Table Of ContentTom Robbins
NATURA MORTA CON PICCHIO
1980 by Tibetan Peach Pie, Incorporated.
Pubblicato d’intesa con Bantam Books Inc., New York.
1981 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
Titolo dell’opera orginale Still Life with Woodpecker
Traduzione di Francesco Franconeri
Introduzione di Vincenzo Mantovani
Nota.
L’elenco delle Dodici Più Famose Teste Rosse è stato pubblicato in “The
People’s Almanac Presents the Books of Lists” di David Wallechinsky e Irving
Wallace. L’ho modificato.
INTRODUZIONE.
A parte la T.V., i media che con le loro recensioni possono imporre un libro
all’attenzione dei lettori americani sono quattro: due settimanali molto diffusi
anche in Europa, “Time” e “Newsweek”; un quotidiano, il “New York Times“,
che si potrebbe definire – ”absit iniuria verbis“ – il “Corriere della Sera” degli
Stati Uniti; e la “New York Times Book Review”, un supplemento letterario che
sta col “New York Times” nello stesso rapporto in cui il nostro “Tuttolibri” sta
con “La Stampa” di Torino.
Fino al 1976 nessuno di questi Quattro Grandi aveva mai parlato di Tom
Robbins, che perciò era un perfetto sconosciuto, a quello che comunemente si
chiama il “grande pubblico”, pur avendo quarant’anni e tre libri all’attivo. Nel
1976, forse sconcertata dal successo che stava ottenendo il secondo romanzo di
Tom Robbins, uscito quasi contemporaneamente quell’anno in tre edizioni
(rilegata, in brossura e tascabile), la “New York Times Book Review” ruppe la
congiura del silenzio dedicando una colonna e mezzo del suo collaboratore
Thomas LeClair a “Even Cowgirls Get the Blues”. L’articolo di LeClair fu
pubblicato il 23 maggio. Pur con qualche riserva sullo stile (“alcune delle
metafore di Robbins sono solo dei Kleenex ricamati”), il collaboratore del
supplemento letterario esprimeva sul romanzo un giudizio sostanzialmente
positivo, definendo l’autore un maestro del racconto fantastico e paragonandolo
ai suoi più illustri predecessori Vonnegut, Brautigan, Pynchon e Ishmael Reed.
Quando LeClair scrisse il suo pezzo, in America stavano già circolando circa
700000 copie di “Even Cowgirls Get the Blues”: quelle (poche) dell’edizione
“hard-cover” della Houghton Mifflin, le 170000 del paperback a 4 dollari e 95
cent la copia, e le 500000 della prima edizione tascabile della Bantam, uscita il
primo aprile. Nel suo articolo sulla “New York Review of Books” LeClair aveva
ricordato che il primo romanzo di Robbins, “Another Roadside Attraction”, era
da tempo “un po’ un classico hippie”. Tra il 1976 e il 1977 ”Even Cowgirls Get
the Blues“ superò il milione di copie vendute. Lo scrittore “cult”, venerato fino a
quel momento solo da qualche decina di migliaia di ex-figli dei fiori che
ritrovavano in lui le tematiche della cultura alternativa degli anni sessanta, era
diventato un autore di successo.
La sua ascesa è stata lenta. Fino alla fine degli anni sessanta Tom Robbins
non aveva mai pensato seriamente di darsi alla letteratura.
Aveva scritto, sì, un libro, pubblicato nel 1965: ma era una biografia, non un
romanzo. Un altro aveva solo pensato di scriverlo, quando da Seattle si era
trasferito nell’East Village di New York: questo avrebbe dovuto essere un libro
sul pittore Jackson Pollock, che però, per un motivo o per l’altro, non vide mai la
luce. Era evidente che Tom Robbins stava ancora cercando la sua strada.
Da quando nasce, nel 1936, in un paesino della North Carolina, a quando
decide, tra il 1968 e il 1969, di scrivere un romanzo su un tema alquanto
irriverente – il trafugamento del corpo mummificato di Cristo dalle catacombe
romane e il suo impiego come attrazione per “spingere” le vendite di uno
spaccio di hot dogs – la vita di Tom Robbins non presenta gran che
d’interessante. Studi inferiori regolari in varie scuole del Sud agricolo;
l’influenza di una madre (Katherine Robinson) che, scrivendo opuscoli di
propaganda religiosa, “fece sì” ricorda suo figlio “che io m’innamorassi molto
presto delle parole”, la passione per la lettura, giudicata quasi un vizio
inconfessabile tra i nerboruti studenti del Deep South, e un certo gusto per le
birichinate; studi superiori irregolari e superficiali in varie università e istituti
artistici, teatrali e musicali fino al definitivo abbandono nel 1960; il servizio
militare in aeronautica; il giornalismo come il modo più comodo per guadagnarsi
la vita (“sempre meglio che lavorare” dicono sempre, scherzando, anche da noi, i
rappresentanti del Quarto Potere), ora al “Times-Dispatch” di Richmond, ora al
“Times” di Seattle, ora al “Post-Intelligencer” sempre di Seattle, in veste di
redattore e poi anche di critico d’arte: un mestiere “che intirizzisce l’anima”,
abbandonato senza rimpianti alla fine degli anni sessanta.
Fu allora – come ha scritto Mitchell S. Ross in un lungo articolo sul
“principe dei letterati del paperback”, pubblicato nel 1978 dal “New York
Times” – che Tom Robbins, deciso a scrivere il suo iconoclastico romanzo,
lesse, da buon giornalista che vuole documentarsi, diciassette libri su Gesù,
trasformandosi in un’“enciclopedia ambulante” sul cristianesimo delle origini.
All’inizio del 1970 “Another Roadside Attraction” era finito.
Il 17 aprile di quell’anno Luther Nichols della casa editrice Doubleday &
Company, che aveva letto il dattiloscritto del romanzo, scrisse da San Francisco
a Sam Vaughan, il capo della divisione libri: “A parer mio, è un’opera geniale…
Mi sbilancerò fino al punto di affermare che ha la possibilità di diventare, per i
giovani d’oggi, ciò che “Il giovane Holden” e “Comma 22” sono stati per i tempi
loro… Ecco uno di quei romanzieri dai quali ci si aspetta che diventeranno
grandi. Ha un suo mondo, e non teme di essere diverso, fantasioso o
provocatorio nell’esprimerlo”. Vaughan lesse a sua volta il romanzo e si dichiarò
d’accordo. Ciò che l’aveva colpito, in particolare, era la qualità della prosa di
Robbins, da lui definito “un Brautigan più comprensibile ma anche più
divertente”, “uno Shulman swiftiano della nostra epoca”, “un uomo spiritoso e di
talento”.
Pubblicato l’anno dopo con un prudente lancio pubblicitario (gli slogan
erano: “Un divertimento apocalittico” e “Una suspense metafisica”) e il sostegno
di scrittori così diversi tra loro come Lawrence Ferlinghetti e Graham Greene, il
libro fu accolto da entusiastiche recensioni su “Playboy”, sul “Los Angeles
Times” (che salutò l’avvento di un secondo Mark Twain) e sulla stampa della
controcultura (la rivista “Rolling Stone” paragonò Robbins a Nabokov, Borges,
Brautigan, Fielding e Joyce). Ma i Quattro Grandi tacquero e gli “habitués” delle
librerie si guardarono bene dal comprarlo. Il romanzo andò, commercialmente,
peggio della maggior parte delle opere prime che si pubblicano in America. In
quattro anni, su una tiratura di 4000 copie, se ne vendettero 2200. Bisognò
arrivare al 1975 perché l’edizione rilegata di “Another Road Attraction” – che
oggi è un prezioso pezzo di “modernariato” – andasse totalmente esaurita.
La casa editrice Ballantine acquistò per 3500 dollari dalla Doubleday i diritti
per l’edizione economica, e solo allora si cominciò a capire che Luther Nichols
aveva visto giusto. Dall’agosto 1972, quando il tascabile fu distribuito, i
“giovani” (specie quelli della Costa Occidentale) cominciarono a comprarlo
lentamente ma con regolarità.
Grazie a una propaganda quasi esclusivamente orale, da studente a studente,
in due anni furono smerciate 42000 delle 100000 copie stampate dalla Ballantine
e messe in vendita a un dollaro e 95 l’una.
Con un contratto che gli garantiva il sei per cento sulle prime 150000 copie
vendute e l’otto su quelle successive (che però erano ancora di là da venire), non
si può dire che Robbins nuotasse nell’oro nel minuscolo villaggio di La Conner,
140 chilometri a nord di Seattle, nello stato di Washington, dove si era stabilito
con la moglie e un bambino piccolo.
Nei quattro anni successivi alla pubblicazione di “Another Roadside
Attraction“ aveva lavorato a un secondo romanzo, al quale diede il titolo di
“Even Cowgirls Get the Blues”. Il relativo insuccesso del primo, che
indubbiamente stentava a decollare, aveva guastato i suoi rapporti con la
Doubleday e la Ballantine, tanto che, quando la prima gli offrì un anticipo di soli
5000 dollari per il secondo romanzo, l’autore si seccò e chiese a Vaughan
(agosto 1974) l’annullamento del contratto che lo legava alla sua casa editrice in
cambio della restituzione dell’anticipo. Le sue preoccupazioni per il futuro erano
diventate così assillanti da fargli venire l’ulcera e una prostatite di probabile
origine, ambedue, psicosomatica.
Vaughan, il quale sapeva benissimo che è impossibile trattenere un autore
quando ha deciso di andarsene, accettò la proposta di Robbins.
Libero da impegni, questi si mise nelle mani di un’abile agente letteraria di
Hollywood, Phoebe Larmore, che portò le prime 90 pagine del nuovo romanzo a
Ted Solotaroff della Bantam Books. “Non sapevo chi fosse Tom Robbins”
avrebbe poi ricordato Solotaroff “ma lessi il manoscritto in una sera e dissi: sì,
accidenti, e feci la mia offerta”. L’offerta consisteva in un anticipo di 50000
dollari per l’opera finita i cui diritti per l’edizione rilegata e in brossura venivano
ceduti dalla Bantam, che fino ad allora aveva pubblicato solo tascabili alla
Houghton Mifflin. Il contratto fu firmato nel settembre 1974, meno di un mese
dopo lo scioglimento del rapporto con la Doubleday. Un anno più tardi il libro
era finito. Pubblicato nel 1976, nel 1980 aveva venduto 1300000 copie,
rendendo il suo autore miliardario.
Lo stesso anno, con una delle più ambiziose campagne pubblicitarie nella
storia della casa editrice e l’uscita contemporanea nell’edizione rilegata, in
brossura e tascabile, la Bantam pubblicava il terzo romanzo di Robbins, “Still
Life with Woodpecker“, la ”Natura morta con Picchio“ che presentiamo qui. Si
trattava di un “nuovo modo di pubblicare”, chiesto da una specie di “comitato
pro-Picchio” formatosi in seno alla stessa casa editrice e accettato dal suo
presidente, che fece notizia, perché era la prima volta che la Bantam stampava
(in 10500 copie) un libro “hard-cover” e sempre la prima volta che decideva di
pubblicare simultaneamente tutte e tre le edizioni. Una scommessa. Ma una
scommessa vinta, perché nell’ottobre 1980 le copie vendute di “Natura morta
con Picchio” erano già più di 400000 e andavano a sommarsi alle 1300000 copie
di “Cowgirls” e alle 600000 di “Roadside”.
Così raccontata, la “success story” di Tom Robbins somiglia a una favola.
Una favola piuttosto comune nel mondo, tutt’altro che tramontato,
dell’“American Dream”. Una favola che potrebbe essere l’argomento di uno dei
suoi libri se Robbins, pur nel suo generale ottimismo di favolista di professione,
non preferisse temi più irridenti e scabrosi. L’abbiamo visto. L’uso a scopo
pubblicitario del corpo di Cristo in “Roadside”. I pollici supersviluppati di Sissy
Hankshaw, la sfrecciante autostoppista di “Cowgirls”, e la rivolta dai toni
femministi delle sue amiche del Rubber Rose Ranch. La gara tra profumieri di
“Jitterbug Perfume”, l’ultimo romanzo di Tom Robbins, per creare un’essenza
sopraffina che sia anche una specie di elisir dell’immortalità.
In “Natura morta con Picchio” Robbins gioca a carte scoperte e spiega fin
dalla prima pagina quali sono le sue intenzioni: “Cristalli.
Voglio mandare ai miei lettori bracciate di cristalli, alcuni color delle
orchidee e delle peonie, altri che captano i segnali radio d’una città segreta metà
Parigi metà Coney Island”. E se il programma non fosse già abbastanza chiaro si
legga un po’ più avanti, là dove egli dice che c’è un’analogia “tra l’arte del
giocoliere e lo scrivere a macchina”. Scrivere, a macchina o a mano che sia, è un
trucco come quello dei prestigiatori. Serve a creare dal nulla quei cristalli
colorati che sono le parole, con i quali è possibile far tutto, rispondere a tutte le
domande, risolvere tutti i problemi, ma specialmente sognare.
Ha dunque ragione da vendere, Mitchell S. Ross, quando osserva che nei
romanzi di Tom Robbins l’intreccio conta meno dei personaggi e questi contano
meno dello stile. In “Natura morta con Picchio” l’intreccio è abbastanza
sorprendente da vietarci di descriverlo e i personaggi abbastanza stravaganti da
impedirci di togliere al lettore il piacere di scoprire lui stesso, a poco a poco, le
loro irresistibili idiosincrasie. Ma anche qui, come in tutti gli altri libri, intreccio
e personaggi non sono che pretesti per narrare una favola moderna in cui, sotto
uno stile ora prezioso, ora didascalico, ora barocco, ora di straordinario vigore
immaginativo, si dibattono i grandi problemi dell’umanità.
“Ha uno scopo di luna?” si chiede all’inizio del romanzo Leigh-Cheri, la
principessa in esilio protagonista di “Natura morta”. Ecco una prima angosciosa
questione che l’autore s’impegna a risolvere. Ma c’è un problema ancora più
grosso che assilla la società del nostro tempo, quest’ultimo quarto del secolo
ventesimo “in cui le donne avevano apertamente osteggiato i maschi, in in cui gli
uomini si erano sentiti traditi dalle donne, in cui i rapporti romantici avevano
assunto il carattere raro del ghiaccio a primavera, relegando non pochi pargoli su
frastagliate e inospitali banchise galleggianti”. E il problema è: come far sì che
l’amore non muoia?
Ci vorrà l’intero libro perché Robbins possa rispondere a questa domanda, e
forse non tutti troveranno la sua risposta soddisfacente.
Ma intanto avranno letto un romanzo molto divertente e imparato una
quantità di cose sull’arte, sulla religione, sulla politica, sul progresso della
civiltà, sul controllo delle nascite, sulla lunazione, sulla piramidologia, sulla
complementarità tra sbirri e criminali, sullo champagne, sugli extraterrestri, sul
socialismo e sul capitalismo, sul sesso e sulla cucina, sulle sigarette Camel, sulla
storia del biglietto di banca da un dollaro, sull’eguaglianza, sulla filosofia del
fuorilegge e sull’eterna lotta tra Barbe Rosse e Barbe Gialle.
Su quest’ultimo punto vorremmo soffermarci. Tutti i protagonisti dei
romanzi di Tom Robbins hanno i capelli rossi. Rossa è Amanda, che in
“Roadside” adorna di simboli blasfemi il suo carretto di hot dogs.
Rossa è Sissy Hankshaw, la ragazza con i pollici sformati dall’autostop.
Rossi sono, in questo libro, Leigh-Cheri e il suo principe azzurro Bernard
Mickey Wrangle, detto Picchio, dinamitardo anarchicheggiante (“a sollecitarlo
era un generale disprezzo per i governi”) di possibile origine extraterrestre (è
infatti un trovatello) ricercato da tutte le polizie. Uniti dal colore dell’emergenza
e delle rose, del sangue e della gelatina di frutta, del cocuzzolo del prelato e del
sedere del babbuino, della furia del toro e dei cuori di San Valentino, primo dello
spettro e ultimo negli occhi dei morenti, tutti questi personaggi appartengono a
una razza di “semidivini peldicarota”, noti ovunque come Barbe Rosse, da
sempre in contrasto con le Barbe Gialle, i biondi dominatori del pianeta (o per lo
meno degli Stati Uniti).
Lunatici i primi, solari i secondi. Soggetti, questi ultimi, a pazzie inessenziali
(“friabili amalgami d’ambizione, aggressività e ansia preadolescenziali:
spazzatura che avrebbe dovuto essere scaricata da tempo”), vittime gli altri di
pazzie essenziali (“quegli impulsi che istintivamente giudichiamo virtuosi e
giusti anche quando ai nostri pari càpita di considerarli svitati”) che sono il vero
argomento della poesia.
Ultimo delle Barbe Rosse, il Picchio è forse l’unico, nella solare ma
conformistica società in cui vive, a esercitare la libertà di scelta e a scrivere, con
la dinamite, le sue tonanti poesie. Oltre che poeta, il Picchio è ovviamente anche
un fuorilegge, perché poeti e fuorilegge sono le due facce della stessa medaglia:
“I poeti ci ricordano i sogni, i fuorilegge li mettono in pratica”. Ma cosa, se non
l’amore, è il vero fuorilegge in quest’ultimo quarto di secolo così “nero per gli
amanti”? Di qui l’obbligo, la necessità, il dovere d’impedire ch’esso muoia,
spalleggiandolo, favoreggiandolo, rendendosi suoi complici. E siccome, tra due
esseri umani, l’amore se ne va quando se ne va il mistero, viene il sospetto che il
primo non sia tanto importante, per noi, quanto il secondo. Il che significa, con
le parole di Tom Robbins, che “il rapporto amoroso è forse solo un accorgimento
per metterci in contatto col mistero”, e che noi “desideriamo che l’amore duri
per far durare l’estasi di essere vicini al mistero”.
VINCENZO MANTOVANI.
Description:"La vecchia era uscita in cerca d'un buon posto in cui svuotarsi la vescica. La tenera, tiepida notte di Lelani pareva particolarmente all'altezza. Il Pioneer Inn, sfortunatamente, era stato collocato nel centro di Lahaina e non aveva giardino. Disponeva però di un cortile che alle 23 di quella dom