Table Of ContentAndy McDermott
Osiris
Alla mia famiglia e ai miei amici
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E P I L O G O
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Prologo
Giza, Egitto
La faccia segnata dal tempo della Grande Sfinge osservò, impassibile, Macy Sharif passare davanti
alle sue enormi zampe di pietra. Da parte sua, la donna non degnò del minimo sguardo l’antichissimo
monumento. Nelle due settimane trascorse lì, la Sfinge e le piramidi svettanti alle sue spalle si erano
trasformate da maestose meraviglie a meri sfondi di un lavoro che si era rivelato ben al di sotto delle
sue aspettative. Nel corso della prima settimana Macy aveva scattato centinaia di foto e filmati
digitali, ma ora la sua fotocamera era solo un peso in una tasca sulla coscia, inutilizzata da giorni.
Com’era possibile che proprio l’Egitto l’avesse delusa così tanto? Dalla più tenera età, era stata
affascinata dai racconti del nonno sul Paese in cui era nato; storie di re e regine in una terra di
portenti, più belle di qualsiasi favola perché, guarda caso, erano vere. Per Macy si trattava di un
mondo esotico e romantico, lontano dall’opulenta Key Biscayne di Miami, e lei, già da bambina, si era
prefissata di conoscerlo di persona, un giorno.
Ma la realtà non era stata al l’altezza del sogno.
Si fermò per osservare le tettoie accanto alla zampa destra della Sfinge. Ancora nessun segno di
Berkeley.
Un’occhiata al l’orologio: erano quasi le otto e un quarto di sera. La videoconferenza quotidiana
del capo della spedizione con l’International Heritage Agency di New York sarebbe dovuta cominciare
di lì a poco; alle otto e mezzo avrebbe avuto inizio lo spettacolo notturno son et lumière, uno sfoggio
pacchiano di fari e laser colorati proiettati sulle piramidi e sulla Sfinge; Berkeley e i membri di grado
superiore della squadra archeologica se ne andavano sempre poco dopo il rombo dei primi accordi
musicali, lasciando ai sottoposti e ai manovali del luogo il noioso compito di mettere in sicurezza e di
riordinare lo scavo.
Macy non era neppure sicura del fatto che Berkeley la considerasse un membro effettivo della
squadra. D’accordo, le restavano ancora due anni di università prima di ottenere la laurea e, forse, i
suoi voti non la collocavano esattamente ai vertici della classe, ma restava pur sempre una studentessa
di archeologia. Più o meno. E ciò le garantiva il diritto di fare qualcosa che non fosse preparare caffè e
trasportare detriti. riprese a camminare, mentre la luce di un faro riflessa dal volto della Sfinge
proiettava una tinta arancione sulla sua pelle olivastra che, assieme al suo aspetto, tradiva le origini
cubane di sua madre.
Fece una pausa per sistemarsi la coda di cavallo, dopo di che, al suono di alcune voci attutite, girò
frettolosamente intorno alla gigantesca zampa della Sfinge e vide il capo della sua squadra emergere
dallo scavo.
Al loro primo incontro, aveva inizialmente pensato che il dottor Logan Berkeley avesse il fascino
dello studioso. Sui trentacinque, una massa di capelli castani che gli cadeva sulla fronte, lineamenti
delicati… Poi aveva aperto la bocca e si era rivelato uno stronzo arrogante, una definizione che
calzava a pennello anche ai due uomini che erano con lui: il produttore televisivo Paul Metz, tarchiato,
fatto a pera e barbuto, lo sguardo lascivo che, con suo sommo disgusto, Macy trovava spesso puntato
su di lei; e il dottor Iabi Hamdi, un alto funzionario del Consiglio superiore per le antichità egiziane,
l’agenzia governativa preposta alla supervisione delle attività archeologiche dell’intero Egitto. Hamdi,
obeso e dalla capigliatura rada, tecnicamente era il responsabile del sito, ma sembrava felice di
lasciare che Berkeley facesse tutto ciò che voleva, essendo più interessato a mettere la faccia davanti
alle telecamere. Macy non si sarebbe sorpresa se Hamdi, tronfio come un tacchino, si fosse piazzato
davanti all’obiettivo nel momento in cui, finalmente, la notizia del rinvenimento della leggendaria
Sala degli Atti fosse stata rivelata al mondo. La messa in onda di quella impresa era l’attuale
argomento di discussione.
«Dunque, sei assolutamente sicuro al cento per cento di poter aprire la porta al momento
previsto?» chiese Metz con un tono di voce che lasciava intendere che la vedeva diversamente.
«Per l’ultima volta: apriremo l’ingresso del sotterraneo nel momento preciso da me indicato», gli
ripeté Berkeley con la sua pronuncia nasale, altezzosa, del New England, satura di frustrazione. «So
quello che faccio. Non è il mio primo scavo, sai…»
«Però, è il primo che avrai fatto davanti a cinquanta milioni di persone. E la rete televisiva non
sarà contenta se il suo special trasmesso nell’orario di punta consisterà nel vedere te che spacchi
mattoni e basta. Quella gente vuole assistere a qualcosa di mirabolante. Il pubblico adora le stronzate
egiziane.»
Combattuto fra la difesa del meraviglioso passato del suo popolo e il mantenimento di buoni
rapporti con il produttore, Hamdi optò per il secondo. «Dottor Berkeley, mi può assicurare che
rispetteremo la tempistica prevista?»
«Tra otto giorni», disse l’altro a denti stretti, «mostreremo al mondo qualcosa di ancor più
straordinario di Atlantide, non si preoccupi.» Si voltò verso una baracca prefabbricata vicina, sul tetto
della quale era montata un’antenna parabolica: il quartier generale della squadra. «A proposito di
tempistica, è ora che mi colleghi.»
Forse non era dell’umore migliore, ma Macy doveva fare un tentativo. «Dottor Berkeley, ce l’ha
un minuto?»
«Solo il tempo che mi serve per raggiungere la baracca», le ribatté, brusco, rivolgendole uno
sguardo sprezzante. «Di che cosa si tratta?»
«Di me», disse Macy, adattando il proprio passo al suo.
«Speravo in un maggiore coinvolgimento nell’attività archeologica vera e propria… Credo di
essermi dimostrata all'altezza del lavoro.»
Berkeley si fermò e si voltò verso la giovane donna. «Del lavoro?» ripeté, abbandonandosi a un
sospiro sarcastico. «Questa parola la dice lunga, giusto? Macy, l’archeologia non è un lavoro. È una
vocazione, un’ossessione, qualcosa che invade ogni tuo pensiero cosciente. Se tutto ciò che desideri è
un’occupazione, McDonald’s e 7-Eleven sono alla costante ricerca di personale…»
«Non intendevo paragonare…» fece per dire Macy, sorpresa dalla sua ostilità.
«Il motivo per cui non sei stata coinvolta nello scavo principale», aggiunse Berkeley, «è
esattamente quello: non eri coinvolta. Che cosa hai fatto per guadagnarti un posto, qui? Gli altri
ragazzi vantano numerosi scavi sui loro curriculum e si sono tutti laureati con il massimo dei voti. E
tu?» Il disprezzo gli fece storcere la bocca. «Conoscenze in occasione di raccolte di fondi per
beneficenza. E, a prescindere che si tratti di buone cause o no, non mi piace che mi vengano imposti
studenti universitari privi di qualifiche solo perché renée Montavo del L'ONU doveva un favore a tua
madre. Dovresti essere dannatamente grata del semplice fatto di trovarti qui. E adesso vai a finire il
tuo lavoro.
Sono in ritardo per la mia videoconferenza con la professoressa rothschild.» Entrò nella baracca,
sbattendo la porta.
Macy restò a fissarlo, scioccata, dopo di che si voltò e si ritrovò gli occhi di Hamdi e Metz
addosso. L’egiziano, imbarazzato, si diede una sistemata al cravattino di seta prima di ritornare sotto
la tettoia che copriva lo scavo principale, lasciandola sola con Metz.
«Vuoi un cambio di carriera?» le disse il produttore, con un sorriso lascivo. «Ho il numero di
alcune agenzie di modelle.»
«Vada a farsi fottere!» La ragazza si accigliò e sparì seduta stante dietro la Sfinge. Uno degli
addetti alla sicurezza in divisa stava salendo la rampa del fossato in cui giaceva il colossale
monumento. Volendo restare sola, si voltò ed entrò nelle rovine del tempio di fronte alle zampe
posteriori della statua, al buio.
Si sedette su un blocco di pietra, cercando di tenere a freno le proprie emozioni. Era arrabbiata, ma
anche agitata. L’Egitto non si era decisamente dimostrato all'altezza dei suoi sogni: lavoro ingrato,
smog, infezioni virali e uomini che le fischiavano dietro, le davano pizzicotti e cercavano di
abbordarla in strada… Altro che meraviglie e romanticismo! E adesso era appena stata insultata di
brutto dal suo capo. Testa di cazzo!
L’illuminazione esterna cambiò, e il tempio della Sfinge piombò ancor più nelle tenebre. Lo
spettacolo son et lumière stava per cominciare; dopo due settimane, Macy conosceva praticamente a
memoria quella storia di un’ampollosità quasi comica. Di norma, durante lo spettacolo metteva via
l’attrezzatura della squadra, ma quella sera…
«Al diavolo», mugugnò, stendendosi sulla pietra. Che fosse Berkeley stesso a raccogliere i suoi
stupidi attrezzi!
Sefu Gamal, il capo della sicurezza del sito, attraversò rapidamente il passaggio pedonale che
correva tra il tempio del a Sfinge e le rovine di dimensioni più modeste e meno antiche situate a
nordovest. Al termine del camminamento c’era un cancello d’accesso piantonato: dal 2008, lo spazio
un tempo aperto della piana di Giza era stato circondato da quasi venti chilometri di alta recinzione di
acciaio e fil di ferro, in parte per limitare il numero di ambulanti che cercano di vendere cianfrusaglie
ed escursioni a dorso di cammello ai visitatori, e in parte per motivi di sicurezza, dato che l’Egitto non
intendeva rischiare il ripetersi del massacro di turisti avvenuto a Luxor nel 1997. Da allora la piana
era tenuta sotto osservazione da centinaia di telecamere di sicurezza e da agenti della polizia turistica,
e tutti i visitatori erano controllati mediante metal detector.
Ma c’erano altre recinzioni all'interno dei siti archeologici, in questo caso non per proteggere i
visitatori dai terroristi, bensì per preservare i tesori dell’Egitto dal turismo di massa. L’accesso agli
ambienti interni delle piramidi era limitato a una manciata di persone al giorno, mentre la Sfinge
stessa era quasi del tutto chiusa al pubblico e, con l’apertura di un grande scavo archeologico, il suo
perimetro era presidiato ancor più del solito. Il fossato d’arenaria contenente la statua era cinto a est
dal tempio omonimo, a ovest e a sud, là dove era stata estratta dal deserto, da scarpate, e a nord da un
moderno muro di pietra su cui correva una strada che attraversava la piana, in cui l’accesso era
consentito solo a chi disponeva di un pass.
Ma quella sera si era fatta un’eccezione.
Gamal raggiunse il cancello e attese che lo spettacolo son et lumière avesse inizio. Un pubblico
composto da un paio di centinaia di turisti era seduto al di là del tempio della Sfinge. Lui avrebbe
preferito che l’incontro si svolgesse molto più tardi, dopo la fine dell’ultimo spettacolo e una volta
che i turisti – e la squadra dell’IHA – se ne fossero andati, ma l’uomo che lo attendeva era
impaziente… e facile all’ira.
Fari in avvicinamento: un suv nero Mercedes. Doveva trattarsi del suo ospite: da quando era stata
eretta la recinzione perimetrale, il traffico nel sito si era assai ridotto. La prima persona a smontare fu
uno sconosciuto dai tratti caucasici, allampanato e con i capelli lunghi, che indossava una giacca di
pelle di serpente; una barbetta arruffata celava a malapena la grinzosità quasi altrettanto squamosa del
suo viso. Girò intorno al veicolo per aprire la portiera a un altro uomo, egiziano come Gamal.
Il capo della sicurezza varcò il cancello per accoglierlo. «Signor Shaban! Quale onore incontrarla
di nuovo…»
Sebak Shaban non aveva tempo da perdere in convenevoli.
«I lavori dello scavo sono in ritardo.»
«Il dottor Berkeley ha detto che…»
«Non di quello scavo.»
Gamal celò il proprio disagio quando il suo interlocutore si voltò per guardarlo in faccia. Una
vecchia cicatrice da ustione gli attraversava la guancia destra dall'orecchio mutilato al labbro
superiore, e la pelle era increspata e lucida. Dagli incontri precedenti, il capo della sicurezza si era
convinto che Shaban fosse decisamente cosciente dell’impatto psicologico della sua lesione sul
prossimo, a cui mostrava il lato sinistro indenne e di bell'aspetto del viso fino al momento in cui
intendeva esprimere con forza la propria disapprovazione, e allora semplicemente girava la testa.
«C’è stato un lieve ritardo, molto lieve», si affrettò a spiegare Gamal. «È crollata una parte del
soffitto. L’abbiamo già puntellato.»
«Mi faccia vedere», gli ordinò l’egiziano, incamminandosi verso il cancello.
«Certo. Venga con me.» Gamal rivolse uno sguardo interrogativo all'altro uomo, che li seguì
all'interno
«La mia guardia del corpo. Nonché amico. Il signor Diamondback.»
«Diamondback?» gli fece eco Gamal con voce esitante.
«Bobby Diamondback», precisò la guardia del corpo, nel cui accento vibrava una cadenza
americana languida eppure minacciosa. «È un nome degli indiani Cherokee. Non le piace?»Gamal
pensò che quell’uomo gli ricordava più un cowboy che un indiano. Li guidò lungo il passaggio
pedonale. «Da questa parte, prego.»
La storia raccontata dallo spettacolo son et lumière era così comicamente enfatica da distrarre
momentaneamente Macy, quando, dalla sua posizione nel buio, si accorse della presenza di Gamal
sulla sommità del muro settentrionale del tempio.
Insieme a lui c’erano altri due uomini, un tizio bruttissimo con un’acconciatura bisunta anni ’80 e
una giacca di pelle di serpente, e un altro tizio che riconobbe come il signor Sharman… Shaban,
qualcosa del genere. Aveva già visto l’uomo dalla faccia sfregiata all’apertura dello scavo, e sapeva
che faceva parte dell’organizzazione religiosa che lo cofinanziava insieme all’IHA. Presumibilmente,
era lì per incontrare Berkeley.
I tre avanzarono fino all’angolo del tempio più piccolo, dove Gamal si fermò e puntò gli occhi in
direzione della Sfinge. Furtivamente, pensò Macy. Gli occhi freddi del tizio dalla giacca di pelle di
serpente le passarono sopra mentre perlustrava l’area.
Un brivido involontario la percorse. Non aveva idea del perché – lei aveva tutto il diritto di
trovarsi lì – ma, quando la parte razionale della sua mente ebbe detto al resto del corpo di rilassarsi, lo
sguardo dell’uomo era guizzato altrove.
Con grande sorpresa di Macy, invece di scendere dalla rampa verso la Sfinge, Gamal superò di
slancio il dislivello tra la stessa e la parte superiore del perimetro della statua, sparendo alla vista. Gli
altri uomini lo seguirono.
Strano. Il tempio superiore era di oltre mille anni più recente del più illustre vicino, una
realizzazione del Nuovo regno risalente grosso modo al 1400 avanti Cristo e, per quanto fosse in
condizioni migliori rispetto a quelle del tempio della Sfinge, era di gran lunga meno importante sul
piano storico. Perché Gamal stava conducendo una visita privata? Per giunta al buio?
Vide il profilo delle teste di quegli uomini che si incamminavano verso l’ingresso del tempio, per
poi procedere oltre.
Ora sì che la faccenda si faceva interessante! Lassù non c’era nient’altro. Dove stavano andando?
Soffocò a stento il desiderio sempre più forte di scoprire le loro intenzioni finché dalla Sfinge si
levarono delle grida: gli strepiti di Berkeley contro un manovale egiziano che aveva appena fatto
cadere una cassa.
’Fanculo, pensò la ragazza. Se il capo della spedizione aveva ancora la luna storta, lei non era
intenzionata a farsi trovare nei paraggi. Al contrario, risalì la rampa e con un balzo superò la fenditura
che la divideva dal tempio superiore.
Sopra di lei lampeggiarono strisce di laser verdi, che proiettavano geroglifici sulle piramidi
mentre il narratore cantava le lodi di Osiride, il Dio-re immortale della leggenda egiziana.
Che noia, l’ho già sentita tutta, pensò Macy. Oltre il muro del tempio, una parte dell'estremità
settentrionale della piana era stata cordonata con un reticolato di plastica arancione, là dove erano in
corso lavori di restauro dell'alto muro. Un paio di piccole baracche e una tensostruttura spuntavano tra
cataste di mattoni e mucchi di detriti. Era una parte del paesaggio così banale che, per quanto Macy la
vedesse ogni giorno quando entrava nel perimetro della Sfinge, non l’aveva mai realmente notata. Di
certo, in quel posto nessuno sembrava svolgere mai il minimo lavoro.
Ora però c’era qualcuno al cantiere. Oltre agli uomini di guardia al cancello, altre sentinelle
presidiavano il perimetro per assicurarsi che nessun turista tentasse di avvicinarsi eccessivamente alla
Sfinge. Ma l’uomo che attendeva Gamal e gli altri non era impegnato in un giro di ronda.
Le luci mutarono quando altri laser squarciarono il cielo nero. Lo sconosciuto osservò lo
spettacolo, distogliendo lo sguardo solo quando i visitatori lo raggiunsero. Vennero scambiate poche
parole, prima che li facesse entrare nel reticolato.
Gamal arrivò alla tensostruttura e ne scostò un lembo, rivelando delle luci al suo interno. Shaban e
Diamondback si abbassarono per entrare e, dopo aver rivolto l’ennesima occhiata furtiva dietro di sé,
il capo della sicurezza li seguì. Macy tornò di scatto dietro il muro del tempio, domandandosi se per
caso l’avesse scorta, prima di rendersi conto che si stava comportando da sciocca.
Allungò il collo: il tipo di guardia stava camminando lungo il perimetro del reticolato con un’aria
annoiata. Dai lembi scostati della tenda, Macy colse qualche segno di attività al suo interno, poi più
nulla.
Cosa stavano facendo lì dentro? Inoltre, a meno che quegli uomini non si fossero ammassati in un
angolo, la tensostruttura non pareva grande a sufficienza per nasconderli alla vista. In quel momento,
addirittura, sembrava vuota, ma lei non capiva come fosse possibile.
Infine, notò qualcos’altro: un pallido sbuffo di fumo. No, non un po’ di fumo, ma pennacchi di
fumo che si alzavano scoppiettando dall'estremità di un tubo. Ma in vista non c’era un solo generatore.
Dunque, da dove venivano quei pennacchi?
Ormai intrigata profondamente, fece qualche passo, mantenendosi bassa sotto un cumulo di
terriccio. Poi, però, capì quasi subito che il suo atteggiamento furtivo era inutile: per raggiungere il
cantiere avrebbe dovuto attraversare un ampio spazio aperto e, a meno che la guardia fosse cieca, non
le sarebbe certo sfuggita.
Ma forse, nel giro di qualche istante, l’uomo sarebbe potuto diventarlo davvero…
Macy sapeva che cosa sarebbe successo subito dopo nello spettacolo son et lumière, sentendoli
ogni sera. Il narratore stava per iniziare il suo racconto su Cheope, il costruttore del a Grande
Piramide, e per una manciata di secondi le luci avrebbero ceduto il posto al buio assoluto, prima di
illuminare il monumento del grande faraone.
Macy chiuse gli occhi e attese…
Le luci si spensero. riaprì gli occhi e si fiondò verso il cantiere, prima che la Grande Piramide si
accendesse come un faro.
Una musica dal forte impatto emotivo ruggì dagli altoparlanti. Macy raggiunse l’apertura nel
reticolato e si fermò dietro una delle tante cataste di mattoni. Dopo qualche istante diede una sbirciata
più avanti e vide la guardia, i cui occhi erano fissi sulla piramide avvolta di nuovo dalle luci dai
proiettori.
Espirò, provando qualcosa che non avvertiva dal suo arrivo in Egitto: eccitazione. No, si era
trattato piuttosto di pregustazione, un’emozione genuina, quasi infantile: un vero spasso!
Tenendo a freno una risatina nervosa, scrutò la tenda. Ora che era più vicina, riusciva a percepire
lo scoppiettio di un generatore, seppur flebile e con una strana eco. Controllò nuovamente che il tizio