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Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza
Profondo Nero Mattei, De Mauro, Pasolini
un'unica pista all'origine delle stragi di stato
Erano gli anni Settanta. Il giornalista De Mauro stava preparando la
sceneggiatura del film di Francesco Rosi sulla morte di Enrico Mattei,
il presidente dell'Eni che osò sfidare le compagnie petrolifere
internazionali. Lo scrittore Pasolini stava scrivendo il romanzo
"Petrolio", una denuncia contro la destra economica e la strategia
della tensione, di cui il poeta parlò anche in un famoso articolo sul
"Corriere della Sera". De Mauro e Pasolini furono entrambi
ammazzati. Entrambi avrebbero denunciato una verità che nessuno
voleva venisse a galla: e cioè che con l'uccisione di Mattei prende il
via un'altra storia d'Italia, un intreccio perverso e di fatto eversivo che
si trascina fino ai nostri giorni. Sullo sfondo si staglia il ruolo di
Eugenio Cefis, ex partigiano legato a Fanfani, ritenuto dai servizi
segreti il vero fondatore della P2. Il "sistema Cefis" (controllo
dell'informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti,
primato del potere economico su quello politico) mette a nudo la
continuità eversiva di una classe dirigente profondamente
antidemocratica, così come aveva capito e cercato di raccontare
Pasolini in "Petrolio". Le carte dell'inchiesta del pm Vincenzo Calia,
gli atti del processo De Mauro in corso a Palermo, nuove
testimonianze e un'approfondita ricerca documentale hanno permesso
agli autori di mettere insieme i tasselli di questo puzzle che attraversa
la storia italiana fino alla Seconda Repubblica.
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Protagonisti e comparse
Enrico Mattei, presidente dell'Eni, morto il 27 ottobre 1962 nella
sciagura aerea di Bascapé. Vuole rivoluzionare la politica petrolifera
italiana. Secondo un'inchiesta giudiziaria, viene ucciso in un
«complotto italiano» coperto da numerosi depistaggi.
Irnerio Bertuzzi, pilota del Morane Saulnier 760, l'aereo privato di
Mattei. Muore con il presidente nella sciagura di Bascapé.
William McHale, giornalista americano. È al seguito del presidente
dell'Eni in Sicilia per un reportage. Muore con Mattei e Bertuzzi nel
disastro aereo.
Greta Paulas, moglie di Mattei. Confessa di aver visto il marito
piangere dopo l'ennesima minaccia di morte.
Italo Mattei, fratello di Enrico. Si convince che il secondo viaggio in
Sicilia del presidente dell'Eni è una trappola.
Rosangela Mattei, figlia di Italo, nipote di Mattei. A lei il ministro di
Grazia e Giustizia Oronzo Reale fa sconvolgenti dichiarazioni sulla
morte del presidente dell'Eni.
Angelo Mattei, nipote di Enrico Mattei, racconta ai giudici che il
presidente dell'Eni scoprì Cefìs intento a frugare nella sua cassaforte, e
lo cacciò.
Rino Pachetti, ex partigiano, addetto alla sicurezza dell'Eni.
Sani Waagenaar, giornalista, inviato del «Saturday Evening Post». Ha
seguito Mattei nel primo viaggio in Sicilia.
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Mario Ronchi, colono di Bascapé. Prima che l'aereo di Mattei si
schianti al suolo vede «una palla di fuoco» in cielo. Sarebbe la prova
del sabotaggio. Ma poi ritratta tutto.
Eugenio Cefìs, numero due di Mattei. Si dimette nel gennaio 1962,
rientra all'Eni subito dopo la morte del presidente, modificando
radicalmente la politica petrolifera. Per i servizi segreti è il fondatore
della P2.
Graziano Verzotto, nel 1955 è addetto alle pr dell'Eni in Sicilia, alle
politiche del 1967 viene eletto senatore, carica da cui si dimette il 19
dicembre 1969 per assumere la presidenza dell'Ente minerario siciliano.
Franco Briadco, responsabile relazioni esterne dell'Eni, uomo di Cefìs.
Angelo Fornara, ingegnere dell'Eni, fedelissimo di Cefìs. Vincenzo
Cazzaniga, presidente della Esso.
Carlo Massimiliano Gritti, collaboratore di Cefìs all'Eni. Addetto alle
relazioni con i servizi segreti. Italo Mattei racconta che fu Gritti a
tentare di convincerlo che il fratello era morto in seguito a un incidente
aereo.
Raffaele Girotti, amministratore delegato della Snam nell'ottobre del
1962, quando Mattei precipita con il suo aereo a Bascapé. È indicato
come un fedelissimo di Cefìs.
Marcello Boldrini, presidente dell'Eni subito dopo la morte di Mattei.
Soverchiato dalla più forte personalità di Cefìs, in realtà si occupa solo
di pubbliche relazioni.
Franco Di Bella, capocronista del «Corriere della Sera». Tesserato P2,
diventerà anni dopo il direttore del quotidiano.
Gualtiero Nicotra, cugino di Verzotto. Presidente della fallimentare
compagnia aerea Alis, promette al pilota Bertuzzi di assumerlo e di fare
di lui un importante manager dell'aria.
Giuseppe D'Angelo, Dc, nel 1962 è il presidente della Regione Sicilia.
È un agguerrito avversario di Vito Guarrasi (vedi sotto), che con il
governo Milazzo aveva mandato la DC all'opposizione.
Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano «L'Ora» di Palermo, ex
repubblichino, scompare a Palermo il 16 settembre 1970 con il metodo
della «lupara bianca», mentre indaga sulla morte di Mattei.
Franco Rosi, regista cinematografico. Ha commissionato a De Mauro
una ricerca sull'ultimo viaggio di Mattei in Sicilia perché vuole fare un
film sulla morte del presidente dell'Eni.
Vittorio Nisticò, direttore de «L'Ora».
2
Vito Guarrasi, avvocato, eminenza grigia della politica siciliana.
Secondo Verzotto, è un uomo di Cefìs a Palermo. E considerato il
Mister X del caso De Mauro.
Antonino Buttafuoco, detto «la Spingarda)). Dopo il sequestro De
Mauro cerca di carpire ai familiari informazioni riservate sulle indagini.
Viene arrestato ma poi scarcerato.
Nino Salvo, DC, potente esattore siciliano, rinviato a giudizio per mafia
nel maxiprocesso del 1984. Secondo un pentito, seppe da Guarrasi che
De Mauro indagava sulla morte di Mattei e lo segnalò al boss Bontade
chiedendogli di intervenire.
Elda Barbieri De Mauro, moglie del giornalista scomparso. Con il
cognato Tullio, incontra più volte il commercialista Buttafuoco, fino ad
allontanarlo per il suo comportamento ambiguo.
Junia e Franca De Mauro, figlie del giornalista scomparso. La prima
tiene un diario nel quale annota tutte le «anomalie» che ruotano attorno
al sequestro del padre. La seconda è l'ultima ad averlo visto vivo.
Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista. Intellettuale «scomodo»,
omosessuale dichiarato, viene assassinato in circostanze misteriose
all'Idroscalo di Ostia, a Roma, la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975.
Giuseppe Pelosi, detto «Pino la Rana». Confessa di aver ucciso, da
solo, lo scrittore in seguito a una lite esplosa durante un rapporto
omosessuale a pagamento. Ma nel suo racconto molte cose non
quadrano.
Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», malvivente romano e
plu-riomicida. In carcere si vanta di aver partecipato al delitto Pasolini
con altri detenuti, ma poi davanti al giudice nega. Secondo alcune
testimonianze, da detenuto, mantiene contatti con ambienti della destra
eversiva.
Giuseppe Borsellino, detto «Braciola», e Franco Borsellino, detto
«Bracioletta». Sono due balordi del Tiburtino. Confidano al maresciallo
Sansone di aver ucciso Pasolini con Johnny e Pelosi. Poi dicono che era
uno scherzo. Sono morti di Aids.
Faustino Durante, perito che ha effettuato un'indagine necroscopica sul
corpo di Pasolini, dimostrando che la ricostruzione secondo cui Pelosi
fu l'unico a colpire il regista è del tutto inverosimile.
Nino Marazzitta e Guido Calvi, avvocati di parte civile della famiglia
Pasolini. Più volte hanno invocato la verità sul delitto dell'Idroscalo.
3
Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, abita con lui nel periodo del
delitto all'Idroscalo.
Luciano Garofano, comandante del Ris dei carabinieri di Parma.
Sostiene che, analizzando le tracce di sangue rimaste sui vestiti di
Pasolini, oggi si potrebbe chiarire la dinamica del delitto.
Sergio Citti, discepolo di Pasolini, poi regista. Convinto che Pasolini fu
attirato in un agguato premeditato all'Idroscalo con la scusa della
restituzione delle «pizze» di Salò, che erano state rubate.
Licio Gelli, capo della P2. Indicato da una nota riservata dei servizi
come il successore di Cefìs nelle trame sotterranee del potere italiano.
I magistrati e gli investigatori
Ferdinando Li Donni, questore di Palermo nel 1970.
Boris Giuliano, capo della Sezione omicidi della Squadra mobile di
Palermo nel 1970. Ucciso dalla mafia.
Bruno Contrada, capo della Sezione investigativa della Squadra mobile
di Palermo nel 1970. Vent'anni dopo sarà arrestato e condannato per
mafia.
Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1970 comandante della Legione
carabinieri di Palermo. Ucciso dalla mafia.
Giuseppe Russo, nel 1970 capitano dei carabinieri. Ucciso dalla mafia.
Vito Miceli, originario di Trapani. Nel 1970 è capo del Sid, il servizio
informazioni della Difesa.
Nino Mendolia, capo della Squadra mobile di Palermo nel 1970. Pietro
Scaglione, nel 1970 procuratore di Palermo. Viene ucciso il 5 maggio
1971, alla vigilia di una sua deposizione nel processo milanese per
diffamazione a Guarrasi.
Ugo Saito, nel 1970 pubblico ministero di Palermo. Conduce le
indagini sul sequestro De Mauro.
Mario Fratantonio, nel 1970 giudice istruttore a Palermo dell'inchiesta
De Mauro.
Giacomo Conte, giudice istruttore del pool antimafia a Palermo. Nel
1991 apre la seconda inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, poi
archiviata.
Vincenzo Calia, procuratore aggiunto di Genova. E il pm che a Pavia,
nel 1994, ha aperto una nuova inchiesta sulla morte di Mattei, mettendo
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per la prima volta in relazione l'uccisione del presidente dell'Eni con la
scomparsa di De Mauro e l'omicidio Pasolini.
Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo. Nel 2001 apre la
terza inchiesta sulla scomparsa di De Mauro. Chiede e ottiene il rinvio a
giudizio del boss Totò Riina.
Giancarlo Trizzino e Angelo Pellino, presidente e giudice a latere della
Corte d'assise di Palermo che processa il boss Totò Riina per l'uccisione
di De Mauro.
Renzo Sansone, maresciallo dei carabinieri. Infiltrato nella malavita del
Tiburtino, raccoglie le confidenze dei fratelli Borsellino.
Italo Ormanni e Diana De Martino, il primo è stato procuratore
aggiunto a Roma, la seconda è tuttora pm. Sono i titolari dell'ultima
inchiesta sull'uccisione di Pasolini, aperta nel 2005 in seguito alle
dichiarazioni televisive di Pelosi e successivamente archiviata.
Avviso al lettore
Caro lettore,
prendi fiato: stai per fare un salto nel tempo, una corsa a ritroso nella
storia italiana, per scoprire il mistero del complotto che potrebbe aver
provocato la morte di Enrico Mattei, il presidente dell'Eni precipitato
nel 1962 con il suo aereo nella campagna pavese di Bascapé.
Ma stai per scoprire qualcosa di più.
Che quel complotto sarebbe stato orchestrato «con la copertura degli
organi di sicurezza dello Stato», e poi occultato in un intreccio di
omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia
del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto.
Per questo motivo sarebbe sparito nel nulla a Palermo il giornalista
Mauro De Mauro, eliminato in circostanze misteriose per volontà di un
mandante invisibile. Per questo motivo lo scrittore Pier Paolo Pasolini,
ucciso ufficialmente in un'assurda lite tra «froci», sarebbe rimasto
vittima di un agguato studiato a tavolino. Come si legano i tre delitti?
Un filo nero come il petrolio avvolge la fine di Mattei, De Mauro e
Pasolini.
E quanto afferma, nella sua complessa inchiesta giudiziaria sulla fine di
Mattei, il pm Vincenzo Calia, costretto dopo nove anni di indagini a
concludere il fascicolo con una richiesta di archiviazione per non aver
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raccolto prove sufficienti a inchiodare i colpevoli alle loro
responsabilità. L'inchiesta è stata dunque archiviata.1 Ma il gip Fabio
Lambertucci, pur chiudendo il caso, non ha potuto non evidenziare «il
merito indiscusso in chiave di ricerca storiografica dell'indagine
condotta dalla Procura di Pavia». Lo stesso Lambertucci, infatti, ha
riconosciuto l'esistenza di una catena inquietante di fatti
apparentemente inesplicabili che hanno seguito la morte del presidente
dell'Eni, leggendoli come «possibili depistaggi», ma in assenza di prove
sufficienti ha rilevato che «sulla cruciale vicenda della scomparsa di
Enrico Mattei, potranno d'ora in avanti esercitarsi al più gli storici».
Attenzione: questa è una precisazione importante.
Il mestiere di storico e quello di giudice sono irriducibili e non
potranno mai essere identificati. Carlo Ginzburg ha rilevato che «uno
storico ha il diritto di scorgere un problema, là dove un giudice decide
il "non luogo a procedere"»2. E così, mentre per il giudice il «caso
Mattei» ha trovato un punto d'arrivo nell'archiviazione e non può essere
oggetto di ulteriore approfondimento, per lo storico la medesima
vicenda, fìtta di misteri e interrogativi tuttora non risolti, costituisce e
continuerà a costituire un caso da indagare.
Il giudice e lo storico, insomma, non possono che seguire percorsi ben
diversi: il primo giudica solo sulla base di prove e di indizi, il secondo
ricostruisce anche sulla base di ipotesi. Lo storico (e, nel nostro caso,
anche il giornalista) procede dunque per deduzioni, ed è legittimato a
sottolineare le contraddizioni e le smagliature delle ricostruzioni
ufficiali, purché le sue ipotesi e i suoi interrogativi vengano
onestamente presentati come tali.
Ed eccoci al nostro racconto. Quella che segue, caro lettore, è una
ricostruzione basata su fatti raccolti dalle carte giudiziarie, su
documenti d'archivio, su libri, reportage e interviste. Una storia
«sbagliata» che va ben oltre la verità giudiziaria finora raggiunta.
Pagina dopo pagina, percorrendo il labirinto di tre casi mai risolti,
riuscirai a guardare l'Italia come nessuno l'ha mai vista, da Pasolini in
poi: un Paese dove la natura criminale del potere ostacola da sempre
l'esercizio della giustizia, dove il sistema dei ricatti incrociati
costituisce la triste regola del passato, ed è la logica premessa di un
presente caratterizzato dalla legittimazione democratica di nuovi
autoritarismi che minacciano, ancora una volta, la tenuta delle
istituzioni.
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Note:
1Cfr. il decreto di archiviazione del 17 marzo 2004 disposto dal gip
Fabio Lambertucci. Il documento è riportato integralmente
nell'appendice.
2 Cfr. C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al
processo Sofri, Feltrinelli, Milano 2006.
Prologo
Roma, 2 novembre 1975. L'una e mezzo. È notte fonda. Sul lungomare
Duilio di Ostia c'è un'auto dei carabinieri di pattuglia. All'improvviso,
arriva un'Alfa 2000 Gt, una bella macchina sportiva grigio argento, che
passa sfrecciando in senso vietato. Ma chi è questo pazzo? Un
carabiniere la vede, si raddrizza di colpo, si mette al centro della strada,
tira su la paletta dell'alt. Ma l'Alfa non si ferma. I militari saltano sulla
gazzella e scatta l'inseguimento. Raggiungono l'Alfa, la affiancano
contro il guardrail e la costringono a fermarsi. Ma di colpo l'Alfa
riparte, sgommando. Il carabiniere in fretta e furia corre in macchina e
ricomincia l'inseguimento. La caccia al misterioso automobilista si
conclude in pochi minuti. I militari ci mettono un niente per
raggiungere di nuovo il fuggitivo, e questa volta l'appuntato ha in mano
il mitra.
Ma chi c'è su quella macchina sportiva? Dall'auto di lusso salta fuori un
ragazzetto, un «pischello», un adolescente secco e allampanato, con i
riccetti e un piccolo taglio sulla fronte, che cerca ancora di scappare, a
piedi, caracollando sui suoi stivaletti con il tacco, ma viene subito
acciuffato. E ammanettato. Come ti chiami? Pelosi Giuseppe, di anni
diciassette, detto Pino, qualche precedente per furto. Perché scappi?
Non ho la patente. Non ha nemmeno diciott'anni. E poi, quell'auto, l'ha
rubata. E che ci fai a Ostia, Pelosi? Il «pischello» risponde che c'è
andato per accompagnare un amico, poi ha visto i carabinieri ed è
scappato. Perché sei ferito, Pelosi? Il ragazzo dice che ha battuto la
testa contro il volante mentre scappava con l'auto sportiva. Non è
niente, spiega, non mi fa male.
Di chi è quella bella macchina rubata? I carabinieri guardano la carta
di circolazione: è l'auto di Pier Paolo Pasolini. Questo Pelosi ha rubato
la macchina di un personaggio noto. Sono le cinque del mattino quando
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il «pischello» viene portato nel carcere minorile di Casal del Marmo.
«Dateme l'anello - dice Pelosi - il mio anello, l'ho perso.» E un anello
prezioso. Pelosi Giuseppe ora lo rivuole. Dice ai carabinieri di tornare
alla macchina, di cercare questo anello d'oro, bello grosso, con una
pietra rossa e la scritta «United States Army». I carabinieri cercano, ma
non trovano niente. L'anello sull'Alfa non c'è. Pelosi viene portato in
carcere e la macchina argentata viene parcheggiata in una rimessa.
Prima di lasciarla lì, i carabinieri si accorgono che a bordo c'è un
pullover verde, un vecchio maglione usato e sdrucito. Si trova sul sedile
posteriore, assieme al giubbotto e al maglione di Pino Pelosi. E c'è
anche un plantare, uno solo, per una scarpa destra, numero 41.
Nient'altro. Il caso, all'alba di domenica, sembra chiuso. Ma in carcere,
appena arrivato, Pelosi fa al compagno di cella una rivelazione: «Ho
ammazzato Pasolini».
Alla foce del Tevere c'è un'area degradata che si chiama Idroscalo. È
una baraccopoli, un agglomerato di case abusive, con il tetto in lamiera,
che stanno in piedi per scommessa. Alle 6.30 del mattino la signora
Maria Teresa Lollobrigida, pro-prietaria con il marito di una di quelle
baracche, è appena arrivata. Si guarda intorno, non c'è nessuno, vede
una grossa macchia tra le pozzanghere, pensa sia un sacco
dell'immondizia, e si mette a imprecare. «Ma li mortacci...» Poi si
avvicina per toglierlo di mezzo. Solo allora si accorge che si tratta di un
cadavere. La signora resta impietrita: torna alla baracca, chiama il
marito e insieme avvisano la polizia. Il cadavere sta al centro di un
campetto da calcio. Intorno al corpo ci sono pezzi di legno pieni di
sangue, ciocche di capelli e un anello, un anello con una pietra rossa e
la scritta «United States Army». Qualche metro più in là, tra le
pozzanghere e il fango, c'è una camicia di lana, a righe, tutta sporca di
sangue. E pure una tavoletta rossa di sangue. Per terra, tracce di
pneumatici che corrono dalla porta del campetto fino al corpo senza
vita. Anzi, a guardarle bene, quelle tracce salgono sul tronco del
cadavere, lo attraversano da parte a parte. La macchina lo ha
schiacciato.
«Mamma mia, ma che gli hanno fatto a 'sto disgraziato?» Il corpo è
una poltiglia di sangue e carne spappolata. E steso a pancia in giù, con
una canottiera e un paio di calzoni con la cerniera aperta. Chiunque
abbia occhi per guardarlo si rende conto che quell'uomo è stato
picchiato in modo feroce: ci sono lesioni e contusioni sulla testa, sulle
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spalle, sul dorso e sull'addome, fratture alle falangi della mano sinistra
e dieci costole spezzate. È stato massacrato di botte. Alle 7.30 arriva il
capo della Squadra mobile di Roma, Fernando Masone. Alle dieci del
mattino l'attore Ninetto Davoli riconosce il cadavere: è quello del suo
amico Pier Paolo Pasolini.
La polizia ha trovato il corpo di Pasolini. I carabinieri la sua auto
rubata. Sono il prologo e l'epilogo della stessa storia di sangue e di
morte. Di lì a poco Pelosi, in carcere, confessa: «Mi trovavo con gli
amici Salvatore, Claudio e Adolfo, a piazza dei Cinquecento». Il suo
racconto è lungo, articolato, preciso. Comincia alle ore 22.30 della sera
precedente, sabato, davanti al bar, un chioschetto della stazione
Termini. Attenzione a questo racconto pieno di lacune, di buchi, di
elementi inspiegabili, perché questa è la ricostruzione che da trent'anni,
anzi ormai da trentaquattro anni, costituisce l'unica verità giudiziaria
sulla morte di Pier Paolo Pasolini.
Sabato 1° novembre 1975. Sono le 22.30. Pelosi è con gli amici, fuma,
chiacchiera, passa il tempo. Si avvicina un'Alfa 2000 Gt grigio
metallizzata. Scende un uomo e chiede a uno dei ragazzi, Adolfo: «Che
ne dici? Facciamo un giro?». Adolfo dice di no. L'uomo allora si
avvicina a Pelosi e ripete: «Ehi, tu, vuoi venire a fare un giro con me
che ti faccio un regalo?». Pelosi è un «pischello», un ragazzetto, ma è
un tipo sveglio, sa cosa vuole quell'uomo, sa che lo sta «rimorchiando».
Però ci sta. «Ce vengo», dice. E sale in auto con lui. L'uomo chiede a
Pelosi come si chiama. Il ragazzo risponde: «Pino». Poi dice che ha
fame. L'ora di cena è passata da un pezzo, ma l'uomo conosce un posto,
una trattoria che è ancora aperta. Forse faranno più tardi del previsto.
Pino chiede all'uomo di tornare un momento al bar della stazione, deve
farsi dare le chiavi di casa e della macchina, che ha lasciato a un amico.
L'Alfa ricompare davanti al chioschetto. Pelosi chiede all'amico
Claudio le chiavi e gli dice che può prendere lui la macchina, con il
doppione, basta che poi gliela lasci sotto casa.
L'uomo e Pino ora vanno verso la trattoria Biondo Tevere, dove il
primo sembra molto conosciuto. Tutti lo salutano, perché quell'uomo è
Pier Paolo Pasolini, uno famoso, ma Pino dice che non lo sa, per lui è
soltanto un signore gentile, che si chiama Paolo.
Pino mangia di gusto, un piatto di spaghetti, poi chiede un petto di
pollo. Nel frattempo Paolo gli fa un sacco di domande. Restano a
chiacchierare seduti in trattoria fino alle 23.30, poi salutano e vanno
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