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Pietro Greco, Nico Pitrelli
Scienza e media
ai tempi della globalizzazione
Pietro Greco, Nico Pitrelli
Scienza e media
ai tempi della globalizzazione
Progetto grafico: studiofluo srl
Impaginazione: adfarmandchicas
Redazione: Stefano Milano
Coordinamento produttivo: Enrico Casadei
© 2009 Codice edizioni, Torino
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-7578-141-5
Prefazione
Sarà la comunicazione a salvarci dal riscaldamento globale?
La questione è stata posta qualche tempo fa a uno degli autori di questo libro
durante una lezione all’università. Il tono era forse un po’ provocatorio, ma
secondo noi è una buona domanda.
Primo, perché racchiude mille altre questioni che riguardano la complessa
relazione contemporanea tra scienza e società. Secondo, perché, seppur con aria
di sfida, pone interrogativi sul valore della comunicazione della scienza.
Siamo entrambi impegnati da diversi anni in attività pratiche e di ricerca in
questo campo e abbiamo la sensazione che si stenti ancora molto a riconoscer
loro un reale spessore. Questo è vero soprattutto nel nostro paese, in diversi
circoli accademici e politici, così come tra i professionisti.
Uno dei motivi per cui abbiamo scritto questo libro è far comprendere, anche
ai non addetti ai lavori, che la comunicazione della scienza è una cosa complessa
e sempre più interconnessa col futuro della società, dell’innovazione e della
scienza stessa. A dispetto di quanto si ritiene comunemente, non si può più
ridurre questa comunicazione, se mai è stato possibile, a un divertissement per
scienziati in pensione, ricercatori incapaci o giornalisti precari.
Nella prima parte del libro (dal primo al terzo capitolo), scritta da Nico
Pitrelli, i lettori troveranno una panoramica della letteratura scientifica più
consolidata e più recente sulla comunicazione della scienza, le direzioni più
interessanti in cui si è sviluppata la ricerca e le sfide più stimolanti che dovrà
accettare nei prossimi anni.
L’attenzione sarà rivolta soprattutto al rapporto tra scienza e mass media, il
tema centrale del nostro libro. Gli studi accademici hanno infatti avuto origine in
gran parte per rispondere alle tensioni tra scienziati e giornalisti durante gli anni
Sessanta del Novecento, per poi prendere strade molto diverse, raccogliendo
contributi dalla storia della scienza, dalla sociologia della conoscenza scientifica,
dalle scienze politiche, dagli studi di retorica e da molte altre discipline. Finora è
stata prodotta una letteratura anche di qualità ma dispersa, in cui si sono esaltati i
distinguo disciplinari perdendo di vista l’omogeneità dell’oggetto di studio: i
processi di diffusione, circolazione e negoziazione della scienza. Si è
consolidata, ad esempio, una distinzione netta tra mezzi di comunicazione di
massa e tutte le altre forme di comunicazione che riguardano la scienza e la
tecnologia.
È necessaria invece una visione più ampia per comprendere appieno le
specificità del ruolo dei mass media nei processi di circolazione della
conoscenza scientifica. Si mostrerà che essi, in particolare i nuovi media, hanno
assunto un’importanza rilevante non solo nei rapporti sempre più stretti tra
scienza e società, ma anche nel progresso interno della scienza e nello sviluppo
democratico della società.
Fornire una versione d’insieme della comunicazione della scienza è però solo
la premessa, necessaria ma non sufficiente, per rispondere alla domanda iniziale:
la comunicazione ci salverà dal riscaldamento globale e da tutto ciò che riguarda
l’impatto sociale della scienza nel XXI secolo? Ad argomentare una possibile
risposta a questo interrogativo sarà Pietro Greco nella seconda parte del volume
(dal quarto capitolo in avanti).
Siamo entrati, si dice, nella società e nell’economia della conoscenza, il cui
elemento centrale è la costruzione della “cittadinanza scientifica”. Un concetto
complesso, da non confondersi con l’ideale di un cittadino in armonioso e
ammirato accordo con un unico sviluppo possibile della storia del mondo
guidato dalla razionalità scientifica. È una nozione che riguarda la piena capacità
di esprimersi e di scegliere, da parte di tutti gli abitanti del pianeta, nel corso
della transizione, epocale e globale, verso la società dell’informazione e della
conoscenza, che ha la scienza tra i suoi pilastri costitutivi.
Chi è in grado di favorire un pieno diritto di cittadinanza in un mondo in cui la
conoscenza è diventata una risorsa primaria di produzione?
I mezzi di comunicazione di massa sembrerebbero una possibilità ragionevole,
ma riteniamo che oggi, da soli, non siano in grado di rispondere a questa
richiesta. Allo stesso tempo crediamo che senza comunicazione pubblica della
scienza non ci sia una vera società democratica della conoscenza.
Le domande allora diventano: esistono altri spazi, oltre ai media, in cui si può
esprimere la richiesta di cittadinanza scientifica? Se no, quali sono i rischi che
corriamo?
Scienza e media
ai tempi della globalizzazione
Capitolo 1
Il giornalismo scientifico
Il futuro degli Stati Uniti è seriamente in pericolo. È il 1997. Jim Hartz,
giornalista scientifico con 40 anni di carriera alle spalle, e Rick Chappell, fisico
della NASA con un passato da consigliere di Al Gore, non hanno dubbi: il
crepuscolo dell’America sarà segnato dalle cattive relazioni tra scienziati e
giornalisti1. Con il senno di poi delle Torri gemelle e dei mutui subprime,
l’analisi di Hartz e Chappell può far sorridere. Ma solo a una lettura superficiale.
I due, dichiaratamente di parte, innamorati della ricerca e dell’innovazione
tecnologica, scrivono un documento con i presupposti di chi vede la scienza
continuamente sotto attacco. Colgono però un punto su cui sarebbero convenuti
insigni studiosi degli anni a venire: nella società e nell’economia basate sulla
conoscenza chiunque assuma la leadership mondiale scientifica e tecnologica
deterrà il predominio politico ed economico. Non sbagliavano. Basta guardare a
Obama e alla Cina. Cioè ai soldi in ricerca e sviluppo che le due vere e uniche
superpotenze rimaste in cirolazione stanno investendo per uscire dalle secche
della recessione globale. Hartz e Chappell non si sbagliavano neanche riguardo
alle relazioni con i media. Che piaccia o no, gli scienziati devono fare i conti con
i giornalisti, con cui i rapporti sono tesi. O almeno sono percepiti come tali.
Tensioni
Paul Adrien Maurice Dirac è stato un grande scienziato. Vincitore del premio
Nobel per la fisica nel 1933, viene ricordato per i contributi alla formalizzazione
della meccanica quantistica e per aver teorizzato l’antimateria. Meno note sono
le sue raccomandazioni riguardo ai giornalisti. Poche parole – Dirac era un tipo
schivo e riservato – ma chiare: starne alla larga2. La diffidenza non era del tutto
ricambiata. Il primo corrispondente scientifico britannico, James Gerald
Crowther, per convincere un redattore del “Manchester Guardian” a pubblicare
un articolo di Dirac uscito sulla rivista specialistica “Future of Atomic Physics”,
usava queste parole: «È un genio assoluto, […] ha solo 27 anni ed è
probabilmente la più straordinaria figura della fisica inglese in circolazione».
L’enfasi non basta a convincere William Crozier, il caporedattore del
“Guardian”. L’argomento è «di sicuro interessante, – dice Crozier – ma non
possiamo permetterci di pubblicare articoli che vengano letti solo da pochi altri
accademici»3.
Sono passati più di 70 anni dai tempi di Dirac e i conflitti tra scienziati e
giornalisti non sembrano essersi risolti. È da più di 30 anni, ad esempio, che la
American Association for the Advancement of Science (AAAS), la più grande
associazione scientifica generalista del mondo, finanzia seminari, corsi e
workshop per aiutare giovani ricercatori a interagire meglio con radio,
televisione e giornali. In questa direzione è seguita a ruota da fondazioni di
beneficenza e istituzioni di ricerca, come la CIBA Foundation o l’European
Molecular Biology Laboratory. Sull’argomento vengono periodicamente
prodotti manuali e guide pratiche4. In rete esistono social network come il
Research and Media Network5 realizzati per far condividere esperienze, idee,
informazioni sulle migliori strategie mediatiche per diffondere al meglio i
risultati della ricerca. Sono anche nate imprese private specializzate nel formare
scienziati-comunicatori6. Il progetto ESConet7, finanziato dall’Unione europea
nell’ambito del Settimo programma quadro, ha coinvolto per tre anni, fino al
2008, una rete di 17 istituzioni di 12 diversi paesi con l’obiettivo di costruire
moduli d’insegnamento in comunicazione indirizzati agli scienziati. Lo scopo
era fornire, soprattutto ai ricercatori più giovani, le competenze per comunicare
più efficacemente con pubblici diversi, sottolineando l’importanza dei temi di
scienza e società. Nel 2007, nell’Europa a 27, si contavano più di 80 scuole di
giornalismo scientifico o di comunicazione della scienza8. A queste iniziative
vanno aggiunti innumerevoli workshop ad hoc, moduli specifici all’interno di
insegnamenti più generali, scuole estive, corsi interdisciplinari.
Esiste insomma una grande ricchezza di insegnamenti formali e informali in
comunicazione della scienza e uno sforzo a livello mondiale per migliorare le
interazioni fra scienziati e giornalisti. Il presupposto è che ci sia qualcosa che
non va, un qualche tipo di deficit.
E come dare torto a chi la pensa così quando si legge sui quotidiani di OGM e
cellulari che uccidono le api, di acceleratori di particelle spacciati per “bombe
fine di mondo”, di ragni giganti che invadono l’Europa o quando in televisione si
continuano a vedere complottisti che negano l’allunaggio umano e strade
magiche in cui le automobili in discesa invece di andare in giù vanno in su.
Sulla scorta di esperienze maturate inizialmente negli Stati Uniti, anche in
Italia associazioni come il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni
sul paranormale (CICAP), nato per iniziativa di Piero Angela e di scienziati come
Silvio Garattini, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, si battono attivamente
per denunciare le “bufale”, le superstizioni e le leggende che vengono diffuse in
maniera crescente dai mass media in chiave antiscientifica9.
Tra chi si occupa di rapporti fra scienza e società c’è la tendenza a ridurre gli
episodi denunciati ad aneddoti poco significativi o a circoscriverli entro un
conflitto dai contorni precisi e dalla storia antica, cioè quello che vede gli scettici
razionalisti fronteggiarsi con guaritori, astrologi e oscurantisti di varia natura.
Ma come giudicare il dibattito messo in scena sui media quando si parla di
temi dalle vaste implicazioni politico-sociali come fecondazione assisitita,
cambiamenti climatici, evoluzione, rifiuti, energia nucleare? Gli scienziati,
mediamente, lo giudicano male. Accusano i giornalisti di inaccuratezza,
imprecisione, sensazionalismo, ignoranza, mancanza di obiettività, distorsione,
pigrizia, malafede, di fornire un’immagine negativa della scienza, di dare ascolto
a fonti poco attendibili, di alimentare paure irrazionali, di creare false aspettative
di cura. Dal canto loro, i giornalisti ribattono che gli scienziati sono incapaci di
spiegarsi in termini chiari, di parlare senza gerghi e tecnicismi, di comprendere
le logiche dei media, li accusano di essere spesso arroganti, autoreferenziali e
distanti dalle preoccupazioni delle persone comuni.
Mondi a parte, insomma, come recitava il titolo del rapporto di Hartz e
Chappell già citato. Un divario culturale incolmabile separa il mondo della
ricerca e i mezzi di comunicazione perché scienziati e giornalisti guardano al
mondo in modo diverso e lavorano secondo logiche differenti.
Per i primi, almeno in tempi di scienza “normale”, ogni scoperta è un piccolo
tassello di un mosaico molto più ampio alla cui realizzazione contribuisce
l’intera comunità disciplinare: le discontinuità ci sono, ma per la maggior parte
dei casi la scienza è un’impresa cumulativa e cooperativa. I giornalisti,
all’opposto, amano le storie di geni romantici, incompresi e isolati o di svolte
rivoluzionarie.
I tempi di lavoro sono un’altra differenza profonda. I comunicatori hanno poche
ore per scrivere un articolo o realizzare un servizio. Lavorano sotto pressione.
Devono prendere decisioni in tempi rapidi magari su argomenti controversi in
cui non è possibile sentire tutte le campane. Gli scienziati viceversa possono
impiegare anni per portare a termine una ricerca. Nella peer-review, il processo
di revisione tra pari che garantisce la qualità della letteratura scientifica, dal
momento della sottomissione a una rivista specialistica alla pubblicazione finale,
le revisioni di un lavoro portano via molto tempo e mal si adattano alle esigenze
dei media. Una scoperta non pubblicata che potrebbe essere in un certo momento
d’interesse per il grande pubblico non lo è più mesi dopo, quando finalmente ha
ricevuto tutti i crismi della pubblicazione scientifica.