Table Of ContentGuillaume Musso 
Quando si ama non scende mai la notte 
traduzione di Laura Serra. - Milano : Rizzoli, 2008. 
Mark  e  Nicole  Hathaway  sono  giovani,  affermati,  felici.  Lui  è  un 
brillante  psicologo,  lei  una  talentuosa  violinista.  Vivono  in  una 
splendida casa di Brooklyn e hanno una figlia adorabile, Layla. Non ci 
sono  nubi  sul  loro  orizzonte.  Ma  un  orribile  giorno,  Layla  scompare 
misteriosamente da un centro commerciale di Los Angeles, dove la madre è 
in  tournée.  In  pochi  minuti  si  consuma  una  tragedia  assurda, 
incomprensibile, che lascia Mark e Nicole in preda alla disperazione più 
profonda. Una disperazione che logora e annichilisce, e spinge Mark, dopo 
mesi di angoscianti ricerche, ad abbandonare casa, lavoro e Nicole per 
perdersi a sua volta nei bassifondi della città, con la sola compagnia 
del  suo  inestinguibile  dolore.  Ma  cinque  anni  dopo,  Nicole  riesce  a 
rintracciarlo:  deve  dargli  una  notizia  sconvolgente,  Layla  è  stata 
ritrovata nello stesso luogo da cui era scomparsa senza lasciare tracce. 
Stordito dalla gioia, Mark si precipita a Los Angeles per riportare a 
casa  la  sua  bambina.  È  la  realizzazione  di  un  sogno  che  pareva 
impossibile: la felicità è di nuovo a portata di mano. A bordo del volo 
per New York, le storie di Mark e Layla si incrociano con quelle di Evie 
e  Alyson,  che  fanno  i  conti  con  un  passato  ineluttabile  come  una 
condanna: Evie è affranta da un lutto che le toglie il respiro; Alyson è 
divorata  da  una  colpa  inconfessabile,  che  la  schiaccia  e  la  corrode. 
Unite  da  un  solo  destino,  le  loro  vite  si  affacciano  a  un  bivio 
inaspettato. Perché l'anima ha un altro sacrificio da compiere, un ultimo 
prezzo da pagare, prima di riuscire a liberarsi e ritrovare la voglia di 
amare. 
Quando si ama non scende mai la notte è una storia d'amore e di perdono 
che parla direttamente al cuore. Trasportandoci, come solo i romanzi di 
Guillaume Musso sanno fare, in un nuovo, indimenticabile viaggio lungo i 
sentieri dell'anima. 
GUILLAUME MUSSO è nato ad Antibes nel 1974. 
I suoi romanzi hanno venduto tre milioni di copie 
nella sola Francia, e sono tradotti in 27 lingue. In 
Italia sono usciti per Sonzogno L'uomo che credeva 
di non avere più tempo (2005), La donna che non 
poteva essere qui (2006) e  Chi ama torna  sempre  indietro  (2007), che 
hanno scalato le classifiche dei 
libri più venduti. 
In copertina: 
fotografia © Millennium/Sime 
progetto grafico di Francesca Leoneschi per Mucca Design 
www.rizzoli.eu 
 
ISBN 978-88-17-01998-9        x €18,00                                         
 
Proprietà letteraria riservata 
© XO Éditions, 2007 
All rights reserved 
© 2008 RCS Libri S.p.A., Milano 
ISBN 978-88-17-01998-9 
Titolo originale dell'opera: PARCE QUE JE T'AIME 
Prima edizione: gennaio 2008 Seconda edizione: febbraio 2008 
Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI) 
Quando si ama non scende mai la notte 
 
1 
La notte in cui tutto ebbe inizio 
Dobbiamo abituarci all'idea: ai più importanti bivi della vita, non c'è 
segnaletica.
Ernest Hemingway 
Dicembre 2006 
È la sera di Natale nel cuore di Manhattan... 
La neve cade incessante dalla mattina. Intirizzita, la «città che non 
dorme mai» gira al rallentatore, nonostante l'orgia di luminarie. 
Il traffico è stranamente scorrevole per un giorno di festa, ma lo strato 
di neve farinosa e i grossi mucchi ai lati della strada rendono difficile 
ogni spostamento. 
All'angolo tra Madison Avenue e la 36a, le limousine sfilano una dopo 
l'altra, e si fermano a scaricare i passeggeri davanti all'edificio in 
stile  rinascimentale  della  Morgan  Library,  una  delle  istituzioni 
culturali  più  prestigiose  di  New  York,  che  festeggia  oggi  il  suo 
centenario. 
La scala d'ingresso è un turbinio di pellicce, gioielli, smoking e abiti 
lunghi. La folla confluisce verso un padiglione di vetro e acciaio di più 
recente  costruzione,  che  proietta  armoniosamente  il  palazzo  nel 
Ventunesimo secolo. All'ultimo piano, un lungo corridoio conduce a una 
sala dove sono esposti i tesori della Morgan: una Bibbia di Gutenberg, 
alcuni manoscritti miniati medievali, disegni di Rembrandt, Leonardo da 
Vinci e Van Gogh, lettere di Voltaire e Einstein, e perfino il tovagliolo 
su cui Bob Dylan scrisse le parole di Blowin in the Wind. 
A poco a poco si fa silenzio e i ritardatari raggiungono i propri posti. 
Per  la  serata  una  parte  della  sala  lettura  è  stata  attrezzata  per 
ospitare il concerto della violinista Nicole Hathaway, che esegue alcune 
sonate di Mozart e Brahms. 
La Hathaway entra in scena tra gli applausi. È una donna sui trent'anni, 
sofisticata, con un elegante chignon alla Grace Kelly che le dà un'aria 
da eroina hitchcockiana. Ha inciso il primo disco a sedici anni, suonato 
con  le  maggiori  orchestre  del  mondo  e  ottenuto  i  riconoscimenti  più 
prestigiosi. Cinque anni fa la sua vita è stata sconvolta da una tragedia 
di cui hanno parlato stampa e televisione, e da allora la sua celebrità 
ha  superato  i  confini  della  cerchia  degli  appassionati  di  musica  da 
camera. 
Nicole saluta il pubblico e sistema il violino sotto il mento. La sua 
bellezza  classica  si  accorda  alla  perfezione  con  la  sala  piena  di 
incisioni  e  manoscritti  rinascimentali,  come  se  quello  fosse  il  suo 
habitat naturale. Con un attacco schietto e profondo, l'archetto entra 
immediatamente  in  sintonia  con  le  corde.  Intorno,  ogni  dettaglio  è 
imbevuto di buongusto e raffinatezza. 
Fuori la neve continua a cadere nella notte fredda. 
A  meno  di  cinquecento  metri  da  lì,  non  lontano  dalla  Grand  Central 
Station, la lastra di un tombino si solleva lentamente e ne emerge la 
testa irsuta di un uomo dallo sguardo vacuo e il viso sciupato. 
Dopo aver liberato il labrador nero che teneva in braccio, l'uomo si tira 
su a  fatica  e  attraversa  la  strada barcollando, col  rischio di farsi 
investire, in mezzo a un concerto di clacson. È debole e malconcio, perso 
nel suo cappotto logoro e sporco. Istintivamente la gente lo scansa e 
affretta il passo. 
Ha  trentacinque  anni,  ma  ne  dimostra  cinquanta.  Una  volta  aveva  un 
lavoro, una moglie, una figlia e una casa, ma è stato tanto tempo prima. 
Oggi  quest'uomo  è  solo  un  fantasma  di  stracci  che  biascica  parole 
incoerenti. 
 
 
 
 
 
 
Che giorno è? Che ora è?
Non lo sa più. Nella sua testa tutto si confonde. Vede le luci della 
città  sfocate  davanti  a  sé.  I  fiocchi  di  neve  portati  dal  vento  gli 
feriscono il viso, ha i piedi ghiacciati, lo stomaco vuoto che urla di 
dolore, le ossa sul punto di rompersi. 
Sono già due anni che ha abbandonato la propria vita per rintanarsi nelle 
viscere della città. Come tanti altri, ha trovato riparo nei tunnel del 
metrò, nelle  fogne  e  sui  binari  morti delle  ferrovie.  La politica di 
tolleranza  zero  dell'amministrazione  cittadina  ha  ripulito 
scrupolosamente Manhattan, ma sotto i grattacieli sfavillanti pulsa una 
vita parallela: una New York di relitti umani che galleggiano nel dedalo 
di cunicoli, nicchie e cavità. Migliaia di talpe respinte nei bassifondi 
si nascondono dalla polizia nelle luride gallerie infestate dai ratti. 
L'uomo si fruga in tasca e tira fuori una bottiglia di liquore di infima 
qualità. 
Per dimenticare il freddo, la paura, la sporcizia. 
Per dimenticare la sua vita di un tempo. 
Ultimo colpo d'archetto di Nicole Hathaway. Per lo spazio di due battute 
- un silenzio che appartiene ancora a Mozart - la platea rimane con il 
fiato sospeso prima di sciogliersi in un applauso scrosciante. 
La  violinista  ringrazia  con  un  inchino,  riceve  un  mazzo  di  fiori  e 
attraversa la sala fra sorrisi e complimenti. Nonostante l'entusiasmo, 
sente  di  non  aver  dato  il  massimo.  Ha  suonato  con  tecnica  perfetta, 
energia, purezza di ghiaccio. 
Ma non con l'anima. 
Stringe meccanicamente qualche mano, si bagna le labbra di champagne e si 
guarda intorno inquieta. 
«Vuoi che rientriamo, cara?» 
Nicole si gira lentamente verso quella voce rassicurante. Eriq le sta 
davanti, sorseggiando un Martini. È il suo compagno da qualche mese: un 
avvocato, un uomo solido e premuroso, che ha saputo starle vicino in un 
momento difficile. 
«Sì, mi gira la testa. Portami a casa.» 
Avendo previsto la sua risposta, Eriq era già andato al guardaroba e, 
ora,  le porge  un cappotto  di  flanella grigia. Lei  se  lo infila e  si 
stringe il bavero intorno al collo. 
Proprio mentre la festa comincia, i due scendono l'imponente scalone di 
marmo tenendosi per mano. 
«Ti chiamo un taxi» propone lui quando arrivano nell'atrio. «Io vado a 
prendere la mia auto in ufficio e ti raggiungo.» 
 
«Vengo con te. Saranno cinque minuti a piedi.» 
«Scherzi? C'è un tempo da lupi.» 
«Ho bisogno di camminare e respirare un po' d'aria fresca.» 
«Ma è pericoloso!» 
«Da quando in qua è pericoloso fare trecento metri a piedi? E poi ci sei 
tu.» 
«Come vuoi.» 
 
Raggiungono in silenzio la 5a Avenue. 
L'auto si trova a cento metri, dietro Bryant Park. Nelle belle giornate 
il Bryant è un'oasi di verde, ideale per passeggiate, picnic o partite a 
scacchi accanto alla fontana, ma di sera è buio e sinistro. 
«FUORI I SOLDI!» 
Nicole vede una lama, scintillante come un lampo. 
«FUORI I SOLDI, HO DETTO!» 
E un uomo senza età, con la testa rasata e una giacca a vento scura che 
gli  arriva  alle  ginocchia.  Il  viso,  segnato  da  una  lunga  cicatrice, 
incornicia due occhi animati dalla luce della follia. 
«FORZA, SBRIGATI!»
«Va bene, va bene» si affretta a dire Eriq, tirando fuori portafogli, 
orologio e cellulare. 
L'uomo afferra gli oggetti, poi si avvicina a Nicole per strapparle la 
borsa e l'astuccio con il violino. Lei serra forte gli occhi, e recita 
mentalmente l'alfabeto al contrario, come faceva da bambina quando aveva 
paura. 
ZYXWVU... 
È l'unica cosa che le viene in mente, l'unico sistema per neutralizzare 
il terrore in attesa che quel momento diventi un ricordo. 
TSRQPO... 
Ora se ne andrà, ha avuto quello che voleva. 
N M L K J I H... 
Se ne andrà. A che gli servirebbe ucciderci? 
G F E D C B A.. 
Ma quando Nicole riapre gli occhi, lo sconosciuto è sempre lì e ha il 
braccio alzato. 
Eriq vede la mano  con  il coltello abbassarsi,  ma  è paralizzato dalla 
paura. 
Lei guarda ipnotizzata la lama che sta per tagliarle la gola. 
È tutta qui, la sua vita? Che strano. Dicono che a volte, in punto di 
morte, si rivedano in rapida sequenza i momenti salienti della propria 
esistenza. Nicole, invece, ha solo un'immagine impressa nella mente: una 
spiaggia immensa, e due persone che la chiamano con la mano. Le distingue 
bene. La prima è il solo uomo che abbia mai amato e che non ha saputo 
trattenere. La seconda è sua figlia, che non ha saputo proteggere. 
Sono morta. 
No. Non ancora. Come mai? Qualcuno è sbucato fuori dal nulla. 
Un barbone. 
Lì per lì Nicole pensa a un altro teppista, poi capisce che il nuovo 
venuto  sta  tentando  di  proteggerla.  Anzi,  è  lui  che  si  becca  una 
coltellata nella spalla. Benché ferito, si rialza, si lancia con rabbia 
contro l'aggressore, lo disarma e lo costringe a mollare il bottino. Per 
quanto sia più magro e più debole, il senzatetto prende il sopravvento 
nel corpo a corpo e, con l'aiuto del suo labrador nero, mette in fuga 
l'avversario. 
Ma la vittoria lo ha provato. Sfinito, crolla per terra, sbattendo la 
faccia sul marciapiedi ghiacciato. 
Nicole si inginocchia sulla neve, cercando di soccorrere l'uomo che le ha 
salvato la vita. Ci sono tracce di sangue. 
«Diamogli  venti  dollari  e  andiamo  via»  propone  Eriq,  raccogliendo  il 
portafogli e il cellulare. 
Ora che il pericolo è passato, l'avvocato ha ritrovato la sua parlantina. 
Nicole lo guarda con disprezzo. 
«Non vedi che è ferito?» 
«Allora chiamo la polizia.» 
«Non è la polizia che bisogna chiamare, ma un'ambulanza.» 
Con  qualche  difficoltà,  Nicole  riesce  a  girare  il  corpo  dello 
sconosciuto. Gli posa una mano sulla spalla sanguinante e gli guarda il 
viso dalla barba incolta. 
In un primo momento non lo riconosce, poi i suoi occhi incrociano quelli 
febbricitanti dell'uomo. 
Qualcosa in lei si spezza. Si sente invadere da un'ondata di calore, non 
sa  ancora  se  è  dolore  o  sollievo.  Una  fiamma  che  la  ustiona  o  una 
speranza che sorge nella notte. 
Si china su di lui e avvicina il viso al suo come per difenderlo dalla 
neve. 
«Che cosa ti salta in mente?» chiede Eriq. 
«Lascia perdere la telefonata e va' a prendere l'auto.» 
«Perché?» 
«Quest'uomo... lo conosco.»
«Come?» 
«Aiutami a trasportarlo a casa» ordina lei senza far caso alla domanda. 
Eriq scuote la testa, poi sospira: «Insomma, si può sapere chi è questo 
tizio?». 
Con lo sguardo perso nel vuoto, Nicole lascia passare un lungo istante 
prima di rispondere: «È Mark, mio marito». 
 
2 La scomparsa 
Non  siamo  mai  così  esposti  alla  sofferenza,  come  nel  momento  in  cui 
amiamo. 
Sigmund Freud 
Brooklyn,  dall'altro  lato  del  fiume,  in  una  piccola  casa  vittoriana 
ornata di torrette e doccioni... 
 
Un bel fuoco scoppiettava nel caminetto. 
Ancora svenuto, Mark Hathaway era sdraiato sul divano del salotto, con 
una  pesante  coperta  avvolta  intorno  alle  gambe.  China  su  di  lui,  la 
dottoressa  Susan  Kingston  finì  di  applicargli  i  punti  di  sutura  alla 
spalla. 
«La ferita è superficiale» spiegò a Nicole, togliendosi i guanti. «Semmai 
sono le condizioni generali che mi preoccupano: ha una brutta bronchite e 
il corpo coperto di ematomi e geloni.» 
Poco  prima,  mentre  era  a  tavola  con  i  famigliari  di  fronte  al 
tradizionale  pudding  natalizio,  Susan  aveva  risposto  alla  telefonata 
della sua vicina, Nicole Hathaway, che la pregava di venire in soccorso 
di suo marito ferito. 
Benché  stupita,  non  aveva  esitato  un  istante.  Lei  e  suo  marito 
conoscevano  bene  Mark  e  Nicole.  Prima  della  tragedia,  le  due  coppie 
uscivano spesso insieme per provare i ristoranti italiani di Park Slope, 
andare a caccia di oggetti antichi nei negozi di antiquariato di Brooklyn 
Height o a correre a Prospect Park durante il weekend. 
Ormai quell'epoca pareva lontanissima, quasi irreale. 
Susan era sconcertata. 
«Sapevi che viveva per strada?» 
Nicole scosse la testa, incapace di parlare. 
Una mattina di due anni prima, suo marito le aveva annunciato che aveva 
deciso di andarsene: non riusciva più a vivere così, non ne aveva la 
forza. Nicole aveva fatto di tutto per trattenerlo, ma a volte tutto non 
basta. Da allora non aveva più avuto sue notìzie. 
«Gli ho somministrato sedativi e antibiotici» disse Susan, rimettendo i 
suoi strumenti nella valigetta. 
Nicole la accompagnò alla porta. 
«Ripasserò  domattina  ma...»  la  dottoressa  si  interruppe  a  metà, 
terrorizzata  e  imbarazzata  da  ciò  che  stava  per  dire.  «Non  lasciarlo 
andare in queste condizioni, altrimenti... morirà.» 
«Allora?» 
«Allora cosa?» 
«Che ne facciamo di tuo marito?» Eriq camminava su e giù per la cucina 
con un bicchiere di whisky in mano. 
 
Nicole lo guardò con un misto di fastidio e disgusto. Che cosa ci faceva 
insieme a quel tipo? Per quale motivo aveva lasciato che entrasse nella 
sua vita? 
«Vattene, per favore» disse. 
Eriq scosse la testa. 
«Non ci penso nemmeno ad abbandonarti in un momento come questo.» 
«Quando  avevo  un  coltello  puntato  alla  gola  non  ti  sei  fatto  troppi 
problemi.» 
«Non ho avuto il tempo di...» Eriq cominciò, senza riuscire a finire la 
frase.
«Vattene» ripetè Nicole. 
«Se è veramente questo che vuoi... Ma ti chiamerò domani.» 
Contenta di essersene sbarazzata, Nicole tornò in soggiorno. Spense tutte 
le lampade e, senza far rumore, accostò una poltrona al divano per stare 
più vicina a Mark. 
Nella stanza, illuminata solo dal chiarore incerto del fuoco, regnava la 
calma. 
Esausta e disorientata, Nicole strinse la mano del marito e chiuse gli 
occhi. Erano stati così felici in quella casa. Quando, dieci anni prima, 
avevano  trovato  quella  villetta  di  fine  Ottocento  con  la  facciata  di 
arenaria  scura  e  il  giardino,  erano  impazziti  di  gioia.  L'avevano 
comprata all'istante, anche per crescere Layla lontano dalla frenesia di 
Manhattan. 
Sugli scaffali della libreria, alcune foto incorniciavano la felicità di 
un tempo. Loro due, mano nella mano, si scambiavano uno sguardo complice. 
Vacanze romantiche alle Hawaii e nel Grand Canyon in motocicletta. Poi 
l'immagine di un'ecografia e, pochi mesi dopo, il faccino tondo di una 
neonata che festeggiava il suo primo Natale. Nelle ultime istantanee, la 
bambina era cresciuta e aveva perduto i primi denti. Posava orgogliosa 
davanti alle giraffe dello zoo del Bronx, si aggiustava il berrettino 
sulla  neve  del  Montana  e  presentava  all'obiettivo  della  macchina 
fotografica i suoi due pesci pagliaccio, Ernesto e Cappuccino. 
Il profumo dei giorni felici svaniti per sempre. 
Mark tossì nel sonno. Nicole fu scossa da un brivido. L'uomo che dormiva 
sul divano non aveva più niente a che vedere con quello che lei aveva 
sposato.  Solo  i  diplomi  e  le  onorificenze  che  tappezzavano  la  parete 
ricordavano  lo  psicologo  di  fama  che  era  stato  un  tempo.  Poiché  era 
specialista in resilienza, la capacità dell'uomo di affrontare e superare 
le avversità della vita, la faa (Federal Aviation Administration) e l'FBI 
si rivolgevano  a lui in occasione  di  catastrofi aeree e  sequestri di 
persona.  Dopo  l'11  settembre  Mark  aveva  fatto  parte  della  squadra  di 
psicologi  incaricata  di  seguire  le  famiglie  delle  vittime  e  dei 
superstiti. Non si esce mai indenni da simili tragedie. Se non si muore, 
ci  si  sente  sporchi  e  tormentati  dal  senso  di  colpa,  divorati  da 
un'angoscia sorda e straziati da una domanda che non avrà mai risposta: 
perché noi siamo sopravvissuti e gli altri no? Perché proprio noi, e non 
nostro figlio, nostra moglie, i nostri genitori? 
Oltre a fare lo psicologo, un tempo Mark collaborava con diverse riviste 
di divulgazione. Aveva contribuito a  far conoscere al  grande  pubblico 
terapie come il gioco di ruolo e l'ipnosi, alle quali lavorava con il suo 
socio  e  amico  d'infanzia  Connor  McCoy.  Col  tempo  la  sua  fama  era 
cresciuta, e Mark era diventato un ospite fisso dei talk show. E così, 
quasi senza accorgersene, Mark e Nicole erano diventati delle celebrità. 
In un numero sulle coppie più in vista di New York, «Vanity Fair» aveva 
dedicato loro un articolo di quattro pagine. Una vera consacrazione. 
Ma la favola di carta patinata si era infranta da un giorno all'altro. Un 
pomeriggio di marzo Layla, la loro bambina di cinque anni, era scomparsa. 
Si  trovava  in  un  centro  commerciale  di  Orange  County,  a  sud  di  Los 
Angeles, ed era stata vista per l'ultima volta davanti alla vetrina del 
Disney Store. La baby-sitter, una ragazza alla pari australiana, l'aveva 
lasciata sola qualche minuto, giusto il tempo di provare un paio di jeans 
nel negozio Diesel lì accanto. 
Quanto tempo era passato prima che notasse l'assenza della bambina? «Non 
più  di  cinque  minuti»  aveva  dichiarato  alla  polizia.  Vale  a  dire 
un'eternità. In cinque minuti può succedere di tutto. 
Le prime ore che seguono la scomparsa di un bambino sono cruciali: è 
allora che si hanno più probabilità di ritrovarlo. Già dopo due giorni le 
speranze si riducono drasticamente. 
Pioveva a dirotto, quel 23 marzo. Benché Layla fosse sparita in pieno 
giorno  e  in  un  posto  affollato,  gli  inquirenti  avevano  faticato  a
raccogliere  testimonianze  attendibili.  Le  immagini  registrate  dalle 
telecamere di sorveglianza non avevano fornito indizi di alcun genere, né 
era servita la deposizione della baby-sitter, colpevole di negligenza, ma 
non certo di rapimento. 
Erano passati i giorni... 
Per parecchie settimane, più di cento agenti, alcuni con i cani, o in 
elicottero, avevano setacciato la zona. 
Poi i mesi... 
La polizia era disorientata dalla mancanza di indizi. Non c'erano state 
richieste di riscatto, né erano emerse piste verosimili. Niente. 
 
E gli anni... 
La foto di Layla era  stata affissa nelle  stazioni, negli  aeroporti e 
negli uffici postali. 
Ma la piccola era introvabile. 
Svanita nel nulla. 
Per Mark, la vita si era fermata quel 23 marzo 2002. 
La scomparsa della figlia lo aveva gettato nella disperazione più nera. 
Devastato da un terremoto interiore fatto di dolore e senso di colpa, si 
era allontanato dal lavoro, dalla moglie, da Connor. 
Aveva assunto i migliori investigatori privati perché riprendessero in 
mano l'indagine, questa volta senza trascurare alcun dettaglio. 
Senza esito. 
Allora aveva cominciato a indagare di persona. La ricerca, destinata al 
fallimento, era durata tre anni. Poi Mark era scomparso a sua volta, e 
non aveva più dato notizie di sé. 
Nicole, invece, non si era lasciata andare. 
All'inizio aveva provato una disperazione senza fondo, aggravata da un 
particolare senso di colpa: era stata lei a volere Layla con sé a Los 
Angeles, dove si trovava per una tournée, ed era stata lei ad assumere la 
baby-sitter. Poi si era buttata anima e corpo nella musica: aveva inciso 
un disco dietro l'altro e perfino accettato di parlare della sua tragedia 
ai giornali o in televisione, offrendosi come vittima consenziente del 
voyeurismo mediatico. 
Ogni qualvolta si sentiva  sopraffatta  dal dolore, allora  prendeva una 
stanza in albergo e si rintanava sotto le coperte, come fosse in letargo, 
allontanandosi da tutto. 
Ciascuno sopravviveva come poteva. 
Un tizzone  crepitò  nel  caminetto.  Mark sussultò e  aprì  gli  occhi.  Si 
drizzò a sedere e per qualche secondo si chiese dove fosse e che cosa gli 
fosse capitato. 
Vedendo Nicole, riordinò a poco a poco le idee. 
«Sei ferita?» le domandò. 
«Grazie a te, no.» 
Per un istante lui sembrò ripiombare nel torpore, poi si alzò di scatto. 
«Resta sdraiato, ti prego. Devi riposare.» 
Come se non avesse sentito, Mark si avvicinò alla portafinestra. Dietro 
la parete di vetro, la strada scintillava, bianca e silenziosa. 
«Dove sono i miei vestiti?» 
«Li ho buttati, Mark. Erano sporchi e stracciati.» 
«E il cane?» 
«L'ho portato qui con noi, ma è scappato.» 
«Me ne vado» fece lui, avviandosi alla porta con passo malfermo. 
Nicole lo bloccò. 
«Senti,  è  notte,  sei  ferito  ed  esausto.  Non  ci  vediamo  da  due  anni. 
Dobbiamo parlare.» 
 
Gli  tese  le  braccia, ma lui  la  respinse. Gli  si aggrappò,  ma lui  si 
divincolò, urtando contro gli scaffali. Una cornice cadde e il vetro si 
ruppe.
Mark la raccolse: era una foto della figlia. Con gli occhi verdi ridenti 
e  il  sorriso  sulle  labbra,  la  bambina  sprizzava  felicità  e  gioia  di 
vivere da tutti i pori. 
In quel momento  qualcosa in lui  cedette. Si accasciò, con  la  schiena 
appoggiata al muro, e scoppiò in lacrime. Nicole gli si strinse al petto 
e rimasero a lungo così, abbracciati e affranti, pelle morbida contro 
pelle rugosa, profumo di Guerlain contro odore di fogna. 
Tenendolo  per  mano,  Nicole  accompagnò  il  marito  in  bagno,  aprì  il 
miscelatore della doccia e si ritirò. Inebriato dall'odore dello shampoo, 
Mark  restò  quasi  mezz'ora  sotto  il  getto:  poi  si  avvolse  tutto 
gocciolante in un grande asciugamano e uscì nel corridoio. Aprì quello 
che era stato il suo armadio. Non degnò di uno sguardo gli abiti Armani, 
Boss, Zegna di una volta, reliquie di una vita che non era più la sua, ma 
si infilò un paio di boxer, dei jeans larghi, una maglia a maniche lunghe 
e un pullover pesante. 
Quindi scese le scale e raggiunse Nicole in cucina. 
Con la sua combinazione di legno, vetro e metallo, la stanza giocava su 
effetti di trasparenza. Lungo una parete correva un ampio piano di lavoro 
dalle  linee  essenziali,  mentre  al  centro  un'isola  perfettamente 
attrezzata invitava a mettersi ai fornelli. Anni prima, in quella stanza 
aveva  regnato  l'atmosfera  gioiosa  delle  prime  colazioni  in  famiglia, 
delle merende a base di pancake e delle cenette romantiche. Ma era ormai 
molto tempo che nessuno vi cucinava più niente. 
«Ti ho preparato un'omelette e del pane tostato» disse Nicole versandogli 
il caffè fumante. 
Mark si sedette davanti al piatto, ma si alzò quasi subito. Gli tremavano 
le mani. Prima di toccare il cibo, aveva bisogno di bere. 
Sotto  lo  sguardo  sbalordito  di  Nicole,  stappò  con  frenesia  la  prima 
bottiglia di vino che gli capitò a tiro e ne scolò la metà con due lunghi 
sorsi. Placato, trangugiò l'omelette senza dire una parola, finché Nicole 
non gli rivolse una domanda. 
«Dove sei stato, Mark?» 
«In bagno» rispose lui, senza guardarla. 
«No, dove sei stato negli ultimi due anni?» 
«Giù.» 
«Giù?» 
«Nei  tunnel  del  metrò,  nelle  fogne  e  nelle  condutture,  assieme  ai 
barboni.» 
Con le lacrime agli occhi, Nicole scuoteva la testa. 
«Ma perché?» 
«Sai benissimo perché» alzò la voce. 
Lei gli si avvicinò e gli prese la mano. 
«Ma hai una moglie, una professione, degli amici.» 
Mark ritrasse la mano e si alzò da tavola. 
«Lasciami in pace!» 
«Spiegami una cosa» disse lei per trattenerlo, «che senso ha vivere così? 
Ti serve a qualcosa?» 
Mark le scoccò un'occhiata intensa. 
«Vivo così perché non posso più vivere in altro modo. Tu puoi, io no.» 
«Non cercare di farmi sentire in colpa.» 
«Non ti rimprovero niente. Rifatti pure una vita, se vuoi. Io non posso.» 
«Ma  sei  uno  psicologo,  Mark.  Hai  aiutato  tanta  gente  a  superare  le 
peggiori catastrofi.» 
«Questo  dolore  io non  voglio  superarlo,  perché  è l'unica cosa che  mi 
mantiene in vita. È tutto quello che mi resta di lei, capisci? Non passa 
minuto che non pensi a lei, che non mi chieda dove si trovi in questo 
momento e cosa le abbia fatto il suo rapitore.» 
«È morta, Mark» sentenziò freddamente Nicole. 
Era più di quanto Mark potesse sopportare. Alzò la mano verso la moglie e 
l'afferrò per la gola come se volesse strangolarla.
«Come puoi dire una cosa simile?» 
«Sono  passati  cinque  anni!»  gridò  lei  cercando  di  liberarsi  dalla 
stretta. «Cinque anni senza il minimo indizio, cinque anni senza nessuna 
richiesta di riscatto!» 
«Una possibilità c'è sempre.» 
«No,  Mark,  è  finita.  Non  è  più  lecito  sperare.  Layla  non  riapparirà 
all'improvviso. Non succederà mai, capisci? MAI!” 
«Zitta!» 
«Se mai ritroveranno qualcosa, sarà soltanto il suo cadavere.» 
«NO!» 
«Sì. E non credere di essere l'unico a soffrire. Come credi che mi senta 
io, che oltre a mia figlia ho perso anche mio marito?» 
Senza  rispondere,  Mark  uscì  dalla  cucina.  Nicole  lo  seguì,  decisa  a 
metterlo spalle al muro. 
«Non hai mai pensato che potremmo avere altri bambini? Non ti sei mai 
detto che, col tempo, la vita potrebbe tornare a sorriderci?» 
«Prima di avere altri figli, voglio ritrovare la mia Layla.» 
«Lascia che chiami Connor. Ti cerca dappertutto da due anni. Può aiutarti 
a risalire la china.» 
«Non è quello che voglio. Mia figlia soffre e io voglio soffrire con 
lei.» 
«Se continuerai a vivere in strada, morirai. È questo che vuoi? Fa' pure. 
Sparati un colpo in testa!» 
«Non  voglio  morire,  perché  voglio  esserci  il  giorno  in  cui  la 
ritroveremo.» 
Nicole aveva bisogno di aiuto. Prese il cellulare e compose il numero di 
Connor. 
Rispondi, Connor, rispondi! 
Da qualche parte, nella notte, diversi squilli suonarono a vuoto. Nicole 
capì che Connor non avrebbe risposto e che aveva perso la battaglia. Da 
sola non sarebbe riuscita a trattenere il marito. 
Mark tornò a coricarsi sul divano e dormì ancora qualche ora. 
Si alzò all'alba, prese una borsa sportiva dal guardaroba e vi infilò una 
coperta,  una  giacca  a  vento,  qualche  pacchetto  di  biscotti  e  diverse 
bottiglie di alcolici. 
 
Nicole aggiunse un cellulare e un caricabatteria. 
«Se tu decidessi di chiamare Connor, o se io dovessi avere bisogno di 
te...» 
Quando Mark aprì la porta aveva smesso di nevicare e le prime luci del 
giorno tingevano la città. 
Appena Mark posò il piede sulla coltre di neve, il labrador nero apparve 
come d'incanto da dietro un bidone della spazzatura e gli corse incontro. 
Mark gli grattò la testa, si alitò sulle mani, prese la borsa e partì in 
direzione del ponte di Brooklyn. 
Sulla  soglia,  Nicole  guardò  l'uomo  della  sua  vita  allontanarsi  nel 
mattino. 
«Ho bisogno di te! Adesso!» gridò, in mezzo alla strada. 
Con l'aria di un pugile suonato, lui, che aveva percorso una decina di 
metri, si girò e allargò  le  braccia  a  significare che  gli  dispiaceva 
molto, ma non poteva farci niente. 
Poi scomparve dietro l'angolo. 
 
3 Qualcuno che mi assomiglia 
La vita è una collana di paure. 
Bjórk 
La bambina che sognava un fusto di benzina e un fiammifero. 
Titolo di un romanzo di Stieg Larsson 
Lo studio del dottor Connor McCoy si trovava in una delle torri di vetro 
del prestigioso Time Warner Center, all'estremità ovest di Central Park.
Connor ne era molto fiero, perché ogni particolare era studiato in modo 
da  mettere  a  proprio  agio  i  pazienti  e  garantire  loro  le  condizioni 
migliori  per  essere  curati.  Grazie  al  passaparola  la  clientela  era 
aumentata esponenzialmente negli anni, anche se i suoi metodi eterodossi 
non erano approvati da tutti i colleghi. 
La notte di Natale, Connor era ancora in ufficio a studiare la cartella 
clinica  di  uno  dei  suoi  pazienti.  Soffocò  uno  sbadiglio  e  diede 
un'occhiata all'orologio. 
L'una e mezza. 
A casa non lo aspettava nessuno. Connor viveva soltanto per il lavoro e 
non aveva una compagna né una famiglia. Molto tempo prima aveva aperto il 
suo  primo  studio  con  Mark  Hathaway,  l'amico  d'infanzia  con  cui  aveva 
condiviso la passione per la psicologia. Erano cresciuti in un quartiere 
difficile di Chicago, e avevano conosciuto da vicino la sofferenza prima 
di  dedicarsi  ad  alleviare  quella  degli  altri  con  le  loro  terapie 
innovative.  Insieme  avevano  raggiunto  un  successo  strepitoso,  fino  a 
quando la vita di Mark era stata distrutta dalla scomparsa della figlia. 
Connor aveva fatto tutto il possibile per aiutarlo, riprendendo con lui 
l'indagine quando la polizia aveva gettato la spugna, ma non era bastato. 
Annientato dal dolore, Mark era sparito a sua volta. La fuga del socio 
aveva lasciato Connor nel più profondo sgomento. Non solo aveva perduto 
il  suo  migliore  amico,  ma  aveva  anche  subito  il  più  grande  scacco 
professionale della sua carriera. 
Per scacciare i brutti ricordi, si alzò dalla poltrona e si versò un dito 
di whisky di puro malto. 
«Buon Natale» disse, alzando il bicchiere verso la propria immagine allo 
specchio. 
La  stanza,  circondata  da  vetrate,  era  immersa  in  una  luce  irreale  e 
offriva  una  vista  formidabile  del  parco.  L'ambiente  era  sobrio  ed 
essenziale. Su uno scaffale metallico due sculture di Alberto Giacometti 
e appeso alla parete un quadro monocromo di Robert Ryman: un quadrato 
bianco,  semplice in  apparenza, addirittura banale  per chi  non  sapesse 
cogliere le infinite variazioni di luce che si ricreavano sulla tela. 
Intuire l'invisibile, vedere ciò che si nasconde dietro la superficie era 
l'essenza stessa della sua professione. 
 
Con il bicchiere in mano, Connor analizzò sullo schermo del computer una 
zona  del  cervello  di  un  paziente  evidenziata  con  le  neuroimmagini 
funzionali.  Sofferenza,  amore,  felicità  o  dolore:  tutto  accadeva 
all'interno di quella scatola magica. Il desiderio, la memoria, la paura, 
l'aggressività, il pensiero, il sonno dipendono in buona parte dal fatto 
che  nell'organismo  vengono  liberati  i  neurotrasmettitori,  le  sostanze 
chimiche incaricate di far passare i messaggi da un neurone all'altro. 
Connor era stato un pioniere nell'analisi delle cause biologiche della 
depressione. Era stato lui a scoprire, insieme a un team di ricercatori, 
che  un  gene  trasportatore  più  corto  del  normale  predispone  alla 
depressione e al suicidio. Gli individui dunque non nascono uguali e non 
affrontano ad armi pari le prove della vita. 
Connor, però, non aveva mai creduto ciecamente nel determinismo genetico. 
Convinto  che  lo  psichismo  e  la  biologia  fossero  strettamente  legati, 
aveva sempre cercato di approfondire sia l'ambito psicologico sia quello 
neurologico.  Era  impossibile  stabilire  una  gerarchia  tra  esperienza  e 
corredo genetico. 
In ogni caso, questa era la sua convinzione: niente può essere stabilito 
in maniera definitiva. 
Il  palazzo  in  cui  si  trovava  lo  studio  ospitava  un  albergo  a  cinque 
stelle, diversi ristoranti e un locale jazz. Ogni rumore, ogni voce, ogni 
risata lontana, in quel momento, sembravano sottolineare la solitudine di 
Connor.