ancora questo il prodigio della Beozia. Gli
scavi non offrono che ‘luoghi’. Non si trovano pietre squadra-
te e si può sospettare che le famose mura di Anfione non fos-
sero che terrapieni; del resto quelle da lui mosse per magia –
«col canto» –, indicate a Pausania, erano informi. La terra – la
Dea Madre – è in tutto ed eguaglia tutto. Non c’è neppure la
sublime civetteria delle solitudini della campagna romana al
tempo di Goethe o di Micene già al tempo di Strabone. Terra
bonaria e senza tempo dove l’Ismeno si perde nella sterpaglia
e tra i pollai e la fonte di Dirce, conosciuta solo dagli abitanti
più umili che non si sono mai mossi di lì, si nasconde in un
muretto di ciottoli come una serpe. Allora finalmente ci si può
rendere conto di trovarsi in uno dei luoghi più segreti e spiri-
tuali d’Eur opa, nella Palestina della religiosità greca e vera-
mente oc cidentale.
Qui nacque Pindaro, a Tebe, la «madre mia» come dic eva,
e che onorò sempre con fedeltà, dolore e orgoglio; o più esat-
tamente a Cinoscefale, nell’immediata campagna, dove la fami-
glia avrà avuto le sue terre ed egli avrà eretto il sacello della
Dea Madre dove officiarono le figlie. A Delfi si celebravano le
Pitiche; «la festa del quinto anno» – così lui stesso immaginò il
suo più antico ricordo – «con i suoi cortei di bovi, quando ebbi
il primo nido tra le fasce, nel l’amore». Era dunque l’agosto di
quel deducibile 518 a.C.1 La famiglia era una delle più illustri
di tutta la Beozia, gli Egidi, venuti da Sparta, poi ancora migra-
tori ed «ecisti», in Laconia, a Tera, a Cirene, dove il ramo dei
Battìadi so pravviveva a vicissitudini secolari (P. IV). Questo
significava essere di sangue reale; il vero regno, come a Sparta,
era fuso con il sacerdozio e non identificato con il potere. Il
1Le cinque magre biografie pervenute danno la sua «acme» dur ante l’in-
vasione di Serse (481-479); la Suda precisa i «quarant’anni» e anche una
nascita «durante la 65a olimpiade» (520-517). La coin cidenza della nascita
con le Pitiche, che si tenevano nell’agosto-s ettembre al terzo anno di ogni
olimpiade, preciserebbe il 518. Altri anticipa (o meglio anticipò, perché è
cronologia generalmente abband onata) alla precedente pitiaca, il 522, ciò
che lo farebbe più maturo al tempo della decima pitica, meglio contempora-
neo di Eschilo (n. il 525) e sufficientemente più anziano di Bacchilide (in tal
caso la notizia della Suda sarebbe da tradurre con un «circala 65aol.»).
PINDAROEILSUOTEMPO
cul to avito era quello di Apollo Carnèo (P. V, 79-81), del cui
tempio di Tera restano i ruderi con graffiti del tempo di
Pindaro, devoti ed erotici.
Della parlata beote non restano in Pindaro tracce pure, e
non è vero che «atticizzasse» troppo come diceva Cor inna, la
celebre poetessa di Tanagra; ma è vero che il linguaggio della
poesia lo portò presto lontano. Le prime fonti della poesia
erano in Beozia ma da secoli vi attingevano poeti d’altri paesi,
e attualmente il maestro della lirica corale era uno ionio, il bril-
lante Simonide di Ceo. Beote fu invece l’autore della Teogonia,
la Genesi dei greci, Esiodo, lettura primaria come quella di
Omero, ma più fidata. Nulla però lo formò come le memorie
viventi, i segni di ciò che noi diciamo «mito» e che per lui e per
tutti era semplicemente la verità, la «parola» che è il ricordo e
il ricordo che è, come ogni verità, presenza. Il suo patriottismo
restò sempre qualcosa di cultuale e di universale; Pindaro
poteva sentirsi al centro dell’Ellade e perciò del mondo, come
molti greci, ma con un certo privilegio anche rispetto la ben
più potente Sparta e la progredita Ionia. La vicina Delfi era il
centro anche geografico della terra. All’esterno, all’orizzonte,
c’era no il grandioso e il favoloso: i regni d’oriente, la Lidia e
l’Egitto, ora unificati nell’Impero persiano, e nell’occidente di
Ulisse l’avventurosa Sicilia, gli Etruschi e i Fenici, le isole dei
Beati, e le colonne di Eracle che rimasero sempre per Pindaro
il simbolo del limite umano, e i remoti Cimmerii (i Celti?),
ospiti di Apollo, dai quali venivano ogni anno a Delo le offer-
te, avvolte nella paglia.2
Della sua prima giovinezza tebana restano pochi versi e
alcuni aneddoti riguardanti sempre Corinna. Pare che la poe-
tessa, bellissima donna del resto, non lo lasciasse in pace. Lo
batté in gare di poesia (merito della bellezza, dice Pausania, o
forse del purismo) ed è chiaro che quando rimp roverò la col-
lega Mìrtide di mettersi in gara con Pindaro – lei, «nata donna»
– nascondeva una risata impertinente. Lo incolpò anche di fare
poco uso del mito; Pindaro replicò con un inno a Tebe così
copioso di mitologia che Corinna esclamò: «ma con la mano si
2Erodoto, IV, 33.
INTRODUZIONE
semina, non col sacco!», al che Pindaro sbottò in un «porca
beote!» che, in italiano, non suona bene. Ma è un esempio di
traduzione come calco-errore. Non solo il porco non era nel-
l’antichità ani male discriminato, ma sia l’epiteto che l’ambiguo
aggettivo erano condivisi da Pindaro, con suo vero sdegno (O.
VI, 141-3). Rapporti allegramente borgognoni, com’è nello
stile di certe vecchie aristocrazie.
Oltre i monti c’erano due grandi richiami: la sacra Delfi e la
già intelligente, la già nemica Atene. Quando vi andasse
Pindaro e quanto e come vi stesse è problematico, perché la
guerra era scoppiata subito dopo le riforme democratiche di
Clistene del 508 e durò incattivita per un numero di anni e con
una conclusione che Erodoto si dimenticò di precisare. Ma
non si può credere che Pindaro ci andasse prima, in età infan-
tile; dovettero esserci schiarite che aprir ono, almeno eccezio-
nalmente, quei confini pieni di rancore comunale. Certo ad
Atene ebbe il suo principale maestro, Laso di Ermione, rifor-
matore del ditirambo, ricordato da Pindaro con considerazio-
ne. Vi conobbe forse Simonide e certo Eschilo, di cui ammirò
«il linguaggio grande». Molte cose avrà ammirato ad Atene, e
soprattutto gli ateniesi, la loro cultura acerba e pia, già protet-
ta dai Pisistratidi, la loro «agorà tutta arte», come la evocò
dopo la distruzione quando non poteva essere in gran parte
che un indimenti cabile ricordo.
Ma la rivoluzione democratica non possiamo pensare che
l’approvasse: una ristrutturazione numerica, che ignorava i
dolci legami feudali, le tradizioni senza tempo delle fratrie,
perfino i patronimici, perfino il ritmo lunare dell’anno e il
sacrale numero dodici sostituiti dal computo solare e dal-
l’aritmetico dieci. Pindaro avrà ignorato queste anticipaz ioni
della Convention e avrà continuato a vedere «l’altra» Atene.
Ma, da ragazzo e dopo, avrà anche trovata naturale la crociata
del vecchio mondo, Sparta in testa, braccio secolare di Delfi,
contro quella città orgogliosa. È notevole tuttavia che non
dicesse mai una parola contro Atene. Potendo, loderà perfino
gli Alcmeonidi, se non come democ ratici, almeno come esuli
che avevano tanto operato per la ricostruzione del tempio del-
PINDAROEILSUOTEMPO
fico di Apollo distrutto da un incendio. Sarà felice, un giorno
lontano, di poter celebrare Atene «cittadella dell’Ellade» e –
finalmente – «divina».
Se di Atene fu ospite, a Delfi fu di casa. L’aureo partico -
larismo greco permetteva più patrie, e Delfi era quella della
fede, era la città di Apollo, il Dio per cui aveva, osserva
Jaqueline Duchemin, una devozione più segreta. Dobbiamo
pensarlo nell’intimità sacerdotale degli hosioi(«i santi»), parte-
cipe dei segreti del santuario in cui il misticismo più sincero si
fondeva con quella che diciamo la «politica», categoria di cui
non solo Pindaro e il vecchio mondo, ma neppure i nuovi
uomini che venivano creandola avevano la minima coscienza.
Avrà partecipato alla trascrizione e alla delicata interpretazione
dei messaggi del Dio, trasmessi dalla voce della Pizia. Ciò pote-
va far parte delle competenze di un poeta o, come ancora si
diceva, d’un «cantore», aoidós. «L’esprit de Delphes», quella
Emp findlichkeit, quel riformismo sottile e quasi inconscio,
quell’illuminismo devoto, hanno influenzato e incoraggiato
profondamente lo spirito e la poesia di Pindaro. Il culto è
anche luogo, e particolarmente nel mondo antico il divino non
era «do vunque». Pindaro è impensabile senza quelle pietre,
quelle rovine ancora oggi incomparabili e diverse, nella valle
soli taria dominata dalle Fedriadi, e soprattutto non deve esse-
re pensato senza il suo sacerdozio, a cui l’oracolo stesso diede
un eccezionale crisma3 e che sarà ricordato per secoli con un
rito commosso.4I dialoghi «delfici» di Plutarco danno un’idea
chiara di quel mondo, in una fase molto più modern a ma non
più interiore. Le eterne sentenze che brillavano sul tempio di
Apollo erano sempre il punto di partenza di ogni meditazione.
3«Aveva già nomea per tutta la Grecia quando la Pizia lo sollevò al cul-
mine della gloria ordinando alla gente di Delfi di dare a Pindaro parte ugua-
le di tutte le offerte che venissero fatte ad Apollo» (Pau sania, IX, 23, 3) .
4 Così ne fa cenno Plutarco, pure sacerdote di Delfi: «ricòrdati delle
recenti teossenie e di quella bella porzione che si preleva e si offre a gran voce
ai discendenti di Pindaro, e come la cosa ti apparve sacra, dolce... » (De sera,
557 F). Nel santuario si conservava la sedia di ferro su cui il poeta «sedeva,
quando veniva a Delfi, e recit ava tutti i suoi canti in onore di Apollo»
(Pausania X, 24, 5).