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Le origini del totalitarismo
Introduzione di Alberto Martinelli
Con un saggio di Simona Forti
Introduzione
di Alberto Martinelli
1. Attualità dell’opera
A cinquant’anni dall’inizio della seconda guerra mondiale e dalla firma del
patto tra Hitler e Stalin per la spartizione della Polonia, la ristampa del classico
studio di Hannah Arendt sulle origini del totalitarismo appare particolarmente
opportuna. Da un lato, la ripresa del dibattito storiografico sul nazismo nella
Germania occidentale e l’Historikerstreit che ne è scaturito e, dall’altro, la
volontà e la possibilità di molti intellettuali sovietici nell’epoca della glasnost di
Gorbaciov di effettuare una analisi non falsificata della storia sovietica e di
gettar luce sul totalitarismo staliniano, rendono infatti quanto mai attuale l’opera
della Arendt. E il tramonto del conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia
marxista leninista e i difensori del «mondo libero» rendono fortunatamente
improbabili sia gli equivoci, le incomprensioni e le accuse di conservatorismo e
di ambiguità ideologica che sono state rivolte alla Arendt da parte della
«sinistra», sia le strumentalizzazioni filo-americane della sua opera che sono
state effettuate da parte della «destra». Oggi siamo quindi in grado di leggere
quest’opera importante e controversa senza le lenti deformanti dell’ideologia e di
valutare le tesi che essa propone con migliori strumenti critici e con maggiori
dati e informazioni.
In questa introduzione non intendiamo sviluppare un’analisi approfondita del
contributo della Arendt, ma delineare sinteticamente la sua figura intellettuale,
ricostruire gli argomenti di fondo dell’opera, confrontandoli con le altre
principali interpretazioni della sindrome totalitaria e discutere alcune delle tesi
piú importanti e piú controverse del libro come il carattere di assoluta novità del
tipo totalitario di regime politico e la applicabilità di tale definizione concettuale
al nazismo e allo stalinismo.
2. Una apolide della cultura e della politica
Hannah Arendt è una delle figure intellettuali piú significative e complesse
della cultura del ’900. Ebrea, profuga, costretta fino all’età di cinquant’anni a
vivere di collaborazioni editoriali, si definí costantemente come un’apolide, una
sradicata, un pariah, sia della politica che della cultura. Testimone consapevole e
sensibilissima degli eventi e delle tragedie del proprio tempo, si formò nelle
università tedesche della Germania weimariana, studiando filosofia a Marburg
con Martin Heidegger e a Heidelberg con Karl Jaspers, con il quale si laureò
scrivendo una tesi su Der Liebesbegriff bei Augustin e sviluppò una profonda
amicizia testimoniata da un ricco carteggio. Fuggita con la madre dalla
Germania nel 1933 dopo l’avvento al potere di Hitler, si trasferí prima in
Svizzera e poi a Parigi dove sposò in seconde nozze Heinrich Blucher, divenne
intima amica di Walter Benjamin, frequentò Raymond Aron, conobbe Bertold
Brecht e lavorò per l’Agenzia ebraica occupandosi dell’espatrio degli ebrei
tedeschi e austriaci dal Reich. Dopo l’occupazione tedesca della Francia
settentrionale, venne internata in un campo dal governo di Vichy come straniera
sospetta, ma venne rilasciata e riuscí a imbarcarsi con il marito a Marsiglia per
New York. E negli Stati Uniti trascorse la seconda metà della sua vita, scrivendo
opere importanti di filosofia e di teoria politica e analizzando con lucido
coraggio e forte impegno civile i grandi eventi della società americana e della
politica mondiale.
In tutto il suo complesso percorso esistenziale, Hannah Arendt appare come
un intellettuale cosmopolita e apolide, che trova i suoi termini di riferimento in
tre culture, quella tedesca, quella ebraica e quella nord-americana, senza tuttavia
identificarsi pienamente con nessuna di esse; e ancor meno identificandosi con le
nazioni che tali culture esprimono. Nel Carteggio con Jaspers la Arendt parla
molto della Germania, di Israele e degli Stati Uniti, ma con sentimenti
ambivalenti e sempre con grande intuito e lucido disincanto1. La Germania
rappresentava, come ella scrive in una delle sue lettere, «la lingua madre, la
filosofia e la poesia». Ma la Germania non poteva certo costituire il fondamento
di un’identità nazionale, come la Arendt a differenza della maggior parte degli
ebrei tedeschi comprese molto presto, già prima dell’avvento del nazismo, grazie
alla sua conoscenza dell’antisemitismo.
Piú complesso fu il suo rapporto con l’ebraismo e con Israele. La Arendt
dichiarò di «essersi educata con fatica e tormento all’esperienza ebraica» in un
processo di riappropriazione delle proprie origini di natura squisitamente storica
e politica, in piena autonomia dalla religione ebraica che, come ogni religione,
non le diceva assolutamente nulla. La ricerca intorno alla sua appartenenza
all’ebraismo iniziò con lo studio psicologico-letterario sulla vita di Rahel
Varnhagen, l’ebrea tedesca non assimilata amica di Heine (un’opera che, come
scrisse Walter Benjamin, «nuotava vigorosamente contro la corrente dominante
della apologetica ebraica»); continuò poi in forma piú propriamente politica
attraverso la sua collaborazione a diverse organizzazioni sioniste per agevolare
la fuga degli ebrei dal Reich e per raccogliere fondi a favore di un esercito
ebraico che combattesse a fianco degli alleati contro i nazisti; e si sviluppò infine
nel rapporto arduo e sofferto con lo stato di Israele. In una serie di interventi
negli anni dell’immediato dopoguerra, la Arendt sostenne la tesi che la pace in
Medio Oriente e la sopravvivenza di Israele richiedevano la costituzione di uno
stato non confessionale capace di offrire la cittadinanza politica agli arabi.
Queste posizioni e soprattutto la sua determinazione nel cercare la verità e nel
dirla tralasciando ogni calcolo opportunistico delle possibili conseguenze
provocarono sovente critiche, incomprensioni e proteste da parte di Israele e di
larghi settori della comunità ebraica internazionale.
Tipico il suo libro sul processo Eichmann a Gerusalemme, che seguí come
inviato speciale del New Yorker2. Con grande coraggio civile, ma anche con
toni aspri e a volte urtanti, la Arendt denunciò le reticenze circa il fenomeno
tragico del collaborazionismo ebraico e i toni teatrali del processo che
rischiavano di oscurare quello che era a suo parere il punto centrale e cioè la
banalità del male, che non si deve in alcun modo demonizzare o mistificare. La
figura di Eichmann costituisce nella sua atroce normalità l’espressione piú
inquietante del nazismo. Il tipo sociale caratteristico del totalitarismo, piú che
nel demagogo senza scrupoli o nell’avventuriero che si vende al migliore
offerente, è infatti rappresentato dall’individuo atomizzato della società di
massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia in
un’organizzazione che ne annulla il giudizio. Nel totalitarismo questi individui
possono anche divenire gli ingranaggi di una macchina di sterminio. Si tratta di
un’interpretazione impopolare e scomoda per molti: per lo stato israeliano che
voleva fare del processo un processo esemplare, capace di contribuire alla
legittimazione del nuovo stato, per gli stessi superstiti e i parenti e gli amici delle
vittime per i quali la banalizzazione della figura del carnefice rischiava di
rendere ancora piú insensate le loro sofferenze, e per i tedeschi che preferivano
convincersi della eccezionalità del male perpetrato dai nazisti per ridimensionare
le complicità diffuse con il nazismo e che si risentirono per il modo in cui la
Arendt aveva presentato la resistenza tedesca. La Arendt dovette subire per quasi
due anni in Israele, in Germania e negli Stati Uniti, una vera e propria campagna
diffamatoria che la turbò profondamente. La confortò la solidarietà degli amici e
in particolare di Jaspers che definí il suo lavoro su Eichmann «grandioso nella
sostanza, una nuova testimonianza del tuo incondizionato desiderio di verità per
quanto riguarda gli intenti, e nella forma del pensiero, profondo e disperato». Pur
riconciliandosi negli anni successivi con Israele, la Arendt mantenne un
atteggiamento di distacco e di critica nei confronti del nazionalismo ebraico.
Un rapporto meno controverso la Arendt ebbe con gli Stati Uniti. Ma anche in
questo caso il sentimento di gratitudine mai venuto meno per essere stata
sospinta dalla tempesta in un paese multinazionale e aperto agli stranieri, in cui
«la repubblica ha almeno una chance», non le impedí certo di criticare con
intransigenza e tenacia scelte politiche dei governi americani e tendenze di
questa società, dalla caccia alle streghe di McCarthy contro gli intellettuali di
sinistra all’intolleranza razziale, dalla delinquenza giovanile e dal degrado dei
servizi pubblici alla «dissennata, sudicia, inutile guerra in Vietnam» e di
stigmatizzare la fondamentale contraddizione tra libertà politica e schiavitú
sociale che si manifesta nella società americana. Vivissima fu sempre, in
particolare, la sua attenzione a ogni evento o processo che potesse rappresentare
un segnale di tendenza totalitaria e la sua denuncia di ogni pericolo in questa
direzione, perché, come scrisse significativamente, «non abbiamo alcuna voglia
di vedere ancora una volta una repubblica colare a picco».
Come non è facile ascrivere Hannah Arendt a una tradizione culturale
definita, cosí non è agevole definire la sua identità scientifica. La sua produzione
scientifica è ricca e multiforme e comprende penetranti saggi di critica letteraria,
impegnative opere filosofiche e importanti contributi di teoria politica, oltre a
drammatiche riflessioni sulla condizione dell’ebreo, come la biografia di Rahel
Varnhagen, e sulla tragedia dell’olocausto, come Eichmann in Jerusalem. In The
Human Condition la Arendt ricostruisce la degradazione dell’idea greca di
politeia3. In The Life of the Mind si propone di analizzare i presupposti filosofici
del complesso processo storico attraverso il quale è stata distrutta la conquista
piú preziosa della cultura occidentale è cioè la teoria e la pratica della libertà4.
Nel libro sulla rivoluzione si esaminano le grandi rivoluzioni moderne per
mostrare come esse, a cominciare dalla rivoluzione francese, abbiano saputo
distruggere la tirannia ma non costruire la libertà5, e argomenti analoghi
vengono sviluppati in una prospettiva libertaria anche nelle opere sulla violenza
e sulla disobbedienza civile6.
La formazione filosofica di Hannah Arendt con Jaspers e Heidegger al tempo
della nascita dell’esistenzialismo si avverte in tutta la sua opera e il suo intero
itinerario intellettuale è caratterizzato da uno stretto legame con la filosofia. Ma
ella ha sempre ribadito la sua estraneità alla filosofia pura e, come rilevano Lotte
Kohler e Hans Saner nella prefazione all’edizione tedesca del Carteggio tra
Hannah Arendt e Karl Jaspers, alla filosofia in senso stretto ella aveva detto
addio due volte: una volta durante la prima emigrazione, nella sua
collaborazione con le organizzazioni sioniste che aiutavano gli ebrei tedeschi e
austriaci a fuggire dal Reich e poi, negli ultimi anni, «nell’intento di percorrere
in piena consapevolezza il cammino verso la teoria politica»7.
La sua identità piú autentica è quella di teorico della politica. Si accostò alla
teoria politica attraverso un composito itinerario intellettuale cui contribuirono
sia una concezione della filosofia secondo la quale ogni filosofia ha conseguenze
politiche e costituisce una delle premesse della politica e, per contro, la filosofia
ha i suoi fondamenti anche nella vita politica reale, sia l’influenza di Heinrich
Blucher che stimolò i suoi interessi nella direzione di uno studio della storia e
della politica, sia soprattutto il desiderio di comprendere gli eventi grandi e
terribili della storia contemporanea che avevano minacciato di distruggere per
sempre la libertà dell’agire politico nella società totalitaria di massa e di fondare,
come rileva giustamente Alessandro Dal Lago, «una teoria libertaria dell’azione
nell’epoca del conformismo sociale»8.
In questo senso la sua maggiore opera storico-politica, Le origini del
totalitarismo, e la sua principale opera di teoria politica, la Vita activa, svolgono
un ruolo complementare. La prima si propone infatti di analizzare le radici e i
meccanismi di funzionamento dei regimi totalitari considerati come un parto
mostruoso della società di massa. La seconda di rivendicare il primato assoluto
dell’agire politico su tutte le altre attività umane, un agire politico nello spazio
pubblico della polis. Vi è in questa concezione della politica come sfera
privilegiata dell’agire umano in uno spazio pubblico in cui gli uomini possono
entrare in relazione gli uni con gli altri (che si richiama esplicitamente alla polis
greca) una forte critica della nozione moderna di politica, che tende
essenzialmente a ricondurla all’attività amministrativa. E vi è nello stesso tempo
una forte connotazione utopica, nel senso di affermare una nozione dell’agire
politico come espressione diretta della cittadinanza, che trascura i vincoli posti
dal governo di sistemi complessi e interdipendenti quali sono le società
contemporanee. L’idea di politeia della Arendt trova infatti referenti moderni
solo in esperienze circoscritte nel tempo e nello spazio come i consigli operai del
periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, nella rivolta
ungherese del 1956 e, per certi aspetti, nei movimenti studenteschi del 1968. Ma
al di là della sua praticabilità, la sua concezione politica ha valore in quanto
identifica con lucido pessimismo alcuni «mali» della democrazia moderna, e in
primo luogo la costante minaccia alla libertà che deriva dalla riduzione della
politica all’amministrazione dei molti da parte dei pochi, l’ipostatizzazione dello
stato e la perdita di peso dello spazio politico pubblico inteso come luogo
dell’interazione e del discorso tra cittadini liberi ed eguali. È questa
degenerazione della politica che per la Arendt equivale a una depoliticizzazione
del mondo contemporaneo, che ha contribuito all’emergere del totalitarismo,
cioè del tipo di regime politico che è stato reso possibile dall’avvento della
società di massa e che ha portato alle estreme conseguenze alcuni dei suoi mali.
3. Le origini del totalitarismo
Le origini del totalitarismo venne scritto negli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale, nel «primo periodo di relativa calma
dopo decenni di tumulto, confusione e orrore»9. Il manoscritto originale venne
terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. Come
scrive la Arendt nella prefazione alla edizione riveduta del libro nel 1966, «era il
primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo
sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo del politologo, la prima occasione
per cercar di narrare e comprendere quanto era avvenuto… ancora con angoscia
e dolore… ma non piú con un senso di muta indignazione e orrore impotente»10.
Il contributo del libro è duplice: da un lato cerca di ricostruire il processo di
genesi del totalitarismo rivisitando la storia europea recente e in particolare il
periodo che va dagli anni ’80 del secolo scorso alla seconda guerra mondiale e
costruendo uno schema interpretativo incentrato sul declino dello stato
nazionale, l’emancipazione politica della borghesia nell’imperialismo,
l’antisemitismo e lo sviluppo dei movimenti pan-germanici e pan-slavi,
l’avvento della società di massa; dall’altro, analizza la dinamica dei movimenti
totalitari prima e dopo la conquista del potere e costruisce un «tipo ideale» di
regime totalitario, caratterizzato dalla particolare combinazione di ideologia,
terrore e organizzazione del partito unico.
La struttura dell’opera è abbastanza complessa e riflette la complessità delle
cause e delle condizioni che hanno contribuito all’avvento del totalitarismo. Si
articola in tre parti: la prima è dedicata allo studio dell’antisemitismo, in quanto
elemento centrale dell’ideologia del totalitarismo nazista, e del suo rapporto con
il processo di genesi e di trasformazione dello stato nazionale nell’epoca
moderna, e alla analisi della condizione degli ebrei nella società europea
dell’800 e del ’900 con una disamina approfondita dell’Affaire Dreyfus. La
seconda parte concentra l’attenzione sull’età dell’imperialismo (ovvero il
trentennio che va dalla crisi economica internazionale del penultimo decennio
del secolo scorso allo scoppio della prima guerra mondiale), un’epoca
«caratterizzata da una stagnante quiete in Europa e da sviluppi mozzafiato in
Asia e in Africa». Il fatto centrale di quest’epoca è secondo la Arendt
l’emancipazione politica della borghesia che «fino ad allora era stata la prima
classe nella storia a conquistare la preminenza economica senza aspirare al
dominio politico» e il suo crescente e non risolto conflitto con lo stato nazionale
ottocentesco, che si dimostrò struttura inadeguata all’ulteriore espansione
dell’economia capitalistica. Le tendenze imperialistiche della borghesia (o
meglio di una parte di essa) e lo sviluppo dei movimenti pan-germanici e pan-
slavi che accompagnarono l’imperialismo continentale europeo di Prussia e
Russia e che influenzarono profondamente l’ideologia nazista e quella
bolscevica sono anch’esse considerate influenze importanti nel processo di
genesi del totalitarismo, accanto ad altre cause come la disintegrazione dei due
grandi imperi, russo e austroungarico, a seguito della prima guerra mondiale e la
esplosione delle rivendicazioni nazionalistiche delle minoranze etniche. La terza
parte, infine, inizia con una riflessione sulla società di massa, «senza classi»,
quasi a sottolineare il ruolo determinante di questo fattore nel favorire il
radicamento dei movimenti totalitari, sviluppa poi l’analisi di tali movimenti sia
nella fase precedente la conquista del potere sia nella fase in cui essi sono al
potere e conclude con il capitolo dedicato al binomio ideologia-terrore, che
costituisce la caratteristica piú distintiva del totalitarismo.
La tesi centrale della Arendt è che il totalitarismo è una forma politica
radicalmente nuova ed essenzialmente diversa dalle altre forme storicamente
conosciute di regime autoritario e di potere personale come il dispotismo, la
tirannide, la dittatura. Laddove ha conquistato il potere, il totalitarismo ha infatti
distrutto tutte le tradizioni sociali, politiche e giuridiche del paese, creando
istituzioni del tutto nuove. Ha portato alle sue estreme conseguenze le
caratteristiche della società di massa, trasformando le classi sociali in masse di
individui intercambiabili; ha sostituito il sistema dei partiti con un movimento di
massa; non ha solo preteso la subordinazione politica delle persone ma ha invaso
la loro sfera privata; ha trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia; ha
perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio mondiale.