Table Of ContentAlessandro Dal Lago
Pier Aldo Rovatti
Per gioco
Piccolo manuale
dell’esperienza ludica
Raffaello CortinaEditore
Redazione
Mariella Agostinelli
Progetto grafico
Giorgio Catalano
Fotocomposizione
Compostudio Est - Cernusco s. N.
ISBN 88-7078-256-5
© 1993 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 1993
Ristampa
54321 1997 1996 1995 1994 1993
Indice
Introduzione 7
1. Un gioco da bambini (Innocenza e finzione) 21
2. Giochi della vita (L’avventura) 41
3. Il gioco nella lingua (La sorpresa) 59
4. Giochi profondi (L’azzardo) 79
5. Il girotondo (La circospezione) 97
6. Giochi pericolosi (Il rischio) 117
7. Il gioco dell’io (L’illusione) 137
8. Giochi sociali (Il rito) 157
Introduzione
1. Giocare è l’esperienza più comune che ci
possa capitare. Nel corso di un solo colloquio
con un nostro simile - che so, un esame universi
tario, una conversazione amichevole o d’affari,
un incontro con l’innamorato o l’innamorata -
noi giochiamo con le parole, giocherelliamo con
le dita, ma anche ci giochiamo in senso stretto la
carriera, l’amore, il nostro futuro. Altre volte, e
con la massima naturalezza, nel bel mezzo di una
situazione seria o impegnata, il gioco fa capolino
con un ammiccamento, una strizzata d’occhi, una
battuta improvvisa o un semplice gesto rilassato.
Altre volte ancora noi abbandoniamo deliberata-
mente le nostre attività serie e decidiamo di en
trare in un’altra dimensione. Ci poniamo davanti
a una scacchiera, a un tavolo verde oppure in un
prato e iniziamo a giocare.
Giocare è la cosa più semplice, anche quando
è necessario qualche strumento: un mazzo di car
te, un pallone, una moneta da far volare in aria,
una biglia. In questo noi non solo restiamo sem
pre dei bambini, a cui basta un pezzo di legno e
8 PER GIOCO
un filo per entrare in uno spazio di gioco, ma fac
ciamo emergere facilmente il nostro essere ani
male. Come i gatti che passano naturalmente dal
la caccia al gioco, dalla lotta al “divertimento”,
anche noi scivoliamo sempre e comunque nel
gioco. Nel corso di una dichiarazione impegnati
va ci capita spesso di dire una battuta o un dop
pio senso. E i nostri simili, quelli che ci stanno
ascoltando, sono prontissimi a riprendere il no
stro invito, consapevole o inconsapevole che sia,
a sorridere di colpo oppure, come capita con le
freddure inglesi, a ridere fragorosamente dopo
un certo tempo.
Rispetto alla facilità e alla spontaneità di que
sto scivolamento nel gioco, la serietà ci costringe
a sforzi spesso innaturali, a un vero e proprio la
voro. Fuori, nel mondo, è come se istituzioni e
regole, orari e disciplina, orologi e semafori, aves
sero il compito di limitare una spontaneità che
può divenire sdrucciolevole, creare inciampi e
gaffes. Ci sono situazioni in cui la spontaneità lu
dica diventa insopportabile e dirompente. Basta
un piccolo equivoco per trasformare un’occasio
ne solenne, o semplicemente seria, in un disastro,
un rito in una catastrofe (così, in un racconto di
Jerome K. Jerome, due studenti che non capisco
no il tedesco sono invitati a un concerto di Lieder
e si sentono obbligati a ridere fragorosamente
dopo ogni pezzo, perché un burlone aveva detto
loro che si trattava di canzoni comiche). Il riso,
come si sa dopo Bergson e Freud, esprime l’in
congruità di serietà e divertimento. E noi sappia
mo come il riso, al pari del gioco, sia sempre in
agguato.
INTRODUZIONE 9
Ora, se concepiamo il gioco, in tutte le sue ma
nifestazioni, come la dimensione logicamente di
versa da ciò che chiamiamo vita seria, ma così in
trecciata con essa da farci continuamente scivola
re fuori dalla serietà, ci imbattiamo in una diffi
coltà evidente. Che cosa c’è di comune ai giochi?
Che cosa li unisce, visto che dopotutto anche nei
giochi si insinua la serietà? Che cosa c’è di comu
ne ad attività serie, eppure chiaramente ludiche,
come il teatro, il gioco degli scacchi o una gara di
atletica, e altre come la comicità spontanea, il riso
liberatorio, o l’azzuffarsi per scherzo, che sono
altrettanto ludiche, ma non “serie”?
E questa una difficoltà che ha sempre attirato i
filosofi, senza però che abbiano fornito delle ri
sposte soddisfacenti. Ludwig Wittgenstein, ad
esempio, ci parla di contiguità dei giochi, del loro
essere definibili mediante una giustapposizione e
non una caratteristica generale o una regola costi
tutiva universale. Ma il filosofo austriaco, che for
se era troppo serio per approfondire veramente
questa dimensione, si interessava soprattutto dei
“giochi linguistici”, voleva sottolineare che il lin
guaggio non è la manifestazione di leggi ideali,
ma una sorta di bricolage, di attività pragmatica
in cui il linguaggio viene assemblato come si fa
nel “gioco” del meccano.
Wittgenstein si interessava soprattutto alle “re
gole”. Effettivamente oggi ci risulta difficile inter
pretare le regole, della vita seria e dei giochi, come
fili che muovono noi, burattini seri o ludici, tragici
o comici. Noi passiamo gran parte della nostra vita
a riformulare le regole, a dire ai nostri simili che
partono da premesse sbagliate, oppure a interpre
10 PER GIOCO
tare le loro regole. La vita sociale e politica è an
che una rielaborazione incessante delle regole, in
cui volta per volta le poste cambiano e i giocatori
entrano e escono di scena, insomma un gioco non
solo di un bambino divino (come in Eraclito), ma
anche folle, come Shakespeare fa dire a un suo
eroe tragico. Eppure (e qui ancora una volta si ma
nifesta il paradosso della serietà dei giochi) esisto
no attività ludiche in cui le regole sono invece sa
cre e intangibili. Le regole degli scacchi, inventate
più di mille anni fa, non si toccano. Per cambiare
le regole di certi sport sono necessari anni di di
battiti e spesso l’intervento di autorità politiche e
religiose (ci vollero quattro secoli di cristianesimo
per far cessare i combattimenti di gladiatori, e solo
l’intervento del presidente Theodore Roosevelt
convinse le autorità accademiche americane a
cambiare le regole violente del football universita
rio, che causava ogni anno, all’inizio del secolo,
infortuni mortali ai giocatori).
Le riflessioni di Wittgenstein applicano dun
que la metafora dei giochi di abilità manuale al
linguaggio e alla vita seria ma non ci permettono
di penetrare la misteriosa complessità dei giochi.
E nemmeno la nota distinzione tra game (unità lu
dica o “partita”) e play (“il giocare”) ci porta mol
to lontano (come vedremo in un capitolo di que
sto libro). Ci basti notare che in inglese to play si
gnifica “eseguire” o “svolgere” e che play è anche
“dramma” (analogamente al tedesco Spiel). D’al
tra parte game vale anche per “selvaggina”. E con
ciò siamo ricacciati nella consueta oscillazione tra
serietà e disimpegno, tra unità ludica formalizzata
e gioco aperto.