Table Of ContentPaolo Spinicci  
Lezioni sui Prolegomeni ad ogni metafisica 
futura che  vorrà  presentarsi  come  scienza di 
Immanuel Kant,  Hartknoch,  Riga,  1783. 
Le parole della filosofia, I, 1998.
Le parole della filosofia, I, 1998 
Lezioni sui Prolegomeni ad ogni metafisica futura 
che  vorrà  presentarsi  come  scienza,  Hartknoch, 
Riga, 1783
. 
- Paolo Spinicci - 
 
Lezione prima 
Prima di addentrarci nella lettura del testo e nel commento delle linee generali del discorso 
kantiano, è opportuno soffermarsi almeno un poco sulle circostanze esteriori che sono 
all'origine dei Prolegomeni. Kant li scrive per dare una risposta a chi aveva lamentato la 
prolissità  e  la  complessità  della Critica  della  ragion  pura (1781).  Di  qui  l'aspetto 
principale dell'opera: il suo proporsi come un riassunto lucido e breve dei passi salienti 
della Critica. 
A questa generale finalità di natura espositiva si lega tuttavia un obiettivo secondario di 
natura polemica: nei Prolegomeni Kant sente il bisogno di rintuzzare le critiche di Garve, 
raccolte in una breve recensione pubblicata sulla Göttingische Gelehrte Anzeigen del 19 
gennaio del 1782. Da questa recensione, che ha tra l'altro una sua storia redazionale 
piuttosto  complessa  e  che  uscì  anonima,  Kant  si  sentì  colpito  personalmente,  e 
nei Prolegomeni l'accusa di idealismo che la recensione gli imputava viene più volte 
respinta con un tono che lascia ben trasparire il risentimento per chi, a suo dire, lo aveva 
frainteso. 
Su questo secondo tema non ci soffermeremo, così come in generale non tenteremo di 
collocare,  anche  solo  sommariamente,  l'opera  kantiana  di  cui  vogliamo  discorrere 
all'interno della cultura filosofica tedesca del XVIII secolo. Anche il nostro obiettivo è 
infatti di natura introduttiva: dei Prolegomeni intendiamo infatti avvalerci come di uno 
strumento per far luce sui principali nodi concettuali della filosofia critica. 
E tuttavia, proprio sulla natura introduttiva dei Prolegomeni è necessario soffermarsi un 
attimo. Ciò che sembra spingere Kant a chiamare proprio così i Prolegomeni non è solo 
la consapevolezza di chi stende appunto un'introduzione divulgativa: è anche la scelta di 
porre fin nel titolo del proprio lavoro la centralità delle questioni di principio, - quelle 
questioni che proprio in virtù della loro natura debbono essere discusse per prime. E' in 
questa luce che dobbiamo interpretare le parole che aprono questo testo: Kant osserva 
infatti che   
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questi Prolegomeni sono scritti non per i novizi, ma per i futuri maestri, ed ancora devono 
servire a questi non ad ordinare l'esposizione di una disciplina già esistente, ma a ritrovare 
da sé medesimi questa scienza stessa (Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà 
presentarsi come scienza, a cura di P. Martinetti, Bocca, Milano 1913, p. 19). 
Così,  se  conveniamo  nel  dire  che  i Prolegomeni si  rivolgono  ad  un  pubblico  di 
principianti, occorrerà sottolineare che con "principianti" si debbono intendere soltanto 
coloro che si sforzano di porre un primo vero inizio della filosofia. 
Questo  confluire  della  natura introduttiva dei Prolegomeni in  una  problematica  di 
carattere fondazionale non deve stupirci: la filosofia - si diceva un tempo - è la scienza dei 
principi primi, e il tema dell'origine è del resto una della metafore più consuete del 
discorso filosofico. Proprio come Cartesio, anche Kant muove dalla constatazione di una 
crisi di natura culturale: chi abbia letto Hume e si sia lasciato destare dal sonno dogmatico, 
non può più immergersi nei sogni della metafisica. Del resto, l'eco cartesiana è viva anche 
quando Kant, di fronte allo smarrimento della cultura filosofica del suo tempo, ci invita 
ad attuare una vera e propria epoché nei confronti della metafisica: i metafisici debbono 
comprendere infatti che è "assolutamente necessario sospendere provvisoriamente il loro 
lavoro, e considerare tutto ciò che si è fatto come non fatto" (Prolegomeni, op. cit., p. 19). 
Se non dobbiamo dunque stupirci della tendenza tutta filosofica ad abbandonare - come 
dice Kant - la costruzione del palazzo grandioso della metafisica per dedicarsi al compito 
preliminare di saggiare la bontà delle sue fondamenta, occorre tuttavia sottolineare che il 
rimando al momento fondazionale assume in Kant una piega particolarmente accentuata. 
Di fronte ai fallimenti della metafisica, la reazione kantiana non è semplicemente quella 
di chi si accinge a riprendere da capo un lavoro più volte intrapreso; la sua richiesta è più 
radicale: occorre domandarsi infatti se ciò che si dice metafisica è davvero possibile. Dopo 
Hume, il filosofo non può più perpetuare la pretesa dogmatica della filosofia e non può 
più credere che la ragione sia una facoltà di natura conoscitiva: lo strumento dell'analisi 
concettuale e la metodica della deduzione possono servire per far luce sul contenuto 
analitico delle nostre idee, ma non possono in linea di principio permetterci di scoprire la 
natura nascosta delle cose. Alla pretesa della metafisica di decidere a rigor di logica la 
forma del mondo si deve dunque contrapporre la consapevolezza che la ragione non è di 
per  sé  in  grado  di  conoscere  nulla,  poiché  di  un  mondo  intelligibile  che  si  possa 
razionalmente conoscere non vi è traccia, se non nei libri dei filosofi. 
Ora,  all'origine  delle  pretese  della  metafisica  vi  è,  per  Kant,  un  vero  e  proprio 
fraintendimento del principio di causalità: nelle opere della metafisica, il principio di 
causalità si pone infatti come un principio logico che, nelle forme del principio di ragion 
sufficiente, deve permetterci di comprendere il nesso che lega gli eventi del mondo alla 
luce della relazione argomentativa che lega le conclusioni alle premesse. E tuttavia, 
riconoscere l'infondatezza della pretesa metafisica non significa, per Kant, sostenere che 
il concetto di causa sia un concetto superfluo o che la strada del finzionalismo humeano 
sia  percorribile:  vuol  dire  solo  affermare  che  la  metafisica  non  sembra  in  grado  di 
giustificare  la  validità  di  quei  concetti  di  cui  anche  Kant  è  disposto  a  riconoscere 
l'indispensabilità. Di qui la polemica aspra nei confronti delle filosofie del senso comune: 
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Reid, Beattie e Priestley in realtà abbandonano interamente il campo della filosofia, poiché 
rinunciano al compito primo del filosofo: dimostrare l'effettiva validità dei concetti su cui 
intendono far poggiare la nostra conoscenza del reale. Assumere come una certezza non 
ulteriormente indagabile il principio di causalità non significa rispondere, ma fraintendere 
il problema humeano:   
La questione non era se il concetto di causa fosse legittimo, utile, anzi indispensabile nella 
conoscenza naturale, perché questo non era stato mai messo in dubbio da Hume; bensì se 
esso venga posto dalla ragione a priori e perciò possieda una verità propria indipendente 
dall'esperienza e possa ricevere un'applicazione più estesa, non limitata soltanto agli 
oggetti dell'esperienza; questo era il punto che Hume aspettava che gli fosse chiarito. Si 
trattava dell'origine di questo concetto, non del suo indispensabile uso (Prolegomeni, op. 
cit., op. cit., pp. 22-3). 
E tuttavia, nonostante la polemica aspra con Reid e Beattie, Kant è almeno in un punto 
vicino alle tesi della filosofia del senso comune: anche per Kant 
la filosofia non può ritrarre la sua navicella al sicuro sulla spiaggia (dello scetticismo), 
[ma deve] darle un pilota che munito d'una carta perfetta del mare e di una bussola sappia 
guidarla (Prolegomeni, op. cit., p. 25). 
Almeno in questo i filosofi del senso comune hanno ragione: l'esito scettico deve essere 
messo da parte. La soluzione humeana non è una soluzione, e non lo è proprio perché nega 
la possibilità di quella conoscenza di cui noi siamo altrimenti certi. 
In altri termini: l'esito scettico deve essere messo da parte, e questo proprio perché lo 
scetticismo è una posizione contraddittoria che da un lato nega che vi sia una conoscenza 
oggettiva e dichiara mera apparenza ciò che conosciamo, dall'altro fonda la sua tesi 
scettica sulla base di un criterio rigoroso di verità che deve comunque essere presupposto 
se si vuol bollare come illusoria la nostra esperienza del reale. Al di là delle mutevoli 
forme che lo scetticismo ha storicamente assunto, una costante può essere tuttavia messa 
in luce: il filosofo scettico tende a considerare la conoscenza non come un fatto che deve 
essere spiegato, ma come un problema cui non si può dar soluzione. 
Rispetto a questa posizione generale la posizione kantiana segna una netta inversione di 
tendenza:  il  filosofo  deve  muovere  infatti  non  dalla  conoscenza  come problema,  ma 
dal fatto stesso del conoscere. Di fronte alla matematica e alla fisica pura - e cioè alle 
forme della conoscenza scientifica - il filosofo non dovrà chiedersi se siano possibili, ma 
quali siano le condizioni che di fatto le rendono possibili. Dalla domanda sulla possibilità 
del conoscere si passa così a quella relativa alle sue condizioni di possibilità. 
Di  queste  condizioni  di  possibilità  dovremo  in  seguito  parlare.  Una  cosa  tuttavia  è 
certissima: per Kant, se si vuol salvare la rigorosa esattezza della fisica e della matematica 
è  necessario  farle  poggiare  su  fondamenti  a  priori.  Una  fondazione  induttiva  della 
matematica e della scienza ci condurrebbe ad esiti scettici, ci condurrebbe, in altri termini, 
proprio  là  dove  Hume  ci  aveva  abbandonati.  Venire  a  capo  della  possibilità  della 
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conoscenza  fisica  e  matematica  vuol  dire  allora  riconoscere  -  per  Kant  -  che  vi 
sono fondamenti non empirici delle scienze, e che è in generale legittima una dottrina che 
abbracci la totalità delle proposizioni puramente razionali. Ora, se conveniamo - con Kant 
- nel chiamare metafisica la dottrina che abbraccia la totalità delle proposizioni puramente 
razionali e se - come abbiamo visto - la possibilità stessa della matematica e della fisica 
ci riconduce alla sfera dell'apriori, allora possiamo senz'altro sostenere che la possibilità 
delle scienze riposa sulla possibilità della metafisica. 
Così, dopo un ragionamento relativamente ampio e complesso, siamo tornati alla domanda 
da cui avevamo preso le mosse: la domanda sulla possibilità della metafisica. A questa 
domanda sembra per un verso necessario rispondere affermativamente: la rinunzia alla 
sfera della razionalità pura come fondamento ineliminabile del conoscere sembra condurci 
necessariamente ad esiti scettici. Non solo: per Kant, negare humeanamente ogni forma 
della ragion pura che travalichi il momento della mera analiticità non significa solo negarsi 
la possibilità del conoscere, ma vuol dire anche precludersi l'accesso alla sfera della 
moralità  e,  più  generalmente,  la  comprensione  della  dimensione  più  specificamente 
spirituale e religiosa dell'esistenza. Una metafisica, dunque, deve esserci, ed è soltanto il 
bisogno metafisico che è radicato nell'uomo che ha potuto - nota Kant - spingere gli uomini 
in un'impresa così parca di successi teoretici come la speculazione metafisica. 
A questa risposta affermativa sembra tuttavia affiancarsene una di segno contrario: in 
realtà, dimostrare che vi deve essere una ragion pura significa forse aver dimostrato che 
di una metafisica come scienza si avverte il bisogno, ma non che è una tale disciplina è 
davvero possibile. 
Così, se non ci si vuole avventurare ancora una volta nelle secche in cui si sono arenati i 
progetti ambiziosi della speculazione filosofica, è necessaria una riflessione preliminare 
che mostri i limiti cui è vincolato l'uso della ragion pura. Gli insuccessi della metafisica 
testimoniano dell'impossibilità di un uso ingenuo della ragione: prima di avventurarsi nel 
mare della metafisica è necessario allora - per Kant - disporsi su di un terreno critico: è 
necessaria cioè una critica della ragion pura che mostri quale sia il senso e quali i limiti 
che spettano ad una considerazione metafisica in quanto tale. 
2. Il primo compito che - per Kant - la ragione critica deve assumersi consiste nel mostrare 
in che senso sia davvero necessario prendere le distanze dalla riflessione metafisica. 
E che vi sia almeno un senso in cui la riflessione metafisica deve essere senz'altro rifiutata 
è un fatto che ci si mostra con chiarezza non appena gettiamo uno sguardo sulla sua storia: 
alla cooperazione concorde degli scienziati che lavorano tutti all'edificazione di uno stesso 
disegno teorico si contrappone la litigiosa solitudine del metafisico, perso nelle costruzioni 
ontologiche del suo privatissimo mondo, di una realtà che, per essere soltanto il frutto 
delle sue escogitazioni filosofiche, è divenuta infine un suo possesso solipsistico. Su 
questa natura privata del mondo metafisico Kant appunta gli strali della sua ironia in un 
suo scritto del 1766 (I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica), uno 
scritto in cui tra le altre cose si legge: 
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Aristotele dice in qualche luogo "Vegliando noi abbiamo un mondo comune; ma sognando 
ciascuno ha il suo mondo". A me sembra che si possa invertire l'ultima proposizione e 
dire: quando di diversi uomini ciascuno ha il suo proprio mondo, è da presumere che 
sognino. Persuasi di ciò, di fronte agli architetti dei diversi mondi ideali campati in aria, 
dei quali ciascuno tranquillo occupa il suo mondo con esclusione degli altri, standosene 
l'uno nell'ordine delle cose che Wolff ha costruito con poco materiale di esperienza, ma 
più concetti surrettizi, e l'altro in quello che Crusius ha prodotto dal nulla con la magica 
forza di alcune parole, pensabile ed impensabile, noi, dinanzi alla contraddizione delle 
loro visioni, pazienteremo, finché questi signori siano usciti dal sogno. Poiché, quando 
una buona volta essi, a Dio piacendo, veglieranno completamente, cioè apriranno gli occhi 
ad uno sguardo che non esclude l'accordo con un altro intelletto umano, niuno di essi vedrà 
nulla che, alla luce delle loro prove, non appaia a tutti gli altri evidente e certo, ed i filosofi 
abiteranno nello stesso tempo un mondo in comune, qual è quello che già da gran tempo 
hanno occupato i matematici (Scritti precritici, Laterza, Bari 1982, op. cit., pp. 373-4). 
Ora, al di là dell'ironia del filosofo che scopre nel topos che celebra il suo solitario lavoro 
nient'altro che il segno della natura non scientifica e quindi meramente soggettiva dei 
risultati della sua speculazione, vi è in questo breve brano un indizio preciso che ci 
permette di comprendere quale sia - per Kant - il presupposto erroneo su cui la metafisica 
si fonda: il filosofo metafisico sembra infatti credere nella capacità della ragione di 
farci conoscere un mondo diverso ed interamente altro da quello che l'esperienza sensibile 
ci porge. Al mondo sensibile, il metafisico - questo sognatore della ragione - contrappone 
un mondo intelligibile; sotto l'apparenza della realtà scopre una struttura profonda che - 
se è insondabile sensibilmente - sembra non di meno accessibile razionalmente. 
Ora, la metafisica è caratterizzata da questo modo di procedere fin dalla sua prima origine 
nel mondo greco: al mondo della doxa si contrappone quello dell'episteme, agli oggetti 
sensibili  gli  oggetti  noematici  che  -  a  differenza  dei  primi  -  non  sono  corruttibili  e 
mutevoli, ma eterni e immutabili. Di questo orientamento generalissimo del pensiero 
anche la metafisica del XVII e del XVIII secolo offrono a Kant un'illustrazione adeguata, 
ed è proprio a partire di qui che deve essere compreso il peso che la logica - questa 
manifestazione esemplare del pensiero puro - riveste nelle metafisiche del razionalismo. 
Il pensiero nella sua pura forma deve guidarci al di là del mondo sensibile e deve offrirci 
il filo conduttore per cogliere la struttura del mondo transfenomenico ed intellegibile. Così 
non è un caso se Wolff cerca di dedurre il principio di causalità dal principio di non 
contraddizione: nei principi logici deve essere infatti racchiusa l'immagine del mondo così 
come deve essere - secondo ragione. 
Sappiamo già che questa deduzione non regge, e Hume lo ha mostrato con chiarezza. Non 
facciamo allora altro che seguire le sue orme, se - con Kant - proponiamo di fare giustizia 
delle pretese wolffiane affermando che ogni pretesa della ragione di farci conoscere - 
indipendentemente dall'esperienza sensibile  - un mondo transfenomenico deve essere 
considerata infondata e come tale rifiutata. Di una metafisica che ci faccia conoscere una 
realtà al di là dei fenomeni non è dunque lecito parlare: alla domanda sulla possibilità della 
metafisica intesa come disciplina che disvela ciò che l'essere è al di là delle apparenze si 
deve quindi dare una risposta negativa. 
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Diversamente stanno le cose - come vedremo - se quando parliamo per esempio di 
metafisica  della  natura  non  intendiamo  altro  che  l'insieme  dei  presupposti  a  priori 
necessari alla conoscenza della natura. In altri termini: il secondo compito che alla ragione 
critica compete consiste dunque nel distinguere con chiarezza la metafisica come pretesa 
dogmatica della ragione di disegnare i contorni di un mondo intelligibile dalla metafisica 
come disciplina che indica i presupposti a priori che caratterizzano determinati ambiti del 
sapere. 
Ora, far luce su ciò che è a priori vuol dire necessariamente rivolgere lo sguardo alla sfera 
del giudizio per cogliere dove possano darsi forme a priori e per indicare con precisione 
il senso che loro compete. E' in questa luce che deve essere compresa l'importanza che 
nelle pagine kantiane riveste la distinzione tra giudizi analitici e sintetici. 
Per Kant parliamo di giudizi analitici tutte le volte che il predicato è racchiuso nel concetto 
del soggetto e quindi non aggiunge nulla di nuovo al soggetto stesso. Quando diciamo 
"Tutti  i  corpi  sono  estesi"  -  così  Kant  esemplifica  la  sua  definizione  -  di  fatto  non 
predichiamo nulla che già non fosse noto a chi avesse inteso ciò che la parola "corpo" 
significa: il giudizio analitico dunque non ha portata conoscitiva, ma ha solo una funzione 
esplicativa, poiché di fatto rende esplicito ciò che è solo implicitamente pensato nella 
nozione del soggetto. 
Non è il caso qui di soffermarsi sulle ambiguità racchiuse nella definizione kantiana (una 
definizione che, sia detto per inciso, presuppone dietro alla formulazione linguistica dei 
concetti  un  vincolo  essenzialistico  che  solo  può  garantirci  del  fatto  che davvero nel 
concetto di corpo sia già "pensato" il concetto di estensione e non anche, per esempio, 
quello di pesantezza). Si deve piuttosto osservare che già a partire di qui è possibile 
dimostrare  l'insostenibilità  della  posizione  wolffiana:  da  proposizioni  analitiche  si 
possono derivare solo proposizioni analitiche, e il principio di causalità - che di fatto ci 
dice qualcosa sulla natura del mondo reale - non può essere proprio per questo meramente 
analitico. 
Dai giudizi analitici debbono essere distinti poi i giudizi sintetici che sono caratterizzati 
dal fatto che il predicato non è contenuto nella nozione del soggetto, ma vi è aggiunto 
sinteticamente. Quando diciamo "tutti i corpi sono pesanti" predichiamo del corpo un 
accidente  che  non  gli  spetta  necessariamente,  ma  solo  in  ragione  della  costituzione 
particolare del nostro mondo. In un mondo privo di forza di gravità i corpi non sarebbero 
pesanti; ma sarebbero egualmente estesi: possiamo, in altri termini, pensare corpi senza 
peso, ma non possiamo nemmeno immaginare un corpo inesteso. 
Ora  i  giudizi  sintetici  sono  spesso  fondati  sull'esperienza:  per  mettere  capo  ad  una 
predicazione sintetica è necessario infatti uscire dal concetto del soggetto e l'esperienza è 
senz'altro capace di farci abbandonare la rete concettuale nella quale siamo imprigionati 
finché ci muoviamo sul piano puramente analitico. Tuttavia, basta dare uno sguardo ai 
giudizi della metafisica per rendersi conto che non tutti i giudizi sintetici sono tratti 
dall'esperienza e sono quindi - in termini kantiani - a posteriori. Prendiamo per esempio il 
principio metafisico di causalità: "Tutti gli enti hanno una causa". Questo principio non è 
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di natura analitica: nel concetto di esistenza non è racchiuso implicitamente il concetto di 
causalità. Ma non è nemmeno un giudizio a posteriori: l'esperienza non ci autorizza ad 
asserire apoditticamente una simile tesi. Se ci affidiamo all'esperienza, del concetto di 
causa non resta che una finzione immaginativa, retta dal cemento dell'abitudine, non un 
principio che pretende di avere una validità razionale indubitabile. 
Possiamo allora trarre una prima conclusione: i principi della metafisica sono sintetici a 
priori. Sono sintetici: in essi si avanza una pretesa di conoscenza; ma sono anche a priori: 
in essi si fa avanti una pretesa all'apoditticità che può essere garantita esclusivamente dalla 
loro origine non empirica. E se le cose stanno così una seconda conclusione può essere 
tratta: in realtà, la domanda sulla possibilità della metafisica può essere riformulata in una 
domanda più definita - la domanda sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori. 
Non vi è dubbio che la nozione di sintetico a priori - questo concetto così squisitamente 
kantiano - sia senz'altro problematica: da una parte il momento della sintesi parla in nome 
della composizione del diverso e sembra quindi alludere al momento dell'esperienza che, 
solo, sembra legittimare l'aggiunta sintetica che ha luogo nel giudizio. Dall'altra, tuttavia, 
questa sintesi deve avvenire "prima" di ogni possibile esperienza: i giudizi sintetici a priori 
sembrano così porsi come giudizi conoscitivi dati prima di ogni conoscenza. Non solo: se 
la  composizione  con  il  diverso  non  trae  la  sua  legittimazione  dall'esperienza,  non 
rischiamo forse di abbandonarci ad un dogmatismo che non ha nulla da invidiare a quello 
della metafisica classica? In altri termini: come si può parlare di giudizi sintetici a priori 
se - a ben guardare - non è affatto chiaro donde tali giudizi traggano la loro necessità? 
Ciò nonostante, piuttosto che indugiare in critiche che mettono in luce le ambiguità del 
discorso kantiano, è opportuno - io credo - osservare che i giudizi sintetici a priori non 
sono comunque una vuota escogitazione, ma sono un buon nome per mettere in luce un 
insieme di verità su cui si era già riflettuto, e assai spesso. Due rette che abbiano in comune 
un punto non racchiudono uno spazio - questo è chiaro. E tuttavia, la mente acuta di 
Euclide aveva sottolineato come questa proposizione non fosse un teorema, e nemmeno 
un assioma generale, ma appunto uno di quei postulati che di fatto ci rivelano una proprietà 
inalienabile del nostro spazio. Accanto alla verità analitiche che sono a priori perché sono 
tutte racchiuse nella mera forma delle proposizioni, vi sono giudizi che vorremmo poter 
dimostrare, poiché ci paiono certissimi e dotati di una verità indiscutibile, ma che pure 
sono indimostrabili, poiché sono sintetici, poiché - con l'apoditticità delle proposizioni a 
priori - ci informano sul come della spazialità. 
Come vedremo, per Kant la sfera del sintetico a priori è molto ampia. Tuttavia, è proprio 
dalle proposizioni della geometria e dell'aritmetica che Kant prende le mosse: rispondere 
alla domanda sulla possibilità e sulla natura dei giudizi sintetici a priori significherà allora 
cercare di far luce sulla natura sintetica dei giudizi matematici, di quei giudizi sulla cui 
validità nessuno avanza seriamente dubbi. 
  
Annotazione. La riflessione filosofica tra Ottocento e Novecento si è spesso rivolta criticamente alla nozione kantiana di 
sintetico a priori. Non vi è dubbio tuttavia che anche la discussione kantiana di analiticità sia lungi dall'essere 
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soddisfacente. Per Kant, l'analiticità è una relazione che sussiste tra i contenuti dei concetti: il giudizio "tutti i corpi sono 
estesi" può dirsi analitico perché non possiamo pensare al concetto di corpo senza pensare anche all'estensione. E tuttavia 
non vi è dubbio che questo rimando all'impossibilità di un pensiero del corpo che non sia anche pensiero dell'estensione 
non è affatto una garanzia del fondamento analitico di quel giudizio. Non possiamo pensare un colore senza pensarlo 
esteso,  ma  questa  necessaria  connessione  è  davvero  di  ordine  analitico?  Una  critica  alla  concezione  kantiana 
dell'analiticità è racchiusa nella Wissenschaftslehre di Bolzano e nella terza delle Ricerche logiche di Husserl. 
  
Lezione seconda 
Nella lezione precedente avevamo mostrato come, per Kant, la domanda sulla possibilità 
della metafisica si traducesse nella questione concernente la legittimità dei giudizi sintetici 
a priori, un problema, quest'ultimo, la cui soluzione può essere raggiunta riflettendo 
innanzitutto su giudizi che godono di una indiscutibile verità: i giudizi della matematica. 
Sullo statuto teoretico delle proposizioni matematiche, Kant è estremamente netto, e nelle 
pagine in cui tratta questo problema è difficile cogliere un qualche indizio che ci permetta 
di sostenere che Kant fosse pienamente consapevole della complessità del tema discusso, 
- un tema la cui soluzione gli sembra anzi "facile e insignificante" (Prolegomeni, op. cit., 
p. 34). Dalla sicurezza kantiana non dobbiamo tuttavia lasciarci trarre in inganno: di qui 
la necessità di indugiare un poco sulla tesi secondo la quale i giudizi della geometria e 
dell'aritmetica sono appunto di natura sintetica. 
Kant muove da un esempio divenuto classico: dal presunto giudizio sintetico a priori 
"7+5=12". Questo esempio non può che lasciarci perplessi: quali ragioni ci vietano infatti 
di considerarlo a tutti gli effetti come un giudizio analitico? Le ragioni che Kant allega per 
confermare la sua tesi sono del resto poco convincenti: "7+5=12" sarebbe un giudizio 
sintetico a priori perché - leggiamo - la nozione del predicato ("=12") non è contenuta nel 
concetto del soggetto ("7+5"). In altri termini: per Kant il giudizio in questione non è un 
giudizio analitico perché nella somma di cinque e sette è sì contenuta la rappresentazione 
di un numero, ma non già la rappresentazione del dodici. Scrive Kant: 
se si considera meglio la cosa, si vede che il concetto della somma di sette e cinque non 
contiene nulla di più che l'unione dei due numeri in uno solo, con il che non è ancora 
nient'affatto pensato questo numero unico che li comprende entrambi. Il concetto "dodici" 
non è in nessun modo già implicato nel puro concetto di quell'addizione di sette e cinque, 
ed io posso analizzare finché voglio il concetto di questa somma, ma non vi trovo certo il 
numero "dodici". Si deve a questo fine uscire dai concetti chiamando in aiuto l'intuizione 
che corrisponde ad uno dei due numeri, op. cit., p. es. le proprie cinque dita o (come 
insegna Segner nella sua Aritmetica) cinque punti e così aggiungere successivamente le 
unità  date  nell'intuizione  del  numero  cinque  al  concetto  del  numero  sette.  Con  la 
proposizione 7+5=12 si amplia quindi realmente il concetto del soggetto in quanto si 
aggiunge ad esso un altro concetto che non era implicato dal primo (Prolegomeni, op. cit., 
op. cit., pp. 32-3). 
Non è facile dare un senso preciso a queste affermazioni. Innanzitutto: Kant parla di 
soggetto e di predicato a proposito di un'espressione aritmetica, e ciò è quanto dire che - 
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a suo avviso - la riconduzione delle espressioni dell'aritmetica alle forme proposizionali è 
del  tutto  non  problematica.  Non  solo:  Kant  parla  di  un  predicato  dell'espressione 
"7+5=12", ma non è affatto chiaro se il predicato sia - come sarebbe lecito attendersi - la 
forma "=12" o - come Kant sembra suggerire - il risultato dell'operazione. E non vi è 
dubbio che queste trascuratezze sono già di per se stesse sufficienti per gettare qualche 
ombra sulla validità dell'argomentazione kantiana. 
In ogni caso, comunque stiano le cose, è un fatto che la pretesa sinteticità dei giudizi 
aritmetici, lungi dall'essere banale e scontata come Kant sostiene, sembra essere anzi del 
tutto infondata. Infatti, se cerchiamo di definire il soggetto della proposizione 7+5=12 per 
vedere che cosa sia racchiuso nel suo concetto, credo che tutti ci troveremmo d'accordo 
su queste definizioni: 5=def (1+1+1+1+1) 7=def (1+1+1+1+1+1+1). Avremo allora la 
seguente formula: 
1+1+1+1+1+1+1 + 1+1+1+1+1 = 1+1+1+1+1+1+1+1+1+1+1+1 
e non vi è dubbio che questa sia una proposizione analitica. 
Ma allora, se le cose stanno così, che cosa intende dire Kant nella pagina che abbiamo 
appena citato? 
Kant intende innanzitutto asserire che per condurre in porto un'operazione aritmetica 
siamo costretti a contare: nei meri segni di quantità che ci si danno nell'enunciazione di 
una qualsiasi operazione non è ancora contenuto il risultato cui essa conduce. Nella 
somma di 7 e 5 non è ancora dato il 12, poiché dobbiamo appunto contare perché questo 
risultato ci sia noto. Certo, può darsi che di fronte a somme particolarmente semplici 
l'esperienza del contare si faccia, per così dire, da parte e che il risultato ci sembri 
immediatamente a portata di mano; tuttavia, se non ci facciamo ingannare da questi casi 
limite, è per Kant evidente che la sinteticità del giudizio matematico riposa proprio 
nell'ineludibilità della costruzione intuitiva, nel contare come operazione concreta che ci 
permette di passare da una coppia di numeri ad un'altra. E' solo alla luce di queste 
considerazioni che diviene significativo l'oscuro rimando kantiano all'esemplarità dei 
giudizi sui grandi numeri: 
Ciò si vede ancor più chiaramente quando si tratta di numeri un poco grandi: perché allora 
è di tutta evidenza che, giriamo e volgiamo il nostro concetto come vogliamo, non potremo 
mai per via della semplice analisi di concetti, senza ricorrere all'intuizione, ritrovare la 
somma (Prolegomeni, op. cit., p. 33). 
Se prima eravamo rimasti perplessi di fronte alle affermazioni kantiane, ora lo stupore 
sembra destinato a tradursi in una vera e propria disapprovazione. Dietro a queste strane 
considerazioni sull'esemplarità dei grandi numeri sembra infatti celarsi una grossolana 
confusione tra la natura logica del giudicato e i procedimenti a noi necessari per giudicare. 
Per sapere qual è il risultato di un'addizione come 121134+9288937 posso aver bisogno 
di carta e matita, ma questo non significa certo che carta e matita siano in qualche modo 
concettualmente implicati dalla posizione di quella somma. Non solo: Kant non sembra 
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