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STORIA DELLA DIALETTICA
Il lettore ha sotto gli occhi, e potrà liberamente giudicare, una
sintetica storia della dialettica nel pensiero occidentale. Si tratta
in realtà di una storia molto "breve", anzi "brevissima". Non ho
però ritenuto opportuno di dilungarmi, non certo perché non ne
valesse la pena, ma perché è inutile portare vasi a Samo, e cioè,
detto fuor di metafora, aggiungere altri inutili quintali di carta ai
quintali già esistenti dedicati alla dialettica, alle differenti
definizioni che ne sono state date, ed infine alle monografie
specialistiche sui vari pensatori più o meno noti che se ne sono
occupati. (Dalla prefazione)
http://cultura-non-a-pagamento.blogspot.it/
Editrice petite plaisance
2006 Pistoia
ISBN 88-7588-083-2
STORIA DELLA DIALETTICA
Premessa
Il lettore ha sotto gli occhi, e potrà liberamente giudicare,
una sintetica storia della dialettica nel pensiero occidentale. Si
tratta in realtà di una storia molto "breve", anzi "brevissima".
Non ho però ritenuto opportuno di dilungarmi, non certo
perché non ne valesse la pena, ma perché è inutile portare vasi
a Samo, e cioè, detto fuor di metafora, aggiungere altri inutili
quintali di carta ai quintali già esistenti dedicati alla dialettica,
alle differenti definizioni che ne sono state date, ed infine alle
monografie specialistiche sui vari pensatori più o meno noti
che se ne sono occupati. Di questo farò cenno nella nota
bibliografica generale commentata, che è anche in un certo
senso un capitolo a parte. In questa premessa mi limiterò
quindi ad alcune segnalazioni utili per la lettura.
In primo luogo, è chiaro che in un lavoro del genere è
impossibile evitare di cadere in errori o in fraintendimenti. Non
si tratta ovviamente delle interpretazioni che darò a molti
pensatori, interpretazioni del tutto anomale ed atipiche ma che
rientrano nella mia più completa libertà ermeneutica, quanto
di errori veri e propri. Se è così, prego tutti coloro che per caso
rilevassero questi errori di scrivermi e di segnalarmeli per una
eventuale seconda edizione migliorata. Il mio indirizzo è:
Costanzo Preve, via Piazzi 33, 10129 Torino. Nella generale
dissoluzione contemporanea di ogni comunità indipendente e
"gratuita" di studiosi, siamo tornati al "medioevo" degli
indirizzi personali. Ma forse è meglio così.
In secondo luogo, è chiaro che non ho potuto né
soprattutto voluto scrivere una storia "completa" della
dialettica nel pensiero occidentale. Vi sono molti autori
"saltati", che pure sarebbero stati interessanti da analizzare.
Tuttavia, non ho perseguito di proposito una pur possibile
"completezza" enumerativa, preferendole un discorso più
lineare e sintetico. Il mio discorso, infatti, in un certo senso
"precipita" nel quindicesimo ed ultimo capitolo, in cui tento di
disegnare un profilo sommario del tempo storico in cui ci è
dato di vivere proprio alla luce dell'eredità dialettica del
pensiero occidentale. A questo punto, anche se sono appena
accennati Epicuro, gli stoici, eccetera, il danno non sarà grave.
Il lettore ha a sua disposizione storie della filosofia ricchissime
e dettagliate.
In terzo luogo, il lettore si troverà di fronte non solo ad
alcune novità interpretative, come è normale che sia, ma anche
di fronte ad alcune innovazioni filosofiche relativamente
"scandalose". Nei manuali di filosofia vengono in genere
classificati come "idealisti" tre pensatori tedeschi dell'epoca
romantica (Fichte, Schelling e Hegel), mentre Marx viene in
genere connotato come critico dell'idealismo e quindi come
materialista, più o meno dialettico (anche se pochi giungono
fino al punto di connotarlo erroneamente come fondatore del
"materialismo dialettico", togliendo in questo modo l'onore
della scoperta al buon Engels). Nella mia interpretazione,
invece, non si parla di Schelling (non perché non lo meriti, ma
perché non fa parte a mio avviso dell'idealismo propriamente
storico e sociale), ed in compenso vengono classificati come
idealisti dialettici Fichte, Hegel e Marx. Questo può stupire o
scandalizzare a piacere, o anche solo sollevare un sorrisino di
compatimento o suscitare una frettolosa alzata di spalle. Non
intendo convincere nessuno, ma solo portare socraticamente
(ed aristotelicamente) alcuni ragionamenti "probabili" a
supporto di questa interpretazione.
In quarto luogo, infine, suggerisco al lettore di collocare
questa mia breve storia della dialettica nel contesto più ampio
ed articolato dei miei lavori più recenti, che ricorderò nella
nota bibliografica generale. Se infatti sono andato un po' "di
fretta" su alcuni decisivi argomenti, ciò è dovuto al fatto che mi
sono soffermato più ampiamente su di essi in altre sedi. Così
facendo, credo che questo mio lavoro ci abbia guadagnato in
chiarezza e snellezza.
Viviamo in un'epoca storica apparentemente adialettica, o
se si vuole poco dialettica. Ciò è già avvenuto altre volte in
passato, e questo deve servirci da sia pur povera consolazione.
Il tempo "generazionale" della nostra vita è breve, e non
coincide praticamente mai con i tempi storici più lunghi dei
movimenti storici e sociali decisivi. Forse, come dice un
proverbio cinese, è un bene non dover vivere in un periodo
storico "interessante". Coloro che si trovarono ad avere
vent'anni nel 1914 o nel 1939, vissero indubbiamente in
un'epoca storica più interessante della stagnazione morale ed
antropologica in cui siamo (apparentemente) immersi, ma ne
pagarono anche prezzi per noi quasi incredibili.
E allora si potrebbe dire come nel film Quarto Potere a
proposito della stampa: è la dialettica, bellezza!
Introduzione
Dialettica e filosofia nella storia bimillenaria
del pensiero occidentale
La filosofia è un'attività sociale, e come tutte le altre
attività sociali emerge direttamente dal lavoro e dal linguaggio
umani, lavoro e linguaggio che hanno una peculiare
caratteristica "generica" rispetto al lavoro di molti animali
(castori, api, termiti, eccetera). A suo tempo Karl Marx rilevò
acutamente questa differenza essenziale fra il comportamento
animale ed il comportamento umano, osservando che mentre
l'architetto deve anticipare nel suo pensiero il progetto della
costruzione che si accinge a fare, l'ape invece non costruisce
l'alveare sulla base di una progettazione libera preventiva, ma
sulla base di un suo corredo genetico integralmente
programmato. Da questa osservazione di Marx è passato un
secolo e mezzo di studi etologici comparativi sul
comportamento animale ed umano, ma non mi sembra che vi
sia stato aggiunto nulla di rilevante.
In quanto architetti del peculiare e differenziato legame
sociale che costruiscono, gli uomini filosofeggiano, mentre le
api non lo fanno. Si potrebbe però obiettare che gli uomini non
hanno sempre filosofeggiato, mentre invece hanno sempre
dovuto mangiare, bere e difendersi dal freddo e dal caldo. Le
società (impropriamente) dette "primitive" hanno costruito
indubbiamente attività in vario modo simboliche (miti,
totemismo, magia, eccetera), ma non risulta che abbiano anche
aperto uno specifico spazio "filosofico" nelle loro comunità.
L'uomo dunque indubbiamente filosofeggia "per natura",
perché questo deriva appunto dalla sua specifica natura di
architetto e non di ape, ma a questa potenziale natura deve
anche aggiungersi "in atto" uno spazio sociale particolare,
integralmente storico, in cui questa potenzialità naturale possa
esplicarsi. Il lettore si accorgerà a questo punto che sono stato
costretto ad impiegare una categoria filosofica che
storicamente risale ad Aristotele, quella del passaggio dalla
potenza all'atto.
Se la filosofia è una attività storica e sociale, anche le
categorie verbali e concettuali che utilizza saranno di
conseguenza storiche e sociali. E sarebbe infatti ben strano che,
se la filosofia è un'attività storica e sociale, le categorie verbali e
concettuali che usa non lo fossero, e fossero invece per così dire
"cadute dal cielo".
Eppure, è proprio questa la finzione insostenibile con cui
sono costruite più del novanta per cento delle storie occidentali
della filosofia. A un certo punto, in modo misterioso, qualcuno
comincia a porsi lo strano problema se il mondo in cui viviamo
sia derivato dall'acqua, dal fuoco o dall'aria oppure se ci sia
qualcosa di stabilmente ed eternamente vero o se invece tutto
sia relativo e convenzionale. Come è possibile una simile
assurdità?
E possibile, è possibile. Ed è possibile, appunto, perché
anche questa assurdità ha una specifica origine sociale, e cioè
quella che potremo chiamare l'ideologia della destoricizzazione
volontaria (o, più esattamente, in un primo tempo
inconsapevole, e poi consapevole).
Nella misura in cui il soggetto pensante tende a pensare
ed a concepire il mondo sociale in cui vive come una sorta di
eternità permanente i cui valori riproduttivi sono insuperabili,
e poco importa che siano schiavistici, feudali, capitali-stico-
liberali oppure infine staliniano-comunisti, eccetera, è
inevitabile che si accompagni a questo modo di vedere anche
una parallela destoricizzazione concettuale, in cui la genesi
storica dei concetti è cancellata ed al suo posto si afferma una
sorta di "validità" astratta.
Il primo grande filosofo che è caduto in questo
(comprensibile) errore è stato forse Aristotele (e vedremo nel
capitolo quarto che è proprio per questa ragione che in lui la
dialettica è sottovalutata).
Per fare un esempio più moderno, la grande storia della
filosofia di Nicola Abbagnano, che è pure ricchissima di
profondità e di erudizione, è integralmente costruita su questa
rimozione della genesi storica e sociale dei concetti. E questo
non è un caso, perché tipico del cosiddetto "liberalismo laico" è
l'assolutizzarsi come forma matura della razionalità in sé.
Ma torniamo al carattere integralmente sociale
dell'attività filosofica. Questo carattere integralmente sociale
permane anche e soprattutto quando il filosofo vive
integralmente isolato e medita in solitudine.
Eraclito di Efeso, ad un certo punto della sua vita, era
talmente schifato dal comportamento dei suoi concittadini che
andò a vivere isolato fra le pietre di un tempio, e la sola attività
"sociale"che continuò a svolgere fu il giocare a dadi con i
ragazzini. Eppure, se ne converrà facilmente, anche questa
scelta di sdegnosa solitudine era integralmente "sociale",
perché aveva come genesi della scelta di esodo, secessione ed
isolamento lo schifo che gli facevano i suoi cittadini corrotti e
maneggioni.
Anche Robinson Crusoè filosofeggia nella sua isola
solitaria senza poter parlare con nessuno, ma tutti i suoi
pensieri derivano da un monologo interiore che è in realtà un
dialogo silenzioso o con sé stesso sdoppiato o con un
interlocutore evocato nella sua fantasia sulla base della sua
precedente educazione, quella cioè che aveva preceduto il
naufragio.
La filosofia come attività sociale si serve dunque di parole
e di concetti che hanno anch'essi un'integrale genesi sociale, di
cui è utile fare sempre la "deduzione storica". Noi esprimiamo
infatti i nostri concetti astratti in parole, esattamente come
esprimiamo in parole gli oggetti materiali e gli eventi che ci
riguardano o di cui siamo venuti a conoscenza. Ho letto da
qualche parte che gli esquimesi del Canada hanno trentanove
parole per indicare la neve, e non alludo ad aggettivi legati ad
un unico sostantivo (del tipo neve fresca, neve bagnata, neve
ghiacciata), ma proprio a trentanove sostantivi diversi. E questo
non deve stupire, perché nella vita materiale degli esquimesi, e
quindi nella loro riproduzione individuale e sociale, la neve ha
un'importanza centrale e bisogna sempre trattarla in modo
differenziato, laddove immagino che fra i pigmei della foresta
equatoriale del Congo, dove non nevica mai, non ci sia nessun
termine per indicare la neve, ed i bambini pigmei dicano neige
o snoiu sulla base della loro precedente colonizzazione
europea, francese o inglese.
Sarebbe allora strano che il linguaggio filosofico e le
categorie che esso usa non seguisse lo stesso principio della
neve degli esquimesi o della foresta equatoriale dei pigmei. Le
due lingue filosofiche principali della tradizione occidentale
sono state il greco antico prima ed il tedesco poi, e sarebbe
assurdo slegare la genesi di questo lessico dalle condizioni
storiche e sociali in cui è nato ed in cui è stato poi adottato.
Eppure è ciò che si fa continuamente.
Il termine greco logos, il termine indiano dharma, il
termine tedesco Entfremdung (alienazione), eccetera, non
possono certamente essere tradotti nella lingua degli esquimesi
e dei pigmei perché non corrispondono a nessuna esperienza
collettiva ed individuale di questi popoli. Nello stesso tempo,
tutti questi termini sono in via di principio traducibili con
lunghissime perifrasi esplicative, e nello stesso tempo anche
dopo queste lunghissime perifrasi esplicative essi non risultano
affatto sovrapponibili a termini "locali".