Table Of ContentSul Salario minimo
{di seguito un breve intervento di Carla Filosa sulle ipotesi di Salario
minimo. La questione è stata affrontata con Carla nella trasmissione
domenicale di Radio onda rossa 87.9 a Roma –
http://www.ondarossa.info – proprio al ridosso della sua iniziale
pubblicazione su La Città Futura. Qui il podcast:
http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/2019/05/vengo-anchio-26-
maggio}
31 maggio 2019
di Carla Filosa*
Per leggere anche i disegni di legge sul salario minimo (PD: n. 310; 5Stelle: ddl
n. 658; LEU: ddl n. 862) non è sufficiente conoscere il significato comune o
apparente delle parole ivi contenute: è necessario riconoscerne il significato,
sempre sottinteso se non ignorato, per comprenderne il contenuto reale o
scientificamente concreto. Per la corretta individuazione di quest’ultimo si
accolgono qui le categorie dell’analisi marxiana della critica dell’economia
politica, alla luce della quale soltanto è possibile cogliere la forma attuale, ma
celata, di questo sistema di uso profittevole del lavoro, inconsapevolmente
destinato, lui, all’immiserimento progressivo. Per forma è da intendere la
sostanza, l’organizzazione, l’edificio interno ed esterno entro il quale prende
vita e si racchiude di necessità ogni relazione sociale, nelle sue modalità
altrimenti inconoscibili perché queste non evidenziano la natura, le cause reali
del loro apparire, come fossero sufficienti a sé stesse, senza rinvio ad altro che
non sia l’essere così come sembrano. Comprendere la concretezza dei rapporti
sociali, delle cose e delle parole è possibile allora solo conoscendo in quale
forma storica e logica essi si presentano e vengono usati. Ad esempio il lavoro
salariato è la forma specifica in cui bisogna comprendere cosa sia il lavoro in
questo sistema capitalistico, in cui si presenta libero e separato dai mezzi di
produzione. L’accesso al salario è qui finalizzato alla produzione di un valore
(tempo di lavoro erogato) eccedente (che non viene pagato) il necessario
(pagato) per vivere. Il salario insomma non ripaga tutto il lavoro contrattato
ma solo una parte e questa viene continuamente ristretta, compressa. Il
lavoratore oggi incarna una forma di proprietà privata nel senso che questa lo
esclude, lo priva del prodotto del suo lavoro come della maggior parte della
ricchezza sociale appropriata da una minoranza di espropriatori.
All’esame del disegno del PD si evidenzia immediatamente, nelle finalità della
proposta, l’ambiguo obiettivo di fornire al lavoratore “una retribuzione
proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ...”, richiamando l’art. 36 della Costituzione. Qui, infatti, per
assicurare “un’esistenza libera e dignitosa”, cui seguono la consacrazione del
diritto di sciopero e la libertà sindacale, implicitamente si ammette che solo
attraverso una lotta è possibile il conseguimento di quell’obiettivo, comunque
non garantito dalla Costituzione. La realtà di una lotta di classe, che di volta in
volta rimette in discussione quel minimo dignitoso della retribuzione,
occhieggia dietro questo e altri articoli costituzionali, in cui la genericità e
l’assenza di ogni efficacia normativa rinviano a un’ideologia borghese vòlta a
cancellare la divisione sociale del lavoro, per evidenziarne solo quella tecnica e
passare all’armonizzazione sociale continuamente auspicata.
La definizione di “salario minimo orario”, nel ddl ora in esame, si monetizza in
non meno di “9 euro al netto dei contributi previdenziali e assistenziali”,
incrementabili il “1° gennaio di ogni anno…”, senza altra necessaria
connotazione di tipo concettuale o storico. Il sospetto che si eviti di precisare
cosa sia il salario per il datore di lavoro – e cioè un investimento produttivo
per l’acquisto della forza-lavoro – e cosa sia invece una volta diventato reddito
per il lavoratore – ossia denaro improduttivo che scompare nell’acquisto di
mezzi di sussistenza – si collega a quell’anodino “minimo” concepito quale diga
all’affondamento normalizzato delle retribuzioni sotto ogni soglia, negatrice di
ogni “dignità” dell’esistenza. Che poi il salario in questo sistema sia ancora
un’entità sociale, reale e relativa (cioè non solo individuale come busta paga,
equivalente alla quantità di merci effettivamente scambiabili, infine da
commisurare al guadagno, profitto del capitalista, al cui confronto la capacità
d’acquisto può risultare diminuita pur restando immutato il suo valore reale),
significa che deve risultare sempre “minimo” entro i limiti delle sue oscillazioni,
per l’intera classe lavoratrice cui si riferisce.
Nelle norme di attuazione si prevede l’accordo con i sindacati “più
rappresentativi”, secondo l’indicazione dell’articolo 19, dopo il più famoso
articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si ipotizza che l’esclusione prevista per
i sindacati minori, pur esistenti e legittimi, sia più funzionale al controllo
istituzionale degli obiettivi di conciliazione sociale favorevole alla riproduzione
di questo sistema. Infine la deroga alla contrattazione stipulata prevede la
nullità contrattuale o l’esclusione dai benefici erogabili da una parte, e sanzioni
amministrative per i datori di lavoro (benefattori, come indica la parola, quali
fornitori di posti di lavoro per altri ma mai riconoscibili come profittevoli
personificazioni di capitali).
Il ddl dei 5Stelle ricalca nelle finalità più o meno quelle già espresse, facendo
riferimento anche all’articolo 2094 del codice civile (“È prestatore di lavoro
subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa,
prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la
direzione dell’imprenditore”). La retribuzione deve essere proporzionata “alla
quantità e qualità del lavoro prestato” … “comunque non inferiore a 9 euro
all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Il riferimento
principale è ai contratti collettivi nazionali, in funzione antidumping e a favore
della concorrenza tra imprese. Si citano anche le cooperative con trattamenti
economici anche molto differenziati, talvolta anche in modo ingiustificato. Si
riconosce l’inesistenza di strumenti vòlti a dare certezza del diritto per
contrastare efficacemente la competizione salariale al ribasso o che garantisca
la correttezza concorrenziale tra imprese. Anche qui l’art. 36 della Costituzione,
comma 1; e art. 39 comma 2,3,4 costituiscono le linee guida.
Nella proposta di LEU, iniziativa del deputato Pastorino, si parla di “salario
minimo orario e equo” dietro la cosiddetta equità di un “compenso” pagato per
difetto, e a una frammentazione lavorativa costretta ad autodefinirsi
“autonoma” per il lato formale, mentre per quello pratico, concreto, risulta nei
fatti dipendente. L’equo formale, quindi, stabilito per contratto, accordo,
commessa o incarico una tantum non ripaga mai tutto il valore lavorativo
erogato. Il cosiddetto salario remunera solo una quota di lavoro effettivamente
svolto, quella necessaria o relativa al tempo storico in cui si calcola il
fabbisogno per riprodurre al minimo quella forza-lavoro, il cui uso invece,
preventivato come iniquo, deve produrre gratuitamente – e quindi
nascostamente – più valore di quello prefissato, un’altra quota di guadagno da
riservare al solo committente.
L’“autonomia” del lavoratore consente inoltre di nascondere forme raffinate di
cottimo (previsto come autosfruttamento “volontario” del lavoratore per
ottemperare al rendimento preordinato), come pure a non pagare, da parte del-
l’offerta di posti di lavoro, i dovuti contributi previdenziali che perciò ricadono
a carico dell’“autonomo”. Questa presupposta autonomia viene poi attribuita
anche ai cosiddetti riders, per lo più privi di qualsivoglia assicurazione,
abbandonati tra i “senza diritti” nell’ultima atomizzazione del mercato del
lavoro. Forti di un’attività lavorativa perché “fuori della sede fisica
dell’impresa”, i committenti risparmiano anche i dispositivi non aziendali (bici,
motorini, smartphone, tablets, ecc.) e impongono ai loro fattorini una lotta
giuridica per il riconoscimento di documentabile “lavoro dipendente”, in cui
tempi ed esiti prolungati portano intanto tassi di sfruttamento tendenti
comunque ad abbassare i livelli dei salari sociali. Tutti gli articoli (11) presentati
sono rivolti a “riequilibrare un divario di potere fra committente e prestatore
d’opera”. Divario, in questo sistema, riducibile ma non eliminabile, in quanto
basato proprio sul comando e sulla coercizione del lavoro altrui.
Il salario minimo orario viene proposto per l’attuazione di una vita “dignitosa”,
“mantenendo una concorrenza leale” tra lavoratori, “al fine di promuovere la
coesione sociale del Paese e favorire la redistribuzione del reddito”.
Innanzitutto la dignità a cui si fa riferimento è strettamente legata alla
possibilità di decisione sulle condizioni oggettive del lavoro che, se gestite da
altri e quindi sottratte al controllo del lavoratore, o alla volontà individuale o
della classe, lasciano questi ultimi alla mercé dell’espulsione lavorativa sempre
in agguato. Nata come incentivo morale all’impegno per il lavoro, la dignità del
vivere è stata introiettata per lo più dai poveri (labouring poors) come qualità
personale meritevole del rispetto sociale, mentre ne è stata ignorata e resa
invisibile la realtà materiale di dipendenza da fattori esterni. Quanto poi alla
“concorrenza leale” tra lavoratori, oltre a forgiare nei fatti la falsa coscienza
ideologica di una supposta solidarietà sempre vanificata dal ricatto sulle
condizioni oggettive del lavoro, è stata artatamente sostituita con la lotta tra
poveri per la sopravvivenza, esposti perciò al ricorso all’illegalità, al mobbing,
al lavoro nero, ecc., e non certo al rispetto delle regole della buona educazione
borghese. Il fine della “coesione sociale” è quindi un altro inganno ideologico
in cui ci si finge una <comunità sociale senza conflitto> per imporre invece
un’impotenza rivendicativa al solo mondo del lavoro, funzionale al
mantenimento assicurato dei rapporti di forza esistenti. Parlare infine di
“redistribuzione del reddito” senza menzionare la precedente produzione del
valore (cioè tempo di lavoro effettuato) di cui il “reddito” è solo una parte
percepita postuma, sempre poi erodibile nelle forme dirette, indirette e
differite, significa ignorare lo sfruttamento (lavoro erogato e non pagato)
normalizzato, il cardine della natura dei profitti e del loro necessario
incremento nel produrre come effetto la progressione della povertà sociale.
Si rinvia ad un successivo decreto l’entità da stabilire del minimo “in relazione
alla retribuzione media regionale, alla produttività e al tasso di occupazione
regionale”. Si fa riferimento alla produttività senza spiegare che invece si tratta
esclusivamente di <intensificare> e <condensare> l’orario (aumento
dell’attività lavorativa – quota di lavoro necessario destinato a ricostituire i
mezzi di sussistenza), per aumentare la quota di lavoro superfluo che produce
il valore eccedente o plusvalore, destinato al solo profitto imprenditoriale.
Aumento della “produttività”, nel linguaggio corrente (o confindustriale),
indicherebbe un aumento della capacità di creare maggiori beni o valori d’uso
nello stesso orario lavorativo o anche con un orario più lungo o più corto. In
realtà si tratta solo di quella parte di pluslavoro che andrà a incrementare i
profitti, aumentando peraltro il divario relativo ai salari, stazionari alla
produttività precedente e pertanto relativamente diminuiti.
Si invoca la “crisi economica” per giustificare l’aumento della popolazione
caduta ben al di sotto della soglia di povertà. Non si precisa che la crisi è dovuta
al funzionamento strutturale di questo sistema di capitale, cioè sempre
ricorrente e sempre pronto a riversarsi in crisi di lavoro, ovvero con
licenziamenti – altrimenti definiti come la “messa in libertà”, “esuberi” o con
altri mistificanti eufemismi – precarizzazione, flessibilità, intermittenza
lavorativa, abbassamento salariale, dislocazioni produttive, ecc. In altri termini
i lavoratori scontano, con l’impoverimento programmato, l’incapacità
produttiva del sistema capitalistico determinata dalla saturazione di domanda
pagante delle merci prodotte, per cui la produzione dev’essere interrotta o
comunque ridotta. La ricerca dell’abbassamento dei costi – di cui la forza-
lavoro costituisce la parte più rilevante – coinvolge così tutta una popolazione
sostenuta dal solo reddito residuo dei lavoratori superstiti, cui si accolla tutto
il peso della disoccupazione disseminata in tutti i settori produttivi e
improduttivi, il mantenimento dei giovani, il sostegno di servizi sociali (scuola,
sanità, trasporti, ecc.) da cui lo stato si ritrae, diminuendo così anche la parte
indiretta dei salari.
“L’esistenza libera” e “la dignità professionale” cadono pertanto sotto il maglio
del funzionamento ottimale di un sistema che in tutti i settori produce al
massimo delle forze produttive esistenti fino a intasare i mercati. La società nel
suo complesso viene privata della maggior parte della ricchezza prodotta e
conseguentemente deve ridurre i propri bisogni per sopravvivere come può,
abbandonando sogni o ideali di dignità, mai posseduta nelle condizioni
materiali della sua esistenza.
Concludendo, la fissazione di un “termine di salario minimo orario” può anche
essere uno strumento per contenere i tassi di sfruttamento lavorativo
astutamente messi in atto da questo sistema. Inutile però fissare sanzioni
all’elusione già prevista della normativa, se non si accompagna ad un sistema
di controllo capillare della stessa. Il ricatto sempre in voga di comprare una
forza-lavoro, purché al di fuori delle norme vigenti, non può essere scoraggiato
dalla sola istituzione delle multe alla loro evasione. Non si può nemmeno più
pensare ad un ruolo sindacale di controllo o di difesa della forza-lavoro,
essendo stati questi sindacati storici, promossi a unici interlocutori, risucchiati
entro un comparto istituzionale neo-corporativo di assenza conflittuale sociale.
Se a questo limite al ribasso non emerge una coscienza sociale di tutte le
motivazioni che hanno condotto a questo ripiegamento – invece di chiedere un
aumento del valore della forza-lavoro e cioè un incremento salariale come
sarebbe necessario in un rovesciamento dei rapporti di forza – non si potrà
formare una capacità efficace di lotta collettiva allo sfruttamento del salario e
alla marginalizzazione sociale che ne consegue. L’abbassamento della qualità
della vita – per definizione privata della gestione della propria dignità
economica – come pure delle soglie di povertà praticamente in ogni Paese, può
considerarsi come la condizione materiale già realizzata per il riscatto di
popolazioni sempre più allo stremo. Un innalzamento della coscienza sociale
di classe, che cioè prenda atto di questi meccanismi di subordinazione costante
e generalizzata, potrebbe sicuramente incrinare l’“ideologizzazione
individualistica” con cui sono state imbrigliate le forze ancora capaci di lottare
contro questa strisciante nuova schiavitù. Una coscienza critica, dunque, che
ponga la necessità vitale dell’emancipazione sociale dall’asservimento sempre
più disumanante di questo sistema, potrebbe evitare rivolte inefficaci o tattiche
politiche perdenti, e condurre verso strategie in grado di riconoscere alla
maggioranza reale della popolazione l’ineluttabile forza di conquista di una
governabilità razionale a favore della collettività, tuttora costretta a non
riconoscersi nelle proprie potenzialità concretizzabili.