Table Of ContentRenzo De Felice.
Mussolini il duce.
Giulio Einaudi editore.
Trascrizione elettronica per i non vedenti curata da:
Ezio Galiano.
INDICE.
1. Mussolini di fronte alla realtà del regime fascista
e alle sue prospettive alla svolta del decennale.
2. Gli anni del consenso: il paese.
3. Gli anni del consenso: il regime.
4. Alla ricerca di una politica estera fascista.
5. Mussolini e l'Europa.
6. La guerra d'Etiopia.
7. Il fondatore dell'impero
Appendice.
1. Telegrammi di Mussolini alla figlia Edda in Cina (1930, 31).
2. Lo scioglimento della Concentrazione antifascista di Parigi in una relazione
di G. E. Modigliani (giugno 1934).
3. B. Mussolini: «Aforismi» (1931).
4. Statuto del P.N.F. (testo del 1938 con le successive modifiche sino al 1943).
5. Relazione sulla politica estera italiana inviata a Roma da L. Vitetti
(luglio 1932).
6. Il Patto a Quattro: testo mussoliniano e testo definitivo
(marzo, giugno 1933).
7. Interviste-visite a Mussolini (1931, 34).
8. I movimenti fascisti nel mondo (1934).
9. Il piano Laval-Hoare nelle osservazioni di F. Suvich (dicembre 1935).
10. L'opinione pubblica inglese e l'Italia in due rapporti (dicembre 1935,
gennaio 1936).
11. Le piú alte cariche dello Stato e del P.N.F. dal 1930 al 1936.
Nota dell'autore.
Nel licenziare questa prima parte del terzo volume ci pare necessaria, al solito
una breve avvertenza. Con il periodo che qui è trattato la biografia di Mussolin
è inscindibilmente collegata non solo alle vicende politiche, economiche e socia
italiane, ma anche a quelle internazionali. In un certo senso si può anzi dire c
queste si collocano sempre di piú al suo centro, condizionando in misura crescen
tutte le altre. Da qui la necessità - pur rimanendo la nostra opera sempre stret
mente aderente al taglio biografico che, non lo si deve mai dimenticare, le è pe
liarc - di allargare sempre piú il «ventaglio» della trattazione con squarci su
blemi e vicende che a prima vista possono dare l'impressione di esulare in qualc
misura dalla biografia di Mussolini, ma che sono invece indispensabili non solo
dare il necessario sfondo all'azione politica mussoliniana, ma per valutare quan
di tale azione rispondesse ad una precisa scelta dello stesso Mussolini e quanto
fosse determínato da una diversa logica, insita nella realtà internazionale del
e come tale condizionata da tutta una serie di fattori tra i quali quello mussol
fascista, italiano non era oggettivamente il piú rilevante. Ciò spiega la larga
che in questo volume ha la politica estera e spiega il particolare modo con cui
sta c trattata. In particolare perché: a) allo scopo di rendere la sua trattazio
fusa e chiara, la politica estera degli anni precedenti il 1929 sia stata inseri
questo volume; b) la sua trattazione, se nelle grandi linee segue il criterio cr
logico, sui singoli aspetti piú importanti è affrontata per «blocchi» di problem
che tendono a vedere unitariamente i rapporti con alcuni paesi, prendendo l'avvi
dal momento in cui tali rapporti assumono una maggiore rilevanza (e ciò spiega
perché i rapporti con alcuni paesi in questa parte o sono appena accennati o non
sono ttattati per niente, dato che lo saranno nella seconda parte o addirittura
l'ultimo volume, allorquando assumeranno maggiore importanza o giungeranno «a
maturazione » ).
Una precisazione simile, del resto, vale anche per la politica interna. Anche a
proposito di essa si è cercato di seguire il piú possibile l'andamento cronologi
Come nel precedente volume, questo andamento si è però spesso accompagnato
ad una esposizione per problemi. E' per questo che il lettore non troverà (o tro
appena accennati) in questa prima parte del terzo volume alcuni problemi che
abbiamo ritenutO piú utile trattare unitariamente piú avanti. I casi piú rilevan
sono quelli che riguardano il rapporto Mussolini-intellettuali, il mito di Roma
della romanltà, la meccanica del fascismo in quanto regime di massa e le analogi
e differenze tra il fascismo e il nazionalsocialismo.
me nel passato, molti sono coloro che dovremmo ringraziare per i documenti
le testimonianze e i suggerimenti fornitici. Nella impossibilità di ringraziarli
vogliamo, al solito, ringraziare la giunta e il consiglio superiore degii Archiv
funzionari tutti dell'Archivio Centrale dello Stato. Un particolarissimo ringraz
mento dobbiamo soprattutto ai professori Ruggero Moscati e Giampiero Carocci,
della Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici, alla cui libe-
ralità e collaborazione dobbiamo la consultazione dei documenti dell'Archivio st
rico del Ministeto degli Affari Esteri: senza di essi questo lavoro sarebbe stat
praticamente impossibile. Molte altre persone che piú dovrernmo ringraziare sono
m questi anni scomparse: sentiamo per questo doppiamente Il dovere di ricordarle
insieme alle altre alle quali piú va il nostro ringraziamento: le signore Nelia
e Olga Turati, i signori Gherardo Casini, Riccardo Del Giudice, Alberto De Ste-
fani, Giuseppe Attilio Fanelli, Luigi Fontanelli, Giovanni Giuriati, Dino Grandi
Giorgio Pini, Gastone Silvano Spinetti, Duilio Susmel e Leonardo Vitetti. Né
possiamo dimenticare gli amici Elena Aga Rossi, Ennio Bozzetti, Luigi Goglia,
Francesco Margiotta-Broglia, Massimo Mazzetti, Mario Missori e Pietro Pastorelli
Come i precedenti, anche questo volume è dedicato alla memoria di Delio Can-
timori.
RENZO DE FELICE.
Mussolini il duce.
Gli anni del consenso. 1929, 1936.
Capitolo primo.
Mussolini di fronte alla realtà del regime fascista
e alle sue prospettive alla svolta del decennale.
Verso la metà del 1929 il regime fascista era ormai per l'Italia una
realtà con caratteri e contorni ben precisi e, per piú di un aspetto, defi-
nitivi. La Conciliazione e il «plebiscito» avevano infatti concluso a tutti
gli effetti la prima fase del fascismo al governo e avevano sancito, ap-
punto, il completamento del processo di strutturazione del regime vero
e proprio. In poco meno di sette anni di governo fascista l'assetto poli-
tico del pacse era profondamente mutato e, comunque si giudicasse que-
sto mutamento, nulla seriamente autorizzava a pensare che il regime
potesse cadere a breve scadenza. Nonostante le latenti contraddizioni
che caratterizzavano l'equilibrio tra le sue componenti, esso infatti go-
deva di una indiscutibile solidità, basata in primo luogo su un consenso
di massa ' vasto e che non si sarebbe a lungo incrinato e sul quale, per
ogni evenienza, vigilavano costantemente sia il PNF sia la polizia. Un
consenso, oltre tutto, che - per quanto paradossale possa sembrare - di-
ventava sempre piú effettivo e vasto via via che, invece di politicizzarsi,
si depoliticizzava e affondava le sue radici sempre meno nell'adesione al
PNF (che ogni giorno perdeva prestigio e suscitava maggiori insofferen-
ze) e sempre piú nel mito di Mussolini e dell'Italia finalmente «in cam-
mino ». Né la situazione internazionale e, a quest'epoca, la politica estera
fascista potevano far pensare alla possibilità che il regime cadesse per cau-
se esterne Al contrario, proprio in questo periodo l'Italia fascista comin-
ciava a vedere aumentare all'estero le simpatie verso di sé e ad essere
considerata un elemento non trascurabile del giuoco internazionale.
Il fatto che nulla autorizzasse a pensare che il regime potesse cadere
a breve scadenza e la necessità, quindi, di prospettarsi un lungo periodo
di governo fascista, suscitavano e avrebbero suscitato per alcuni anni
(grosSo modo sino verso tutto il 1932, ché dopo l'attenzione degli ita-
avrebbe cominciato ad essere via via attratta sempre di piú dagli
mi internaziOnaIn doppio tipo di reazioni.
Da un lato vi erano coloro per i quali la costruzione fascista era or-
mai sostanzialmente completa e si trattava, quindi, soprattutto, di am-
ministrare lo status quo. Riferendosi a costoro, cosí verso la metà del '30
si esprimeva B. Spampanato su «Critica fascista» ':
Esistono in Italia, e anche nello stesso Partito, dei malinconici individui che
immaginano la Rivoluzione fascista già passata nel numero dei sacri ricordi patr
Per costoro il Regime è già compiuto nella sua costruzione e nei suoi dettagli,
già perfetto nelle sue strutture e nella fisionomia, è già maturo nello spirlto
coscienza. Costoro hanno un concetto diremo burocratico della Rivoluzione, ed
esultano se possono, magari come fascisti, riprendere il vecchio aspetto conser-
vatore. Sono questi signori i piú ciechi apologisti di una pesante obbedienza, c
non ha niente a che fare con l'intelligente consapevole disciplina, e di alcune
formazioni inutili e dannose dello stesso concetto gerarchico. Vivono di ricordi
che forse non appartengono nemmeno a loro. Campano sulla facile rendita del pas-
sato, del quale spesso furono solo spettatori. E se accettano il fatto politico
Fascismo, lo accettano perché avrebbero paura di una opposizione sia pure men-
tale, come per indolenza rifuggono dall'impostare qualsiasi problema polemico di
introspezione e, peggio, di critica.
Ogni tanto questa brava gente squisitamente costituzionale e tendenzialmente
antifascista viene presa per la gola dal Fascismo. Arrivano sulla morta tranquil
di questi borghesi certe affermazioni del Capo, che li fanno sussultare, sí che
guardano sbigottiti e sembrano domandarsi se quello sia il Fascismo o se per cas
non si tratti di nuovi incubi per la loro pace.
Questo tipo di italiano e di fascista era diffuso ed era quello che dava
al paese e al fascismo alcuni dei caratteri distintivi deteriori già a que-
st'epoca tipici2: la mancanza di idee personali e di sensibilità critica, il
gerarchismo burocratico e conservatore, la mentalità gretta e servile del
«primo della classe», l'esaltazione dei meriti del fascismo in funzione,
a ben vedere, della preservazione della propria posizione personale rag-
giunta grazie ad esso, il ricorso alle piú goffe e vuote espressioni decla-
matorie, la sistematica esaltazione di qualsiasi atto del regime e soprat-
tutto della personalità di Mussolini, ecc. A fianco di coloro che soste-
nevano lo status quo per insensibilità, pigrizia e interesse personale e
temevano quindi ogni nuovo mutamento perché esso avrebbe inevita-
bilmente creato loro diílicoltà e messo in pericolo le posizioni personali
da essi raggiunte, vi erano però anche coloro che nello status quo vede-
vano sinceramente ed onestamente una garanzla di stabilita per il pae-
se la premessa indispensabile per scongiurare nuovi turbamenti e per
una ripresa dell'economia italiana. Su questa posizione, in particolare,
era gsan parte del mondo economico, preoccupato, prima, di riguada-
gnare il terreno perduto con le difficoltà provocate dalla «quota novan-
ta» e, successlvamente, di fronteggiare le ben piú gravi ripercussioni
della «grande crisi». E, in sostanza, lo stesso si può dire per larga parte
del mondo operaio, anch esso interessato soprattutto a cercare di recu-
perare le quote salariali perdute negli anni precedenti o, almeno, a non
subire nuove decurtazioni, a salvare le proprie possibilità di lavoro e a
non correre íl rischio di fare le spese di esperimenti in cui la gran mag-
gioranza degli operai non aveva fiducia e che quindi temeva.
Da un altro lato vi erano, invece, coloro i quali erano convinti che,
conclusasi con la Conciliazione e il «plebiscito» una ben precisa fase
del fascismo al governo, la nuova fase che si era iniziata avrebbe do-
vuto essere caratterizzata da qualche importante novità. Piú che co-
struire, sino allora il fascismo aveva demolito: aveva distrutto il vec-
chio StatG liberal-democratico e aveva cercato di spiantarne le radici
nel paese; per fare ciò aveva dato vita ad un regime d'eccezione, in for-
za del quale se molto del vecchio era scomparso, poco di nuovo era però
nato. Una vera rivoluzione - e il fascismo sin dal suo sorgere aveva te-
nuto a presentarsi come tale -, una volta riportata la vittoria sui propri
avvf.rsari, non poteva continuare indefinitamente ad agire con mezzi
eccezione e a posporre il momento sociale a quello politico se voleva
avere veramente credibilità e accrescere e rendere attivo ed operante il
consenso attorno a sé, sul terreno politico doveva trovare una sua nor-
ma Ita e una sua legalità non coatte e sul terreno sociale doveva realiz-
zare un nuovo assetto giuridico-sociale il piú possibile conforme al suo
programma e alle aspirazioni del paese, soprattutto di quella parte di
esso c e era stata, con diverse e spesso contrastanti motivazioni, ostile
a vecchio assetto perché rimproverava ad esso tutta una serie di limiti
e dIi a Itll, caratteri assai diversl A nuvtariralaseercaonnodapedreòginug
hl e - un po per la naturale esuberanza della loro età, un po'
vano mcoraggiati dal gran parlare che si faceva nella stam-
O I un «problema dei giovani» e della necessità di valo-
1 - ergie, un po' per opportunismo e per desiderio di sfruttare
per arsi avantl, mettersi in mostra e sistemarsi e un po' per
sincera convinzione della necessità di portare nel fascismo idee nuove,
meno direttamente condizionate dal clima morale e politico in cui si
era formata la prima generazione fascista («I giovani - osservava giu-
stamente a questo proposito Bottai su " Critica fascista " ' - vengono nel
Partito, non solo per pesare, ma con la volontà di ripensare tutto dac-
capo») - non perdevano occasione di proclamare la necessità per il re-
gime di procedere sulla strada appena aperta di nuove e profonde tra-
sformazioni della società italiana.
Vi era chi si limitava ad auspicare un attenuamento del carattere
d'eccezione che il regime aveva assunto, una progressiva distensione e
liberalizzazione. Tipica in questo senso era la posizione dell'ex leader
nazionalista Enrico Corradini, come ci è testimoniata da alcune sue an-
notazioni ritrovate dopo la sua morte da Federzoni e da questo pubbli-
cate alcuni anni orsono. Per Corradini ciò che occorreva era «meno
Fascismo e piú Italia, meno Partito e piú Nazione, meno rivoluzione e
piú Costituzione». L'Italia era passata dal «vecchio regime» democra-
tico-parlamentare ad un regime di dittatura personale. Ciò che ora oc-
correva era realizzare un regime veramente «nazionale e costituziona-
le»: la dittatura, infatti, per sua natura non poteva che essere transi-
toria e alla lunga avrebbe riprodotto i guasti del vecchio regime che si
era voluto eliminare:
La dittatura in un complesso stato moderno si carica di un cumulo di faccende
superiore ad ogni capacità umana. Ne consegue che numerose e larghe zone della
vita nazionale restano fuori della vigilanza e alla mercè della corruzione.
Le conseguenze di tutto ciò, le conseguenze di un governo assoluto personale
sono molte e gravi. Prima- uno straordinario sviluppo di uno spirito adulatorio
cortigiano. Seconda: il governo assoluto, allontanando la Nazione, cioè i suoi e
menti costitutivi che sono i cittadini e le classi, dall'esercizio delle vere e
attività politiche responsabili, che non possono essere tali se non sono congiun
al diritto di discussione e di iniziativa in cui consiste il vero governo di coo
mento e di collaborazione delle attività nazionali; il governo assoluto, dicevam
ha per ultimo effetto una generale abulia e paralisi. Ha per effetto il disinter
dei cittadini dalla cosa pubblica e finisce col generare l'atomismo individualis
come press'a poco faceva il vecchio regime. Terza: il governo assoluto porta a u
vera e propria smobilitazione nazionale. E ciò è oltremodo antistorico dopo Vit-
torio Veneto...
Tra il vecchio regime e il regime personale c'è quello nazionale e costituzional
che è il solo buono. Nella civiltà politica moderna una nazione non comporta alt
regime.
Nel nuovo regime nazionale, cioè di coordinamento e di collaborazione di tutte
le attività nazionali produttive, debbono essere intatte le libertà che sono la
logia dello stesso organismo sociale della Nazione, quelle cioè che sono necessa
per la circolazione e l'iniziativa delle attività, per la formazione e il ricamb
Capacità responsabili, In una parola per la creazione e la funzione di una class
rigente . .
Il regime personale non produce classe dirigente.
Da queste annotazioni di Corradini traspare chiaramente la posizio-
ne che la maggioranza degli ex nazionalisti ortodossi (quelli che non si
erano cioè integrati nel fascismo) aveva ormai assunto o andava assu-
mendo nei confronti del regime e, in particolare, la loro aspirazione di
classici conservatori a ridurre il fascismo ad un mero strumento per
realizzare un ammodernato «ritorno allo Statuto», che - oltre tutto -
avrebbe ridato loro (e alla monarchia) quel ruolo decisivo che invece si
era assunto Mussolini.
Su posizioni parzialmente simili erano anche numerosi fascisti mo-
derati, soprattutto di origine liberale e costituzionale e larghi settori di
fiancheggiatori che non avevano fatto in tempo o non avevano voluto
entrare nel fascismo. Tra essi non pochi erano coloro che avrebbero
visto di buon grado lo scioglimento del PNF, ovvero una politica di
s"riconciliazione nazionale» con l'emigrazione e l'opposizione non co-
muniste e persino una cauta liberalizzazione che per alcuni sarebbe po-
tuta gi-ungere sino ad autorizzare la costituzione di qualche partito «lea-
lista». Del resto, singole misure liberalizzatrici non erano mal viste
neppure da molti fascisti veri e propri. significativo, per fare un solo
esempiO, che anche tra questi ultimi non mancassero quelli che avreb-
bero voluto sopprimere o non prorogare alla scadenza del quinquennio
per il quale era stato inizialmente istituito (nel 1931 cioè) il Tribunale
speciale, sia perché lo consideravano inutile e controproducente, sia per-
ché lo ritenevanO una ingiustificata manifestazione di sfiducia nella ma-
gistratura ordinaria2. Né bisogna dimenticare che in non pochi fascisti
della vecchia guardia, che avevano visto deluse le loro speranze in un
fasclsmo che mutasse radicalmente il volto dell'Italia e, in virtú del suo
carattere rivoluzionario, penetrasse a fondo nelle coscienze degli ita-
llaní, cominciava a farsi strada la preoccupazione per la sorte a cui il
re c sarebbe andato incontro nel caso di una improvvisa scomparsa
di Mussolini lo, anche non realizzandosi questa eventualità, quando ci
si sarebbe trovati di fronte al dopo-Mussolini. Il fascismo, il regime
- essi dicevano - fallito l'obiettivo di conquistare veramente le masse,
vivevano e prosperavano in funzione e grazie al prestigio del «duce»;
era però da escludere che potessero sopravvivere a Mussolini. In previ-
sione della scomparsa del «duce», era dunque necessario precostituire
le basi di un «ritorno alla normalità monarchica», poiché solo esso avreb-
be potuto salvare ciò che di buono vi era nel fascismo e, al tempo stesso,
impedire un riaccendersi di cruente lotte politiche. Assai significativo
è in questo senso un ampio rapporto della fine del 193 I che si riferisce,
appunto, ad uno di questi gruppi di vecchi fascisti delusi e preoccupati
per il futuro e, in particolare, alle reazioni di alcuni suoi componenti
(Marinetti, Carli e Settimelli) alla improvvisa morte, pochi giorni pri-
m.a, di Arnaldo Mussolinil:
Se il 21 dícembre un lutto tragico avesse straziata la Nazione, e per essere piú
chiari se il 21 dicembre il Duce fosse morto impróvvisamente, cosa sarebbe av-
venuto
La mentalità di coloro che ambiscono a succedere al Duce sarebbe quella di
poter continuare con una dittatura, afferrandosi alla strapotenza della Polizia
fierire ancora contro uomini, masse e popolo!
Ciò non può essere!
La Nazione non sopporterebbe né una dittatura di S. E. Ciano, né una ditta
tura Farinacci!
L'attuale dittatura ha stancato: gli stessi dirigenti hanno compreso che tutti
gli obiettivi rivoluzionari del Fascismo sono falliti e quindi si fa una politic
giornata.
Occorre, quindi, aver il coraggio di salvare quello che vi è di buono e di giu-
sto nel Fascismo e convogliarlo verso una normalità monarchica restituendo alle
minoranze i propri diritti oggi e ieri soppressi per alte ragioni di Stato.
Insomma bisogna preparare oggi il terreno, il lievito politico per il domani,
che non potrà mai sfociare in una seconda dittatura, se non si vuol ritornare a
cruente fra regioni ed uomini.
Il Duce, ammaestrato da tristi esempi, oggi non concede soverchia fiducia e
teme sempre di essere tradito: quindi secondo il suo intimo e recondito pensiero
egli - lo si potrebbe tacciare di necessario egoismo politico! - vorrebbe che la
zione attuale continuasse fino alla sua morte.
Dopo? Dopo morto nulla gli può interessare, se non quello - diceva Settimelli -
di lasciare ai posteri un meraviglioso testamento politico che sarà ricordato pe
piú di 48 ore.
Invece noi ci preoccupiamo non solo dell'oggi, ma soprattutto del domani e
cioè del post-Fascismo.
L'entourage del Duce non è certo del nostro avviso; soprattutto perché ha giuo-
cato tutto per tutto sulla pelle del Duce, facendogli mantenere una politica di
gore talvolta non necessaria o esagerata.
Noi invece vogliamo che il Duce passi alla storia non come «Uomo della rea-
zione»; ma come «VOMO DEL POPOLO».
Egli deve convincersi che [col] perdurare nell'attuale politica negativa si va i
contro a giorni funesti; egli invece deve poter discendere fra il popolo senza i
sgherri di cui oggl ha bisogno ineluttabilmente.
Quindi per questo nostro programma, ultra-fascista e post-fascista occorre pre-
parare lentissimamente il terreno per il domani, senza scosse e senza rinunzie,
serenamente e con la certezza che il domani sarà nostro ancora. Ma con la norma-
lità politica, senza rigorismi e senza seminare ancora tempeste inutili e dannos
A queste attese ed aspirazioni moderate, sempre assai caute e mai
esplicítamente prospettate in pubblico, si contrapponevano quelle in-
transigenti e piú propriamente «rivoluzionarie» edei piú giovani. Da
piU parti S1 parlava di un « terzo tempo» della « rivoluzione fascista», da
realizzare sia sul terreno politico sia soprattutto su quello sociale. Non-
ostante da tempo il fascismo avesse accantonato i primitivi progetti di
soppressione o di trasformazione del Senato e nonostante la recente « ri-
forma» della rappresentanza politica (con la quale era stato tenuto il
«plebiscito»), vi era chi si rifiutava di considerare questo assetto come
definitivo e avrebbe voluto ulteriormente fascistizzare il Parlamento e
soprattutto trasformare o abolire il Senato, dove siedevano troppi « tie-
pidi o avversari del fascismo. E, allo stesso modo, numerosi erano co-
loro che erano convinti della necessità di epurare e fascistizzare a fondo
le forze armate, la magistratura, la scuola, l'università, la pubblica am-
ministrazioneNé, infine, mancava chi, sotto sotto, attendeva ancora il
momento in cui Mussolini si sarebbe, finalmente, liberato della mo-
narchia .
l'iú che sul terreno immediatamente politico, il «terzo tempo» era
pero Visto e auspicato su quello sociale. Qui il fulcro di ogni discorso
diventava l'attuazione del sistema corporativo, su cui circolavano ed
erano esposte pubblicamente le idee piú diverse e spesso radicalmente
cnntrastantiDi fronte al problema di quale contenuto si dovesse dare
al corporativismo e di quaii dovessero essere i suoi obiettivi economico-
sociali, ognuna delle varie «anime» del fascismo si sentiva infatti in-
dotta - piú che su ogni altra questione - a prendere posizione; tanto
piú che - essendo il corporativismo uno dei grandi temi all'ordine del
giorno del fascismo - intervenire su di esso era un diritto-dovere di ogni
buon fascista e quindi, almeno in un primo tempo (grosso modo fino
verso la metà del I 9 3 3 ), non vi erano dimcoltà ad esporre i propri punti
di vista pubblicamente e soprattutto in riviste specializzate e in perio-
dici locali e giovanili. Né va sottovalutato il fatto che il discorso sul
corporativismo, a quest'epoca, poteva facilmente offrire l'occasione per
fare tutta una serie di altri discorsi, che altrimenti non sarebbe stato
possibile svolgere: per esempio quelli sul sistema liberale e soprattutto
sul sistema sovietico, sulle sue realizzazioni e peculiarità. E infatti di
questi discorsi tra il '30 e il '32 ne furono fatti molti, tanto che già
verso la fine del '30 vi era chi mostrava di preoccuparsene (per esempio
U. D'Andrea che su «Politica» I scriveva stizzosamente: ff. venuto di
moda nella stampa italiana, e piú specialmente nei giornali che vogliono
rappresentare le tendenze piú giovanili, di domandare la obiettività nei
riguardi delle cose russe?"; e in parecchi casi questi discorsi rivelavano
la tendenza a giudicare il regime sovietico con l'occhio rivolto piú alle
sue realizzazioni concrete che all'ideologia bolscevica, a metterlo quasi
sullo stesso piano del fascismo corporativo, in quanto entrambi supe-
ramento del sistema liberaldemocratico (leggi capitalismo), e addirittura
a prospettare la possibilità di un futuro incontro con Mosca. Tra le varie
citazioni che si potrebbero fare in questo senso, ci limitiamo ad una sola,
tratta per altro non da uno dei tanti periodici giovanili, interessanti e
significativi ma privi di autorità, ma da «Critica fascista», dalla rivista,
in quel momento, del ministro delle CorporazioniZ:
lungi da me l'idea di una esaltazione comunista, ma lungi pure quella di una
aprioristica condanna di una teoria, solo perché essa si chiama comunista ed io
sento fascista... Russia e Italia sono unite nello sforzo creatore di un nuovo o
namento ed in questo sforzo sta per me la bellezza della loro opera. Oggi una cr
ciata di Roma contro Mosca si risolverebbe inevitabilmente in un'ondata di rea-
zione, e questo il fascismo, tipica evoluzione, non può volere; bisogna che prim
Roma possa irradiare la propria luce fra gli altri popoli, che fra essi penetri
le larve del passato, additando le vie di un futuro, che per noi è realtà in att
presente.
Ma frattanto il comunismo russo sarà forse passato dal suo integralismo teo-
rico, attraverso una graduale attenuazione dei suoi principi, ad una forma di fi
equilibrio non molto lontana dalla nostra ed allora l'antitesi Roma o Mosca avrà
perduto cammin facendo la sua ragion li essere. Perché frattanto le due vie si
saranno trovate unite, anche se partite da poli opposti, anche se l'una avrà fat
la sua deviazione verso destra in forza di eventi sovrastanti ad ogni umana volo
e l'aitra avrà poggiato a sinistra in virtú del suo fondamentale pensiero creato
Nel periodo che qui ci interessa il corporativismo era ancora ai primi
passi e, al di là delle affermazioni e degli slogan meramente politico-
propagandistici, nessuno - sia a livello politico, sia a livello teorico -
aveva veramente idea di ciò che sarebbe stato, di come avrebbe potuto
concretamente funzionare. Molte erano però le speranze, le preoccupa-
zion, i timori (per non dire delle ambizioni) che la prospettiva della sua
attuazione suscitava. Da qui, appunto, gli sforzi e le velleità di influen-
zarne in qualche modo la nascita e soprattutto di determinarne l'inci-
denza economico-sociale e, quindi, il significato politico. Sforzi e vel-
leità che si tradussero in una vastissima letteratura e pubblicistica cor-
porativa e in una serie di iniziative editoriali e di studio e di dibattiti
che Sl protrassero per alcuni anni e che giunsero al loro acme col con-
vegno di Ferrara del maggio '32, nel corso del quale tutte le principali
posizioni vennero chiaramente in luce, dimostrando, da un lato, la loro
sostanziale inconciliabilità, da un altro lato, l'altrettanto sostanziale vel-
leitarismo dei propositi di coloro che avevano sperato di potere influen-
zare le decisioni governative e, da un altro lato ancora, l'assurdità della
pretesa di fare del corporativismo un sistema economico vero e proprio
da contrapporre sia a quello capitalistico (liberale si preferiva dire) sia
a que]lo comunista. Ciò spiega in parte perché dopo il convegno di Fer-
rara e il vivace strascico polemico che esso ebbe nei mesi immediata-
mente successivi, le discussioni sul corporativismo diminuirono d'inten-
Slta e di interesse. Bisogna, per altro, tenere presente che dopo il con-
vegno di Ferrara un freno alle discussioni fu posto anche dalle auto-
rita; lasciare ancora che esse continuassero sarebbe stato infatti per il
regime ormai controproducente: l'effetto psicologico-propagandistico
essendo ormai stato raggiunto, lasciare continuare le discussioni avreb-
be finito solo per mettere vieppiú in luce l'inconciliabilità delle posi-
zlonl e l'incapacità del regime a imboccare una via ben precisa e a per-
correrla con eí~ettiva volontà politica. Non è certo un caso che quando,
ld 1 au~unnO del '33 e la primavera del '34, il corporativismo sarebbe
s atcfinalmente varato, di tutto il fermento di idee degli anni prece-
clebnti non si sarebbe quasi piú avuta eco e le scelte dell'esecutivo si sa-
e ero mosse su un terreno assai diverso.
I)tt uesto, non è certo possibile dilungarci qui ad esaminare in
nulla ideologia corporatjva fascista manca uno st~ldio d'insieme approfondito. P
ra cfr A GRA~D1LOALLAI~J3Rbl Le radici del corporativilmo, Roma 1971. Per un qua
, lograha s~rldacale corporattua (19~3-l- Jg40-XVIll), Roma 1942.
dettaglio quali furono tra il 1928-29 e il 1932-33 le varie posizioni
emerse a proposito del corporativismo. Ai fini del nostro discorso è suf-
ficiente riassumere l'effettivo significato che queste posizioni hanno oggi
per chi, attraverso esse, voglia cogliere gli orientamenti di fondo della
classe dirigente fascista in relazione ai problemi economici e politico-
sociali di base dell'Italia del tempo.
Una prima posizione, quantitativamente certo la piú ricca di soste-
nitori autorevoli e di prestigio (esponenti del mondo economico e indu-
striale, giuristi, economisti, grossi burocrati, ecc.), era quella che con-
cepiva restrittivamente il corporativismo come uno strumento sostan-
zialmente giuridico volto a rendere sempre piú effficace la risoluzione dei
rapporti di lavoro e ad assicurare una migliore distribuzione della pro-
duzione, che accettava un limitato intervento «razionalizzatore?" dello
Stato nella produzione, ma negava nel modo piú netto ogni controllo
statale dell'economia e ogni limitazione della iniziativa privata e, ovvia-
mente, della proprietà. Secondo l'on. Gino Olivetti, segretario generale
della Confindustria e, col prof. Gino Arias', forse il piú esplicito ed
intransigente sostenitore di questa posizione, il sistema corporativo do-
veva, anzi, potenziare e valorizzare l'una e l'altra Z.
A questa concezione restrittiva e conservatrice del corporativismo si
contrapponeva una vasta gamma di formulazioni che andavano dalla pro-
posta di singoli provvedimenti «corporativi» (tipico il caso del prof.
R. Benini che a Ferrara sostenne la necessità di una «finanza di carat-
tere eminentemente corporativo » e cioè una riforma tributaria altamente
progressiva3) sino alla elaborazione di veri e propri sistemi corporativi
«integrali» (tutti piú o meno inattuabili anche se avessero avuto un con-
creto sostegno politico4) che affondavano le loro radici in humus cultu-
rali diversi e che, a ben vedere, non riuscivano sostanzialmente ad uscire
mai da una logica di fondo di tipo o liberista o socialista. Tutte queste
formulazioni avevano però in comune l'intento di dare al corporativi-
smo una funzione dinamica e acceleratrice, di rinnovamento rispetto allo
sviluppo economico e sociale del paese. In questa prospettiva i loro
sostenitoripur non mettendo in discussione in modo radicale il prin-
cipio dell'iniziativa privata, affermavano la necessità di porre ad esso
dei limiti sociali; e, ancora, caldeggiavano forme di controllo e di inter-
vento dello Stato sempre piú attive, concrete e programmate sia sull'e-
conomia sia sulla produzione. Il campo dei sostenitori di questo tipo di
corporativismo era certamente il piú numeroso. Nelle sue file vi erano
molti giovani, spesso dalle idee confuse e velleitarie, ma anche vecchi
fascisti, intellettuali, tecnici e burocrati e persino uomini come Serpieri,
De Stefani, Amoroso, Benini che non erano certo dei «rivoluzionari»
ma che, ognuno nel proprio campo, pensavano che il corporativismo
potesse essere lo strumento per mettere l'economia italiana al passo con
le esigenze di una società ormai avviata sulla strada della modernizza-
~ione. Espressioni di questa tendenza erano poi, sia pure con caratte-
ristiche assai diverse, quattro riviste: «Critica fascista», che cercava di
contemperare le istanze corporativiste piú vive e rinnovatrici con le esi-
genze politiche personali del suo direttore, G. Bottai; «Lo Stato», fon-
data nel 1930 e diretta da E. Rosboch e C. Costamagna; «Il secolo fa-
scista», fondata nel 1931 e diretta da G. A.anelli; e «Nuovi problemi
di politica, storia ed economia», fondata alla fine del 1930 e diretta da
N. Quilici e G. Colamarino. A differen~a delle altre tre, questa rivista
(che si muoveva sostanzialmente nell'orbita di I. Balbo) era in un certo
senso la meno politica e la piú scientifica e il suo discorso corporativo
Sl muoveva lungo due direttrici principali, una piú teorico-economica
(soprattutto grazie ai contributi di N. M. Fovel ') e una piú storica (ad
opera soprattutto dei due suoi direttori). Sulle sue pagine apparve nel
32, quasi contemporaneamente al convegno di Ferrara, quello che a
nostro avviso fu il piú importante tentativo storico-politico fatto in
questi anni di collocare e di dare significato al corporativismo nel qua-
dro dello sviluppo della società italiana del tempo, un lucido saggio del
ColamarinO sulla Natura storica del corporativismo italiano, in cui era
messin luce l'unico si,t~nificatcche il corporativismo poteva avere ve-
ramentecriveva infatti il (`olamarino:
I teorici e i giuristi del corporativiSmolavoratori dell'astratto sostanzialment
poco curatl e stimati dalla società fascista, anche se non mancano loro uf'ricia
s atl, Sl af~atlcano tormentosamente a costruire la dottrina dello Stato corpora
piano dell assoluto e dell'eterno. Impresa particolarmente ardua e disperata...
ort t~o,elri~r 2 tt~raort/(r-
; `t ' Irot!?r,r? drt~ra/iZi~rtom¨.E(rt~Jmia di
ltlct(rlrtnn rile~i",nt 2
." t~tnn,llotr,O 1;32 p~pttol~t~o t(" in «l'utroblei politic,l,
Il motivo polemico piú insistente in questa letteratura che è per tre quarti pol
mica e negazione, è quello antiliberale..Che c'è di vero in questa proposta anti
tesi? Certo, dal punto di vista formale, lo Stato corporativo in cui il potere e
cutivo è sostanzialmente indipendente dal potere legislativo e a questo superior
lo Stato-partito che domina, coordina e guida tutte le forze del Paese, non ha n
te da vedere con lo Stato liberale nel senso giuridico tradizionale. Ma, a non v
tener conto dei giuristi della scuola idealistica, i quali, identificando lSloso
mente individuo e Stato, annullano alla radice questa antitesi giuridica e istit
zionale, ricomponendo una nuova sintesi liberale, la vera questione che suscita
posta antitesi di corporativismo-liberalismo è un'altra ed è precisamente storic
Per dare all'opposizione dei due termini suddettl un significato positivo, di
certezza e di norma anche giuridica, bisognerebbe dimostrare che il corporativis
fascista, che il nostro corporativismo, cosí come è sorto e si è sviluppato in c
creto nella società italiana - e non già il corporativismo teorico, astratto, as
si sia aperta la strada lottando contro il liberalismo e abbia trionfato su ques
Il fascismo sorge sulla crisi del giolittismo, trionfa della paralisi del giolit
ed assume in pieno i compiti del socialismo in un sistema politico imperniato so
pra una meccanica esteriore d'interessi; e cosí facendo, si assume la funzione d
comporre e armonizzare le forze che giacevano stanche o vagavano nel disordine
molecolare. Non trionfa sul liberalismo, di cui il giolittismo era la piú radica
gazione, e che non ha mai imperato nel costume e nella coscienza degl'italiani..
I fascisti non ebbero da fare i conti che coi socialisti...
E la conclusione è che l'antitesi corporativismo-liberalismo non ha senso sto-
rico per la società italiana...
Il corporativismo, esperienza tipicamente italiana, vive delle condizioni che ne
hanno determinato la nascita, ed è legato alle condizioni storiche che abbiamo
rapidamente accennato.
Nello Stato fascista, il problema della libertà è posposto e sottomesso all'esi-
genza di un accanito lavoro di accumulazione di forze materiali e di strumenti t
nici, diretto a riparare le deficienze di una nazione nata troppo tardi, e che n
può offrirsi il lusso di sperperi attraverso disordini civili che, nell'assenza
dizioni e di costumi liberali, le riuscirebbero fatali. Ma in questo duro lavoro
è come una battaglia (tutte le imprese del fascismo sono battaglie), lo Stato fa
sta, nel mentre è costretto a imporre ai cittadini una disciplina quasi militare
pure il costante bisogno dell'adesione delle masse popolari. Perciò il suo motto
sempre quello di «andare verso il popolo».
Il vero problema del corporativismo, in queste condizioni, consiste nel far sen-
tire il compito dello Stato fascista come una necessità nazionale e proletaria i
sieme.
La terza posizione corporativa emersa in questo periodo, quella di
Ugo Spirito e, in genere, del gruppo di «Nuovi studi di diritto, econo-
mia e politica» (che fu pubblicata dalla fine del '27 sotto la direzione
dello stesso Spirito e di A. Volpicelli), può essere considerata - a secon-
da dei punti di vista - o uno sviluppo o una esasperazione della prece-
dente. I suoi sostenitori dichiarati furono assai pochi; nonostante ciò
tra il 1930 e il 1932 essa fu al centro di vivacissime polemiche che cul-
minarono, a Ferrara, nella sua sconfessione ad opera dello stesso Bottai
(che la giudicò «sbagliata, scientificamente, nelle sue conclusioni che
non segnano un passo innanzi nel corporativismo, ma un passo fuori del
corporativismo»)í, che pure aveva in precedenza mostrato di condivi-
dere alcune delle tesi dello Spirito (e di cui, anche dopo il convegno di
Ferrara, continuò ad ospitare gli scritti in «Critica fascista»), e in una
serie di feroci attacchi come «socialista"e addirittura «comunista».
Secondo Spirito3, i fatti dimostravano che negli ultimi tempi «la vita
economica si trasforma con ritmo rapidissimo da individualista e disor-
ganica in collettivista e organica»; il crescere della collettività interes-
sata alla vita sociale, a sua volta, esasperava sempre piú il dualismo tra
privato e pubblico, inducendo sempre piú frequentemente lo Stato ad
intervenire per salvare gli interessi della collettività «nazionalizzando
le perdite di aziende private». In questa situazione, «privato e pubblico
o individuo e Stato si sono confusi senza veramente fondersi e hanno
ISnito per accrescere la reciproca distanza». Il fascismo aveva intuito che
l'ulteriore passo tla compiere era quello di eliminare progressivamente
queste contraddizioni. Il corporativismo era un primo passo in questo
senso, esso non poteva però arrestarsi laddove i piú credevano. Se il
primo passo doveva essere quello di eliminare i principali contrasti di
classe, il successivo doveva però affrontare a fondo il problema di un
«centro sistematico» che risolvesse il rapporto tra impresa, sindacato,
corporazione e Stato. E ciò, sempre secondo Spirito, poteva essere ri-
solto solo attraverso la corporazione proprietaria e i corporati azio-
nisti della corporazione.
E'una soluzione che, almeno sulla carta, risolve le antinomie sopra accennate,
unisce il capitale e il lavoro, elimina il sistema dualistico, fonde l'azienda c
corporazione e infine consente un'effettiva immedesimazione della vita economica
individuale con quella statale. Se, infatti, immaginiamo la trasformazione di un
grande società anonima in una corporazione ci avvediamo subito del radicale mu-
tamento di tutti i rapporti economici e delia possibilità di giungere a un siste
veramente armonico. Il capitale passa dagli azionisti ai lavoratori, i quali div
tano ptoprietari della corporazione per la parte loro spettante in conformità de
particolari gradi gerarchici: il che importa che i corporati non si sentano stre
come nel sindacato da una necessità di difesa che è ai margini della vita econom
e trascende nel politicantismo, ma siano uniti dal vincolo della comproprietà, a
verso il quale la corporazione acquista concretezza di organismo e piena consape
volezza del proprio compito economico-politico. Il capitalista non è piú estrane
e non ignora come si amministra la sua proprietà, ma l'amministra egli stesso co
cidendo con la figura del lavoratore: e il lavoratore, d'altra parte, viene ad e
immediatamente interessato al rendimento del suo lavoro in quanto esso si con-
verte in aumento di reddito del suo capitale. La figura dell'imprenditore, poi,
si presenta piú ai margini del capitale e del lavoro, ma passa, nella stessa ide
dei termini e quindi nello stesso piano degli altri corporati, al vertice della
chia corporativa. Lo Stato, infine, non ha piú bisogno di controllare o di inter
nire dall'esterno, ed è sempre presente per il fatto stesso che la corporazione
suo organo ed è un organo che si innesta nell'organismo attraverso il Consiglio
nazionale delle Corporazioni. Lo Stato non entra piú come giudice conciliatore o
come impresa di salvataggio, ma è la realtà stessa della corporazione vista nel
ma nazionale.
A queste tre concezioni del corporativismo se ne deve, infine, ag-
giungere - per avere un quadro veramente completo e per comprendere
i successivi sviluppi dell'atteggiamento di alcuni settori del sindacali-
smo fascista verso il corporativismo - una quarta, che, in genere, chi ha
trattato il problema di cui ci stiamo interessando ha trascurato: quella
dei sindacalisti. Anche se relativamente scarse ed episodiche, le testi-
monianze relative ad essa sono, a ben vedere, sufficienti ad individuarne
gli elementi caratteristici. Il piú evidente e marcato, anche perché in
quel momento il piú attuale, era quello relativo alla preoccupazione che
il corporativismo potesse portare ad un ulteriore svuotamento del sin-
dacato, a nuove forme di controllo, e quindi di freno, sulla sua azione
e, in prospettiva, addirittura ad un~assunzione dei suoi compiti da parte
del ministero delle Corporazioni. Significativo è in questo senso ciò che
scriveva sul «Popolo d'Italia» del 28 marzo r931 E Rossonl':
E. ROSSO~I, Riflessioni sulla.ivoluzione Fascis~a- La CorporaziOne come idea, in
d Italia,8 marzo Ig31.
Per valutare appler~o il valore di questo articolo è da tenere preser~te un rapp
esso e sulla valutazione che della situazione sindacale e corporativa dava il su
Mussolini di fronte alla svolta del decennale 17
Il Sindacalismo deve essere fatto dai Sindacati. lapalissiano. La rappresen-
tanza delle classi organizzate spetta ai Sindacati e non agli organi burocratici
Stato. Lo Stato non deve fare il sindacalismo ma controllare l'azione e la propa
ganda sindacalista. Lo Stato deve pure far rispettare la lettera e lo spirito de
legge e far funzionare sotto la sua alta autorità la Magistratura del Lavoro, st
mento mirabile che non deve arrugginirsi ma sveltirsi e rispondere in pieno al s
grande compito.
Dallo stesso articolo si ricava altresí che per Rossoni se il corporati-
vismo non poteva pretendere di «intaccare e spostare le basi dell'eco-
nomia capitalistica», doveva però evitare di trasformarsi in «un sem-
plice strumento burocratico per chiudere le porte del cantiere produt-
tivo in faccia al lavoro» e costituire, al contrario, un «nuovo sistema
produttivo», una «nuova economia». E che questa non fosse una posi-
zione personale di Rossoni ma fosse comune a molti vecchi sindacalisti
fascisti lo dimostra l'insistenza con la quale in questi anni da parte sin-
dacalista si sostenne la necessità che il corporativismo realizzasse un
effettivo controllo sulla produzione (in particolare sulla quantità, la
qualità e i costi di essa, sulla estensione e il funzionamento delle im-