Table Of ContentFrancesco Forgione
Mafia export
Come ’Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra
hanno colonizzato il mondo
2009 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano
Presentazione
Come è stato possibile che interi settori dell’economia e della finanza si
rendessero così permeabili ai capitali mafiosi? Perché le mafie si sono rafforzate e
trasformate in soggetti imprenditoriali e vere e proprie holding economico-
finanziarie, tali da incidere sulle scelte dei governi, sul sistema del credito, sulle
regole dei mercati? A chi e a quanti giova questo stato di cose? E, infine,
l’interrogativo più drammatico: di fronte a questa forza economica diffusa e a
questa capacità finanziaria, quanti bisogni, quanti interessi, quante classi sociali
vivono, si alimentano o si arricchiscono grazie alla presenza e alle attività delle
mafie? Da tali e tante domande e dallo scenario inquietante che disegnano, è nata
l’idea di questo libro, che si prefigge di colmare una lacuna nel panorama delle
trattazioni sui fenomeni mafiosi nel mondo: l’esigenza di individuare e
documentare con il massimo del rigore possibile – attraverso la lettura e l’analisi
di sentenze, inchieste, atti giudiziari, relazioni investigative e parlamentari – la
presenza, la diffusione e il radicamento delle principali mafie italiane nel mondo.
L’autore presenta storie quasi sconosciute e che danno un’idea vivida e reale
dell’aspetto umano di questo fenomeno epocale, aiutato da mappe dettagliate
della dislocazione delle famiglie delle varie mafie nei quattro continenti, di mappe
delle rotte della droga e del traffico di esseri umani.
A mia madre
e a Pino che non c’è più
«…Io vengo da una città dove la ricchezza è il solo fine sia dei ricchi che dei
poveri e dove, perciò, i delitti si nascondono dietro ogni angolo e i misteri sono la
regola di vita. Si può essere felice in un luogo simile?»
da Via Crudes di Loriano Machiavelli
Nota dell’autore
Le storie e le mappe ricostruite in questo libro, riguardano documenti, atti
processuali, materiali investigativi relativi alla ’ndrangheta, alla camorra e a Cosa
Nostra. Negli ultimi decenni la Sacra Corona Unita ha anch’essa conquistato un
ruolo importante nel panorama criminale italiano con proprie ramificazioni
straniere. Così come sono comparse organizzazioni territoriali nuove, come quella
dei «Basilischi» in Basilicata.
Mi sono limitato a ricostruire gli insediamenti internazionali delle tre mafie
«principali», per il carattere storico di queste presenze fuori dall’Italia e i livelli di
pervasività che riescono ad esprimere oggi su scala globale.
Le carte geo-criminali sono state ricostruite con un lavoro di analisi e studio
sui materiali disponibili e utilizzabili, per i vincoli di segretezza di alcune
inchieste, alla data di pubblicazione di questo libro. Benché siano le prime mappe
«globali» mai pubblicate nel panorama editoriale italiano, non hanno alcuna
pretesa di esaustività.
Le pagine che seguono sono ricche di nomi. Per tutti coloro che sono
chiamati in causa, a esclusione di quelli che nel testo non siano esplicitamente
indicati come condannati in via definitiva, è evidente che vale la presunzione di
innocenza, bene che, come si sa, è a presidio delle garanzie individuali ed è
costituzionalmente garantito.
I nomi sono quelli che ognuno può leggere dagli atti delle forze dell’ordine e
della magistratura, e sono qui riportati semplicemente per dare un nome a
determinate vicende o per ricostruire un quadro d’assieme e di cronaca, non certo
perché siano da considerarsi pregiudizialmente colpevoli dei reati loro contestati.
La verità giudiziaria tocca, come sempre, ai tribunali che diranno se gli
imputati sono da considerarsi innocenti o colpevoli.
1. san luca e il mondo
Pasta al forno ad Amsterdam
Novembre 2008. Da molte ore è già buio. Dalla mattina il sole quasi non si è
alzato: l’autunno in Aspromonte è così, non fa mai giorno. Sono le nove di sera e
a San Luca per le strade non si vede anima viva. Tre giovani donne e due bambini
piccoli escono di casa, entrano in macchina, lasciano il paese e cominciano a
perdersi tra i tornanti che dall’Aspromonte scendono giù verso il mar Ionio. è
l’inizio di un lungo viaggio. Riattraversano le montagne sulla superstrada Ionio-
Tirreno e arrivano alla stazione di Rosarno. Aspettano l’Intercity Notte 894 delle
22.30, il treno partito da Reggio Calabria e diretto a Roma Termini.
Alle 7.15 del mattino dopo sono a Roma. Le tre donne e i bambini si
confondono nella folla caotica di turisti e pendolari che ogni mattina, a quell’ora,
popola la stazione. Guardano le vetrine dei negozi, fanno fare colazione ai
bambini, poi escono sul piazzale. Invece dei taxi, contattano direttamente due
auto a noleggio, di quelle abusive e si fanno portare alla stazione Tiburtina.
Mentre guardano le copertine delle riviste davanti all’edicola le raggiunge un
uomo. È appena sceso da una Volkswagen Passat con targa tedesca. Una delle tre
donne si stacca dal gruppo, gli va incontro, e scambia solo poche parole con lui.
L’uomo rientra in macchina e parte, le donne e i bambini si dirigono a piedi verso
Piazza Bologna.
Questa volta salgono su un taxi regolare, sono in cinque, e hanno trovato
una Fiat Multipla. Al tassista le donne fanno una richiesta generica e un po’
«strana»: chiedono di essere accompagnate in un posto ampio, meglio se affollato.
Il tassista le porta a piazza Re di Roma, lo spazio c’è e il quartiere è abbastanza
popolare. Il gruppo scende. Gira attorno alla piazza giusto il tempo di guardare
qualche negozio. Fermano un altro taxi e ritornano nei pressi della stazione
Tiburtina.
Ad aspettare le donne e i bambini c’è la Passat con la targa tedesca ferma
davanti alla stazione qualche ora prima, ma è cambiato l’autista. Si salutano solo
con un cenno del capo, caricano i bagagli nel cofano, salgono tutti in macchina e
partono. Sono diretti a Firenze, quando incrociano l’uscita per Lucca svoltano
bruscamente. Ora vanno a Genova e da qui proseguono per Torino. All’altezza di
Alessandria deviano per la Valle d’Aosta e da qui, attraverso il Traforo del Gran
San Bernardo, entrano in Svizzera.
La Passat viaggia per strade secondarie tra valichi e montagne già innevate.
Attraversa il confine francese e comincia una sorta di tour de France senza alcuna
logica. Il percorso è schizofrenico, apparentemente senza meta. Fino a quando
non arriva alla frontiera belga. Anche in questo Paese la macchina con l’autista, le
donne e i bambini, fa giri strani, la direzione però è ormai chiara. Attraversano il
confine con l’Olanda, raggiungono Amsterdam e si fermano di fronte a una
villetta a due piani.
Il quartiere è residenziale, non ricco, ma distante e diverso dalle periferie
industriali dove da decenni vivono le famiglie di emigrati calabresi, siciliani e
pugliesi partiti dall’Italia alla fine degli anni Cinquanta. La zona, di giorno molto
tranquilla, di notte si popola di giovani e ragazzi che giungono da tutta la città per
ritrovarsi, a pochi metri dalla casa, in uno dei pub più frequentati e di tendenza di
Amsterdam.
L’uomo, le tre donne e i bambini scendono dall’auto, si guardano attorno,
entrano in casa e vi rimangono rinchiusi per più di una settimana. Non sanno che
da quando hanno lasciato San Luca, giorno e notte, in treno e lungo le strade nei
diversi Paesi europei, gli uomini della Squadra Mobile della Questura di Reggio
Calabria non li hanno persi di vista un solo istante. E neanche per un attimo
lasceranno l’osservazione di quella villetta fino a quando qualcuno, per scelta o
per necessità, dovrà varcarne l’uscio.
Dopo una settimana di vita ritirata, il primo a lasciare la casa è l’uomo che
ha parlato con una delle tre donne davanti alla stazione Tiburtina di Roma. Se ne
erano perse le tracce, perché lui a Roma aveva soltanto portato la Passat, un’auto
«pulita» per poter attraversare, con un altro autista, le diverse frontiere europee. È
Francesco Madeo, un pugliese residente da molti anni a Düsseldorf, in Germania.
Porta con sé un pesante e ingombrante borsone. I poliziotti calabresi gli si
mettono alle costole e sono certi che, seguendolo, li porterà da uno dei
protagonisti di quella che, nella storia della Germania e in quella della
’ndrangheta, è diventata la strage di ferragosto, la mattanza nella quale la notte del
15 agosto del 2007 a Duisburg sono stati assassinati sei ragazzi tra i 18 e i 39
anni.
Madeo raggiunge la metropolitana, si mischia alla folla e sale sul primo
treno. Poche fermate e scende. Ad aspettarlo all’uscita della stazione c’è un uomo
basso e tarchiato, occhi e carnagione scuri, uno dei tanti volti degli immigrati
italiani, turchi, greci, tunisini che hanno piantato radici da tempo tra Olanda e
Belgio. I poliziotti italiani e i loro colleghi olandesi, non hanno più dubbi: hanno
di fronte uno dei padrini della faida che dal 1991 al 2007 ha mietuto già sedici
morti tra le due principali famiglie di ’ndrangheta di San Luca. L’uomo è
Giuseppe Nirta ma tutti lo chiamano Charlie. Ha trentacinque anni ed è uno dei
boss più importanti del clan Nirta-Strangio, da sempre contrapposto e in guerra
con quello dei Pelle-Vottari-Romeo. Nirta non ha studiato, si è fermato alla quinta
elementare, ma parla perfettamente lo spagnolo, usa internet, comunica
regolarmente con la Calabria e l’America Latina utilizzando skipe. Da oltre dieci
anni la sua professione è quella di narcotrafficante, un’attività che gli ha fatto
conquistare una buona fama a livello internazionale. È introvabile dal 1999 e fa
parte di quella speciale black list del ministero dell’Interno nella quale compaiono
i nomi dei 100 latitanti più pericolosi. Da ferragosto del 2007, insieme a Giovanni
Strangio, era tra gli uomini più ricercati d’Italia.
La sorpresa arriva quando i poliziotti calabresi, messe le manette ai polsi del
boss, aprono il borsone che gli aveva appena consegnato il suo messaggero e
invece che armi o panetti di droga vi trovano una teglia di pasta al forno con la
provola e le polpette, il piatto calabrese dei giorni di festa, diverse salsicce
stagionate, una forma di formaggio pecorino e un computer. Gli investigatori
calabresi sorridono tra loro divertiti, guardando la reazione stupita e meravigliata
dei loro colleghi olandesi. Del resto se tre donne hanno lasciato San Luca per
stare vicino ai loro uomini e agevolarne la latitanza non è pensabile che non
abbiano portato anche il cibo e i sapori della loro terra.
Angela, Teresa e Aurelia Strangio sono tre sorelle. Aurelia è la moglie di
Giuseppe Nirta, e Teresa è moglie di Francesco Romeo, anche lui latitante dal
1999, con Angela sono sorelle di Giovanni Strangio, il ricercato numero uno della
strage di Duisburg.
Solo la ’ndrangheta si nutre di questi legami familiari e di sangue, li
trasforma in legami criminali, collante sociale, vincolo di omertà. È questo il
tratto di un’identità unica nel panorama criminale mondiale, di un rapporto con la
tradizione che la rende impermeabile a ogni snaturamento o contaminazione
culturale e dà il segno di una dimensione arcaica capace di riproporre
ossessivamente riti, forme di violenza, senso di appartenenza anche a migliaia di
chilometri dal suo territorio d’origine. Ma questa è solo una faccia, l’altra è la sua
modernità, la sua capacità di penetrazione e radicamento in mondi geografici,
economici e sociali diversi, e la sua straordinaria dimensione economico
finanziaria globale: la soppressata e il computer, il pastore e il banchiere, il
controllo del territorio e la proiezione internazionale, San Luca e il Mondo.
Passano solo pochi mesi e il 12 marzo del 2009, a Diemen, un piccolo
centro alle porte di Amsterdam, viene arrestato anche Giovanni Strangio, il vero
protagonista della strage tedesca, colui che, se i poliziotti olandesi non avessero
avuto fretta di fermare il borsone di «salami e computer» all’uscita della
metropolitana, come suggerivano gli investigatori italiani, sarebbe stato arrestato
già a novembre dell’anno precedente.
Strangio ha poco più di 30 anni ma ha già l’aria e i comportamenti da boss,
un boss ragazzino. Quando i poliziotti entrano al secondo piano di una tipica
palazzina olandese di periferia, non oppone alcuna resistenza. Nella casa, insieme
a sua moglie Maria e al suo figlioletto di tre anni, c’è Francesco Romeo, 42 anni,
marito di sua sorella, che finisce anche lui una latitanza durata nove anni e mezzo.
Romeo è considerato un trafficante di droga a sei zeri, capace di organizzare
traffici e muovere affari per milioni. Perquisendo l’appartamento i poliziotti
trovano un milione di euro in banconote da cinquanta e cento. Probabilmente è il
ricavato della vendita di una partita di droga o la cifra pronta per un nuovo
acquisto.
Poco tempo prima, in una intervista rilasciata da latitante al settimanale
«Panorama», Giovanni Strangio aveva affermato: «la faida di San Luca in realtà
non esiste e so che nel mio paese esiste povertà, disoccupazione, diffidenza ma
anche amore, passione e voglia di lavorare».1
L’angoscia per la povertà dei suoi concittadini e la condizione sociale del
suo paese non dovevano provocargli un dolore particolare né riguardare
direttamente e da vicino, vista la quantità di soldi liquidi che aveva in casa.
La notizia dell’arresto ha un discreto rilievo nazionale e una forte
amplificazione sia sui giornali e sui media tedeschi che su quelli calabresi. In
fondo si tratta pur sempre dell’autore e regista di una strage che ha avuto un’eco a
livello mondiale, facendo scoprire fuori dalla Calabria e dall’Italia l’esistenza
della ’ndrangheta.
Al momento della cattura non si sa dove finirà Strangio, se la magistratura
olandese accoglierà la richiesta di estradizione delle autorità tedesche, nel cui
territorio è stata consumata la mattanza, o se verrà trasferito in Italia, come
chiedono i magistrati di Reggio Calabria che hanno portato avanti l’inchiesta e
coordinato gli investigatori fino al suo arresto.
Gli interrogativi e l’attenzione pubblica durano soltanto due-tre giorni, poi,
come in tutte le storie di ’ndrangheta, è solo silenzio. Un mese dopo non farà
neanche notizia, fuori dalla Calabria, la decisione di trasferire il giovane boss e
killer in Italia. Di nuovo e come sempre cala il sipario.
Le domande invece rimangono, al di là della vicenda di Strangio, della
faida, degli aspetti giudiziari e investigativi dell’inchiesta.
Cosa ci fanno ad Amsterdam tre boss calabresi, partiti dal cuore profondo
dell’Aspromonte, da quella San Luca considerata da sempre la «mamma» della
’ndrangheta e la sua culla e, con il suo santuario tra le montagne di Polsi, il luogo
sacro della sua religiosità, depositario dei suoi più oscuri e inquietanti misteri e
delle sue più importanti decisioni?
La capitale olandese è solo uno dei tanti luoghi «accoglienti» per i boss
mafiosi latitanti – troppi, in un’Europa vulnerabile che ancora non è stata capace
di darsi comuni strumenti di contrasto alle organizzazioni mafiose – o è anche uno
snodo di relazioni, affari e traffici tra le grandi holding criminali mondiali? È solo
una città di transito tra uno dei più grandi porti del mondo come quello di
Rotterdam e la Germania di Duisburg, o è diventata un crocevia obbligato delle
principali rotte della cocaina che arriva in Europa?
E ancora, Amsterdam è solo la capitale-simbolo dell’antiproibizionismo e
per questo di conseguenza «permissiva» anche verso le attività collegate al
traffico degli stupefacenti, o piuttosto è diventata, suo malgrado, una zona franca
per i capimafia ricercati, le loro società finanziarie, le loro attività di riciclaggio?
Cambiando Stato e città, spaziando dall’Europa all’Australia, dal Canada
alla Colombia, dal Messico agli Stati Uniti, dal Sud Africa alla Romania,
raccontando altre storie con altri protagonisti, potremmo riproporre le stesse
domande.
Un fatturato da Finanziaria
Ogni giorno, sfogliando le cronache giudiziarie dei giornali si leggono
notizie di operazioni antimafia o antidroga che coinvolgono più Paesi e più
continenti. In genere, a parte i casi eclatanti, si tratta di articoli brevi, poche righe
che riportano flash d’agenzia e non suscitano alcuna reazione nell’opinione
pubblica italiana, preoccupata più per i titoloni da prima pagina sull’assalto dei
migranti clandestini e l’aumento degli stupri o a seguire, come una telenovela,