Table Of ContentSegretissimo n. 201
Del 5 ottobre 1967
Jean Bommart
Un odore di mandorle amare
Titolo originale: Intoxication, 1965
Traduzione di Sarah Cantoni
Copertina di Carlo Jacono
Indice
©
Trama
Personaggi principali
Jean Bommart
Opere
1
Con un acuto stridio il mio tassì cinese si fermò bruscamente e l’autista. sorrise da un orecchio
all’altro. Credetti in un primo momento che avesse schiacciato qualcuno; in questo paese, più si è
seccati, più si sorride. Gli stranieri scambiano per forza d’animo una precauzione atavica diventata
costume: nascondere con cura i propri sentimenti. In Cina, si pensa che qualsiasi verità è sempre
meglio tacerla.
Eravamo davanti agli sportelli della «Compagnia di Navigazione Hong KongMacao». Il
tassametro segnava due dollari (di Hong Kong); ne pagai tre e l’autista mi fece un profondissimo
inchino di ringraziamento, a mani giunte sul petto, borbottando una frase d’insulti all’indirizzo di mia
madre, di mia nonna e degli antenati di quest’ultima.
Era presumibile ch’io non comprendessi; non c’era dunque, alcuna cattiveria da parte di quel
brav’uomo, appena un po’ di ostilità razziale. Replicai educatamente in inglese che lui era il prodotto
dell’accoppiamento, su un letamaio, fra una scrofa nera e un cane bastardo, il che parve colmarlo di
soddisfazione.
L’imbarcadero era un pontone. Trovai dall’altra parte un piccolo piroscafo il cui ponte superiore,
da poppa a prua, era ricoperto da una volta di aste di ferro che gli davano l’aspetto di una gigantesca
gabbia.
All’interno le varie classi erano anch’esse separate da cancellate chiuse col lucchetto. Era una
misura di sicurezza contro i pirati che un tempo infestavano quei paraggi. Ora essi si dedicano al
saccheggio di banche, più redditizio.
La stiva di quel venerando piroscafo, superstite di tempi eroici, si riempiva di sparuti «coolies»,
poveri diavoli a brandelli, scaricati come merce tramite un’asse. Un bel giorno le lamiere corrose
dalla ruggine cederanno e un carico simile a quello affonderà insieme al piroscafo. L’assicurazione
pagherà e la Compagnia avrà ricavato il massimo dal suo materiale.
Fatto il biglietto, raggiunsi il ponte di prima attraverso l’apposita passerella. Da lì una scala saliva
al cassero di comando, dove troneggiava un grosso capitano cinese meticcio col berretto
supergallonato d’oro. Presi una sdraio, la trascinai all’ombra del cassero e mi ci sprofondai posando
la valigia accanto a me. Un «jet» militare mi aveva portato da Taipei, capitale di Formosa, a Hong
Kong – seicento chilometri – in un’ora. Me ne sarebbero occorse cinque per superare i cento
chilometri che mi separavano da Macao a bordo di quel trabiccolo!
Accesi una sigaretta, poiché l’odore era davvero spaventoso. A quello di spurgo proveniente dal
fiume si aggiungeva quello dei «coolies» ammassati nella stiva, puzzo di serraglio mal tenuto.
Anche il ponte di prima si riempiva: uomini d’affari gialli o europei, alcune donne gracidanti
intorno a degli uomini danarosi vestiti di tweed, due pastori e un gruppo di ragazzine con istitutrice,
probabilmente interne di un collegio di Hong Kong ricondotte alle loro famiglie a Macao.
Quasi tutti portavano occhiali neri, perché il sole incominciava ad accecare. Pensai di aver
dimenticato i miei e mi palpai le tasche imprecando. Poi li trovai nella fondina della mia Beretta,
sotto la spalla sinistra.
La sirena mugghiò, spruzzandoci di gocce d’acqua. Il capitano giallo, piantato sulle sue corte
gambe, con a fianco un tipo alto e magro che doveva essere il suo secondo, gridava qualcosa a un
agente della Compagnia sul pontone. A quanto capii, riteneva impossibile ficcare altra gente nella
stiva. Dei poliziotti sikh barbuti respinsero i ritardatari in lacrime mentre venivano ritirate le
passerelle. La sirena mugghiò di nuovo, coprendo le rumorose proteste. L’elica agitò violentemente
le acque fetide del fiume delle Perle e il «Magellano» si staccò dal pontone.
Finalmente un po’ d’aria! Mi diressi verso prua, ma tornai di volata a prendere la valigia. Mi
avevano avvertito: «Non abbandonatela, o sarà lei che vi abbandonerà!».
Arrivato vicino al cassero, m’interessai alla manovra di pilotaggio del «Magellano». Visibilmente
senza fiato, il povero vecchio piroscafo spremeva dalla sua macchina asmatica tutto ciò ch’essa
poteva dare, per restare governabile nella corrente raddoppiata dal riflusso della marea. Il suo
grosso capitano giallo moltiplicava gli ordini al timoniere, evitando delle giunche panciute o dei
gruppi di «sampans»
rimorchiati che si sforzavano di risalire il fiume che noi discendevamo.
Lo spettacolo mi stanca presto e ritorno alla mia sdraio, dove mi stendo per dormicchiare. Avevo
lasciato Taipei alle sei del mattino e il rombo assordante dei motori dei «jet» militari è logorante.
Una serie di rumori secchi e violenti mi risveglia. Ancora prima di aver aperto completamente gli
occhi, ho riconosciuto il suono degli spari. Per questo motivo, invece di balzare in piedi, mi lascio
rotolare dalla sdraio sul pavimento del ponte. Poi, pistola in pugno, alzo la testa.
Uno spilungone di cinese in berretto – quello che immagino sia il secondo di bordo – alza le mani
indietreggiando lentamente verso l’impavesata, sotto la minaccia di due individui armati di mitra. Vi
si addossa, spalancando degli occhi atterriti. Davanti a lui, fra gli altri due, un terzo aggressore in
tuta da fuochista avanza brandendo un grande coltello. Sogghigna, si ferma un attimo per tastare col
pollice il filo della lama, poi riparte verso il prigioniero trinciando l’aria.
Ora sono del tutto sveglio. Uccideranno quel tizio sotto il mio naso! Perché? Non lo so proprio...
Se intervengo, bisogna fare presto e abbattere i tre, senza sbagliarne uno... E senza esitare! Una
pistola contro i due mitra ha una sola probabilità: quella di sparare per prima.
Un’occhiata in direzione del cassero e storco la bocca; altri due individui, in tuta blu, prendono di
mira lassù capitano e timoniere, che alzano le braccia con energia. Stavolta ho capito: un «holdup»!
Ci sono altri uomini, di sotto, dove echeggiano tre spari assordanti!
Mi decido vedendo il tizio del coltello raggomitolarsi su se stesso, gambe semipiegate, pugno
armato rasente terra. Conosco il colpo.
Una lama lanciata dal basso in alto in quel modo, premuta col peso intero del corpo, ha una
penetrazione terribile; capace di sventrare la vittima dall’ombelico fino in cima allo sterno!
Calmo, ma rapidissimo, faccio partire quattro pallottole... Ho ripetuto il tiro contro il terzo che non
si decideva a cadere... Anche lui si affloscia garbatamente sul ponte.
Il secondo del «Magellano» crolla contemporaneamente! Mio Dio! una delle mie pallottole... Ma
no, si è tuffato per afferrare il mitra del terzo. E, bocconi dietro quest’ultimo, eccolo aprire il fuoco
su qualcosa che io non vedo, a sinistra!
A destra arrivano a tutta velocità i due che tenevano a bada il capitano e il pilota. Scendono
precipitosamente la scala del cassero per prendere alle spalle il secondo. Quei due sono miei. Dato
che brandiscono solo delle specie di sciabole o di enormi coltelli, miro alle cosce. Essi ruzzolano
gemendo, l’uno sull’altro, in fondo alla scala.
Poi cerco immediatamente un riparo. È poco igienico rimanere bocconi sul ponte scoperto, con una
sdraio di tela per scudo!
Ma vedo il secondo correre a testa bassa verso poppa. Nessuno spara su di lui, il fuoco è
cessato... Preferisco raggiungere il cassero, salire la scala in tre balzi, il collo rientrato nelle spalle,
una fifa tremenda di una pallottola nella schiena! Approdo a ventre in giù con un sollievo
inesprimibile...
Per trovarmi a naso a naso col capitano. Lui e il timoniere sono accovacciati dietro il parapetto di
lamiera che circonda il cassero.
– Siete ferito, signore?
– No.
– Allora prendete il timone, se non vi dispiace. Governate dritto, e grazie! Io vado ad aiutare il
secondo!
Si raddrizza e, senza aspettare la mia risposta, imbocca di volata la scala, seguito dal suo
marinaio. Più «gonfiato» di quanto pensassi, quell’omone! Vado al timone. «Governare dritto»!
Guardo la scia del «Magellano». Serpeggia mica male, ma io prendo la direzione approssimativa.
Poi blocco la ruota e risalgo i tre gradini dell’abitacolo del timoniere per vedere cosa succede.
Lo spettacolo è riconfortante. Una squadra di sikhs – ma dove erano durante il trambusto? – sta
sbattendo in mare i cadaveri, previo svuotamento delle tasche. Subito dopo i sikhs vengono verso il
cassero a prendere i due feriti ai piedi della scala. Rapida perquisizione. E, oplà!, in mare anche
loro.
Bene. Perfetto. È una giustizia un po’ sommaria, ma che non mi riguarda.
Alcuni secchi d’acqua concludono la pulizia del ponte di passeggio, subito invaso da una folla di
gente eccitata. Il grosso capitano ritorna insieme al suo secondo, il quale mi stringe la mano.
– Grazie, signore, grazie! Il vostro nome, per favore?
– Jack O’Connor.
– Irlandese?
– No, americano. Ma mio nonno era irlandese.
– Se non fosse stato per voi, signore, quei tre furfanti mi avrebbero sventrato! Vi sono
infinitamente riconoscente.
– Ma cos’era, quella banda?
– Pirati! Dei volgari pirati, signore!
Il pilota riprende il timone. Il capitano e il secondo mi conducono in un piccolo ufficio che funge
da «sala nautica» per offrirmi un bicchiere di whisky.
– E così, ci sono ancora dei pirati? – dico.
– Pochissimi! Assalgono al massimo cinque o sei piroscafi all’anno.
– Eppure il «Magellano» è provvisto di inferriate che isolano la stiva dal ponte di seconda e dal
ponte superiore. Come sono saliti? I cancelletti non erano chiusi?
– Lo erano! sospirò il capitano. – Ciascuno con un uomo di guardia. Solo che i pirati hanno
perfezionato la loro tecnica. Il grosso della banda prende come una volta il biglietto di terza, ma due
complici viaggiano in seconda e altri due in prima. All’ora fissata, al sikh dei cancello che isola la
stiva viene intimato di aprire pena la morte.
Con due pistole nella schiena e un mitra sul ventre attraverso le sbarre, cosa volete che faccia?
– Generalmente, vien messo fuori combattimento senza dargli il tempo di gridare! – aggiunge il
secondo.
– Capisco dico. – Quanti erano dunque?
– Voi ne avete abbattuti cinque e io tre. Può essercene un’altra dozzina.
– Ancora a bordo?
– Evidentemente! Fallito il colpo, hanno gettato in mare le armi, e sono ritornati nella stiva. Come
identificarli, adesso?
– Ma qualche passeggero li ha visti, armati?
Il grosso capitano scuote il capo e sorride: – Nessuno se ne ricorderà. Perché rischiare di attirarsi
una vendetta? I pirati sono organizzati in sindacato, caro signor O’Connor, tanto a Hong Kong che a
Macao. Non amano che degli estranei si immischino nei loro affari.
– Ma come mai – dico – il governo comunista di Mao tollera la loro esistenza?
Il capitano guarda il suo secondo, poi mormora: – Non si sa. Può darsi che, all’occasione, rendano
dei servigi, mi spiego?
– Ma il colpo di oggi non è leale! dichiara bruscamente il secondo. – È la prima volta, a quanto mi
risulta, che un piroscafo la cui Compagnia versa l’assicurazione è assalito!
– Perché... c’è un’assicurazione?
– Sì, signor O’Connor! Pagata regolarmente al sindacato! Allora non comprendiamo ciò che è
accaduto... Dov’eravate voi, quando la faccenda è incominciata?
– Dormivo su una sdraio! Mi hanno svegliato degli spari dabbasso.
– Su una sdraio del ponte?
– Sì. A dieci metri dal cassero.
– Avevate forse il cappello sugli occhi?
– Sì.
– E degli occhiali scuri?
– Sì. Perché?
– Oh! – fa il grosso meticcio. – Perché... È una semplice supposizione da parte mia, sapete? Mi è
stato riferito che, mentre procedevano alla raccolta abituale dei portafogli e dei gioielli, quei furfanti
facevano saltare gli occhiali dei passeggeri di sesso maschile ed esaminavano le loro facce.
– O bella!
– Ci chiediamo quindi se cercavano qualcuno.
Mi metto a ridere: – Sicuramente non me! Io sono un onesto viaggiatore di commercio, e non mi
sono mai occupato di politica, capitano!
Lo stesso sorriso cinese increspa gli angoli degli occhi dei miei due interlocutori.
– Vorremmo avere spesso a bordo dei viaggiatori di commercio buoni tiratori come voi, signor
O’Connor! Ancora un bicchiere?
Furono gentilissimi per tutto il resto del viaggio, quei due ufficiali del «Magellano», molto
riconoscenti dell’aiuto che avevo dato loro. Proposero anche di informarne i passeggeri con un breve
discorso di ringraziamento. Li dissuasi. Aggiunsi che preferivo non essere nominato nel resoconto
dell’incidente alle polizie di Hong Kong e di Macao. Mi assicurarono che, secondo il mio desiderio,
non sarebbe stata fatta parola del mio intervento. Sì, si dimostrarono veramente molto comprensivi.
E perfino un po’ troppo, per il mio gusto. Ma non c’era nulla da fare. L’inconveniente delle Beretta
a quattordici colpi, è che attirano la curiosità. Alla fine, quei due semicinesi, che ricordavano Don
Chisciotte e Sancio Panza, tanto uno era smilzo e lungo e l’altro grosso e tarchiato, si erano proprio
messi in testa che quei pirati cercassero qualcuno. Per impedir loro d’immaginare altre cose ancora,
mi lasciai andare a delle confidenze che cinque whisky successivi rendevano verosimili. Confessai
disinvoltamente che andavo a Macao per cercarvi un negoziante in grado di cedermi, a prezzo onesto,
diecimila fucili.
Questo li mise tranquilli. Macao è un posto dove è normale acquistare diecimila fucili come dieci
mila saponette da barba, queste ultime meno facili da trovarsi, del resto.
Erano le due quando il «Magellano» si presentò all’ingresso del porto della colonia portoghese.
Facendosi strada a gran colpi di sirena, attraccò al pontile riservatogli. Una dozzina di «sampans»
che l’occupavano si allontanarono solo dopo nutrite urla di collera, quasi sul punto di essere
schiacciati.
Gettata la passerella, una squadra di poliziotti portoghesi salì a bordo. Il tenente che li comandava
si appartò col capitano mentre i suoi uomini impedivano agli impazienti di sbarcare. Ma due minuti
dopo mise fuori la testa dalla porta, fece un cenno e i poliziotti si tirarono da parte, lasciando che la
fiumana di passeggeri si riversasse sul
la banchina. Poiché l’attacco dei pirati non aveva fatto vittime fra i viaggiatori, l’incidente non
meritava l’attenzione della polizia.
Discesi a mia volta la passerella, la valigia in una mano, il passaporto nell’altra. Nessuno mi
chiese di aprirlo... Peccato! era un «autentico-falso» irreprensibile!
Sul marciapiede dell’imbarcadero mi fermai per accendere una sigaretta. Molto a disagio, devo
dire. Se un pirata avesse voluto vendicare i suoi cinque compagni, gli sarebbe stato facile sgusciare
fino a me nel traffico caotico della carreggiata: un torrente di pedoni, di risciò, di ciclisti zigzaganti e
urlanti invettive all’indirizzo delle auto che irrompevano strombazzando. Mi consolava il pensiero
che, tranne il capitano e il secondo, nessuno mi aveva visto sparare.
Dopo un minuto d’immobilità su quel marciapiede, con la valigia fra i piedi, una sigaretta in bocca
e un’altra infilata sotto il nastro del panama, persi la pazienza e feci segno a un ciclorisciò. Il
conducente si precipitò verso di me con un grido di trionfo e afferrò la mia valigetta per fissarla con
una cinghia elastica sul portabagagli, mentre io salivo nella culla di vimini attaccata alla bicicletta,
che il mio peso di novantacinque chili compresse in modo preoccupante.
– All’albergo del «Fagiano dorato»!
L’ometto fece «sì, sì» con la testa, scoprendo in un ampio sorriso dei mozziconi di denti anneriti
dal betel e partì di volata voltando le spalle alla giusta direzione. Secondo l’abitudine dei suoi
colleghi, voleva fare il giro della città per aumentare il prezzo della corsa. Ma avevo fretta: – No,
dritto al «Fagiano dorato»! Altrimenti, niente mancia!
Girò il capo per valutare la serietà della minaccia, sorrise di nuovo e virò a sinistra senza esitare,
agganciando col manubrio l’abito fluttuante di un passante indù che per un pelo non finì per terra.
Insultò il poveraccio filando a tutta velocità e non risparmiò nemmeno l’autista di una grossa vettura
americana i cui eccellenti freni mi salvarono la vita. Tre minuti dopo sbarcavo dalla mia navicella di
vimini davanti all’albergo del «Fagiano dorato».
All’interno come all’esterno, aveva l’aspetto di un albergo medio di Bournemouth o di Ramsgate:
acagiù, ottoni brillanti e piante verdi.
Nella «hall», due innamorati portoghesi, tre cinesi che cinguettavano di affari intorno a un
tavolino, e un vecchio inglese, dritto come un piolo, gli occhi azzurri fissi nel vuoto, che fumava un
sigaro davanti a un whisky e soda.
Il portiere dietro al banco di acagiù verniciato era un portoghese meticcio, olivastro, tutto tirato a
lucido, dalle sopracciglia, ai baffi a spazzola e ai capelli lisci divisi nel mezzo. Non sapendo se il
consolato mi aveva fissato una camera come d’accordo, dissi semplicemente: – Jack O’Connor.
Avete una camera?
– Certamente, signor O’Connor! Volete mostrarmi il passaporto? Devo segnare il numero sul
registro.
– Eccolo.
Aveva uno sguardo coscienzioso e affaccendato privo di malizia.
Arrivò un «groom», afferrò la mia valigia e mi condusse in una camera a due finestre al quarto
piano, con vista sulla strada. Gli diedi mezzo dollaro di Hong Kong e quello scomparve con un gran
saluto.
Mi spogliai per precipitarmi sotto la doccia. Il caldo era torrido, il mio completo di «sciantung»
intriso di sudore e i rotolamenti sul ponte sporco del «Magellano» non gli avevano certo giovato.
A toletta ultimata, con indosso della biancheria fresca, mi sentivo meglio, ma assetato. D’altra
parte, non era certo in quella camera che il «contatto» promesso dal mio consolato sarebbe venuto e
cercarmi. Qualcuno avrebbe dovuto aspettarmi al pontile di sbarco, oppure nella «hall» del «Fagiano
dorato». Non avevo visto nessuno né al pontile, né in albergo, e non mi era stata prenotata una
camera! Qualcosa non funzionava.
Telefonare al consolato era pericoloso, a meno d’imbroccare all’apparecchio, per una singolare
combinazione, il console in persona.
Avrei parlato col centralino. Un nome americano avrebbe destato la curiosità del personale.
Comunque, anche rassegnandomi a telefonare, l’avrei fatto da un telefono pubblico, non dall’albergo.
Scesi le scale, con la sigaretta sempre infilata nel nastro del mio cappello di paglia.
Nella «hall», i tre cinesi erano scomparsi. Restavano gli innamorati, bisbiglianti nella corrente
d’aria di un ventilatore, l’inglese rigido ed estatico – aveva dei baffi veramente notevoli! – e una
vecchia signora europea intenta a fare un solitario sorseggiando un whisky.
Mentre attraversavo la «hall», una voce esclamò alle mie spalle: – Oh, ma siete voi, signor
O’Connor! Che piacere rivedervi!
La frase di «riconoscimento». Era la vecchia signora! Rimasi così sorpreso che lo sembrai
veramente.
– Oh, buongiorno, signora! Come state?
Anche il «buongiorno» era un segno di riconoscimento, come la sigaretta infilata nel nastro del
panama. Ci stringemmo la mano con effusione. Aveva un viso rugoso dai lineamenti delicati, degli
occhi ancora vivi, i capelli argentei molto curati sotto un cappello di paglia nera infiocchettato, come
quelli delle donne a mezzo servizio londinesi.
M’informai sulla salute di parecchie persone immaginarie della sua famiglia, delle quali la signora
mi diede notizie con la massima disinvoltura. Ad un tratto, siccome mi preoccupavo di una certa
Martha, gridò:
– Martha? Santo cielo, dove ho la testa? Non vi ho ancora detto, caro signor O’Connor, ché ora è
qui, con me?
– Martha? – feci io. – Perbacco! Dev’essere ormai una signorina!
– Lo credo... E molto carina, per di più, signor O’Connor!
– Mi farebbe piacere rivederla!
– Naturalmente. Avete qualcosa da fare prima di pranzo?
– No. Insomma, niente di speciale.
– Allora vi rapisco, signor O’Connor!
Le offrii il braccio, ch’essa rifiutò, e uscimmo. M’indicò una vecchia Morris parcheggiata lì
vicino, m’invitò a salirvi e si mise al volante.
– Andrò piano, girellando un po’... Intanto, voi volete guardare se qualcuno ci segue? D’accordo!
Dopo due minuti fui convinto che i suoi timori erano inutili.
Glielo dissi, ma aggiunsi: – Per altro, se voi appartenete al personale del consolato, il nostro
incontro davanti al portiere può compromettervi.
– A proposito, io non faccio parte del consolato, signor O’Connor! Sono inglese. Pittrice, abito
nella città cinese. Il vostro console, il signor J. T. Spalding, mi chiede qualche volta di prendere
discretamente contatto con persone – uhm! – del vostro genere. Ho l’abitudine di andare a bere un
bicchiere o due negli alberghi europei di Macao e vedo molta gente.
– Ottimo sistema!
– I portieri sanno che sono chiacchierona e curiosa, pronta a fare conoscenza con ogni nuovo
arrivato inglese o americano.
– Perfetto!
Quell’affascinante vecchia signora si chiamava Hoffer. Dopo dodici anni vissuti lì con lei, il
marito, che era produttore in assicurazioni marittime, era morto in seguito a un incidente
d’automobile. Non avendo più parenti in Inghilterra lei era rimasta a Macao. Le sue capacità
pittoriche arrotondavano la sua pensione di vedova: Per vendere le sue tele, dava la caccia ai turisti
nelle «hall» degli alberghi.
Eravamo al centro della città cinese. L’auto percorreva lentamente una strada dove correvano e
giocavano a nascondersi, con risate gioiose, una quantità di bambine dai dieci ai dodici anni.
– C’è una scuola nei paraggi, immagino?
– No – rispose la signora Hoffer. – Vi presento la più famosa via di Macao, la via della Felicità.
– Volete dire che queste bambine dai dieci ai dodici anni...?
– Sì. Sono delle prostitute.
– Povere piccole!
– Non sono infelici, credetemi – replicò la signora Hoffer alzando le spalle. – Le conosco, vengo a
portar loro le caramelle...
Pensate che alla loro età, se avessero avuto la sfortuna di nascere in Portogallo, paese morale e
civilizzato, lavorerebbero dieci o dodici ore al giorno rinchiuse in fabbriche decrepite e malsane! La
morale è questione di longitudine e di latitudine, signor O’Connor. Bisogna guardarsi dai giudizi
precipitosi... Così, vedete, malgrado il vostro mestiere sia di uccidere della gente, a giudicare dalla
grossa pistola che vi gonfia la giacca, io non formulo giudizi negativi nei vostri confronti.
– Grazie, signora! – dissi ridendo.
Lei fermò la macchina: – Ecco la mia casa. Quel portone coi montanti dipinti di giallo, sormontato
da un drago blu. Siccome apprezzo molto la discrezione e non voglio essere immischiata nei vostri
affari, vi lascio qui. Al di là di quel portone, caro signor O’Connor, troverete una scala che conduce
al mio studio. Una persona della segreteria del consolato vi aspetta.
Io ne approfitterò per fare qualche commissione. Terminato il vostro colloquio, lascerete
l’appartamento mettendo la chiave sotto lo zerbino.
– D’accordo! Grazie infinite, signora Hoffer! E arrivederci.
– Addio, signor O’Connor.
Mi fece un cenno col capo e partì. Io non sono di natura ultradiffidente, ma, prima di aprire il
portone indicato, mi assicurai che la mia Beretta fosse in perfetta efficienza. Quella spedizione in
fondo alla città cinese poteva essere un tranello. Dopo di che girai la maniglia e spalancai il battente
con una vigorosa pedata facendomi da parte. Mi apparve una scala cinese, vale a dire una specie di
scala a pioli che portava al primo piano. Mi appiattii contro il muro, puntai la pistola e gridai:
– Ehi! C’è qualcuno?
Non avrei dovuto accostare il portone dietro di me. Se una bomba ruzzolava giù dalla scala,
facevo la fine del topo! Ma fu una testa femminile che apparve in cima... Una graziosa testa che
fissava la mia Beretta con degli occhi spaventati!
– Siete sola?
– Sì... Sì, sì, signor O’Connor.
– Allora, scusatemi dissi salendo, dopo aver richiuso il portone col catenaccio. Ecco assicurate le
nostre spalle, signorina.
La ragazza pronunciò in fretta, come recitasse una lezione: – Mi ha mandato qui il signor Spalding