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Leonardo Benevolo
La fine deLLa città
intervista a cura di
francesco erbani
Editori Laterza
© 2011, Gius. Laterza & Figli
Prima edizione 2011
www.laterza.it
Questo libro è stampato
su carta amica delle foreste, certificata
dal Forest Stewardship Council
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa,
Roma-Bari
Finito di stampare
nel gennaio 2011
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-9519-4
Introduzione
Come sarà la città nel futuro? È da questo interrogativo che
prende il via la conversazione con Leonardo Benevolo.
Storico dell’architettura, urbanista, uomo profonda-
mente colto, Benevolo ha attraversato un periodo suffi-
cientemente lungo della vicenda italiana ed europea per
riflettere a ragion veduta sui decenni che ci hanno prece-
duto e per gettare lo sguardo oltre il presente. Alla storia
della città e dell’architettura ha dedicato opere di grande
impianto. Nelle sue pagine la città è l’oggetto sul quale con-
fluiscono diverse discipline, da quelle più propriamente
legate alla struttura fisica a quelle che evidenziano i tessuti
sociali e culturali di un organismo urbano. Ma accanto a
questa attività, la biografia intellettuale di Benevolo scorre
lungo il percorso della pratica di pianificazione. Benevolo
è uno dei grandi protagonisti della stagione urbanistica
che inizia nell’immediato dopoguerra. Ha vissuto la ri-
costruzione del paese, ha condiviso le tensioni politico-
culturali che hanno animato l’urbanistica negli anni e nei
decenni successivi, ha disegnato l’assetto di territori, ha
scritto libri. La sua memoria contiene un repertorio di sto-
rie, di volti, di elaborazioni che pochi altri possono vantare
nel campo specifico dell’architettura e dell’urbanistica, ma
anche al di fuori di questi ambiti.
Da questa conversazione emerge come i due percorsi,
quello dello storico e quello dell’urbanista, non proceda-
v
no parallelamente, bensì si incrocino, influiscano l’uno
sull’altro, arricchendosi continuamente e fornendo reci-
proche occasioni di approfondimenti. Un dato colpisce al
di là dello specifico ambiente dell’architettura: la ricerca
dell’effetto pratico di tutto ciò che si mette a punto in sede
teorica. È un metodo culturale e politico insieme. Serve
come verifica puntuale e come stimolo a produrre nuove
idee. Sembrerebbe una sottolineatura scontata per chi fa il
mestiere dell’architetto e dell’urbanista. Ma scontata non
è se si osservano le abitudini invalse in molti esponenti di
entrambe le discipline.
Nelle parole di Benevolo l’architettura e l’urbanistica
hanno il respiro lungo delle scienze che mettono l’uomo,
da solo e in comunità, al centro delle proprie attenzioni.
Vittorie e sconfitte si accavallano nel racconto delle proprie
esperienze professionali, delle occasioni colte e di quelle
mancate, delle battaglie condotte perché lo scenario fisico
in cui si svolge la vita degli uomini sia il più inclusivo e il
più rispettoso dei contesti ambientali e di ciò che il passato
ha trasmesso di generazione in generazione, il più concre-
tamente realizzabile nelle condizioni date. Ma il filo rosso
del riscontro sociale spicca sia nella narrazione di una storia
lunga sessant’anni, sia nella prassi del disegno urbanistico.
D’accordo con Benevolo, abbiamo deciso di condurre
questa conversazione muovendoci fra due piani: quello
della riflessione sullo stato della città e quello di una bio-
grafia intellettuale e politica. Ci siamo incontrati nella casa
di Cellatica, vicino a Brescia, che Benevolo costruì per sé
e la sua famiglia quando a metà degli anni Settanta lasciò
Roma e l’università. Abbiamo parlato a lungo intorno a
un tavolo tondo nello studio che si affaccia su un grande
giardino, dove spesso abbiamo passeggiato spingendoci
fino al bordo che dà sulla valle.
Il punto di partenza di questa conversazione, si diceva,
è appunto una delle questioni cruciali che da anni è davanti
agli occhi tanto degli studiosi quanto di coloro che la città
la vivono, la abitano, la usano. Il quesito iniziale, quello ap-
vi
punto su che cos’è oggi la città, che cosa sarà la città nel fu-
turo, come si è arrivati alla condizione attuale, parte da una
considerazione. Noi eravamo abituati ad attribuire alla città
alcune caratteristiche, la prima delle quali è che una città ha
una forma più o meno definita, che si modifica nel corso del
tempo, si allarga, ma è comunque riconoscibile e contiene
gli elementi che la differenziano dalla non-città, dal ter-
ritorio inedificato o molto parzialmente edificato. Questa
osservazione poteva valere, grosso modo, fino ad alcuni de-
cenni fa. Non moltissimi, forse due o tre (almeno in Italia,
in altri paesi europei ancora di più). Da allora ha comincia-
to a valere sempre meno. La città è uscita dai suoi confini e
ha invaso il territorio circostante. Che ora, pur non avendo
acquisito caratteri di urbanità, non è più nettamente di-
stinto dalla città. Ciò avviene prevalentemente nel mondo
occidentale, mentre in Africa, Sudamerica e Asia ai bordi
delle città si formano immensi agglomerati spontanei, im-
pressionanti baraccopoli che ospitano milioni di persone.
Queste trasformazioni che alterano profondamente la
fisionomia della città accadono proprio mentre l’urbane-
simo raggiunge un traguardo secolare: più di metà degli
abitanti del pianeta vive, dall’inizio del terzo millennio, in
un contesto che l’organismo delle Nazioni Unite incarica-
to di studiare la demografia planetaria definisce urbano o
non rurale. La città, insomma, cambia, non si sa che cosa
sarà proprio nel momento in cui diventa il luogo di vita
della maggioranza degli abitanti del pianeta.
Su tutto ciò l’urbanistica, ma anche la sociologia, l’eco-
nomia e, con i suoi mezzi, persino la letteratura riflettono
ampiamente. Benevolo aggiunge il suo contributo di sto-
rico e di pianificatore, raccordando le discussioni di oggi
con il passato e le esperienze vissute. Il piano regolatore di
Roma, chiuso all’inizio degli anni Sessanta, il dibattito sulla
legge che regolamentava il regime dei suoli (la legge Sullo,
mai varata), gli sforzi per dare all’Italia una serie di norme
che governassero il territorio almeno simili a quelle vigenti
in tutta Europa, l’anomalia che invece il nostro paese ha
vii
custodito come una gelosa conseguenza di scelte econo-
miche e politiche, i casi esemplari di buona urbanistica (la
«sua» Brescia, per esempio), la distruzione sistematica dei
paesaggi: questi e tanti altri racconti, come pure il giudizio
su molti protagonisti della scena architettonica contempo-
ranea e sullo smarrimento di alcune delle ragioni fondative
del mestiere, sono l’altro piano sul quale si è orientata la
nostra conversazione. I due piani sono in stretta relazione
fra loro. Dall’uno si passa all’altro e viceversa.
È difficile in un’introduzione tirare rapidamente le
somme di una conversazione molto articolata (e qui corre
l’obbligo al curatore di confessare la propria intrusione
in un campo disciplinare di cui non possiede gli strumen-
ti e che osserva con attenzione di cronista). Ma forse un
punto, non certo di sintesi, può essere sottolineato. Ed è
l’attitudine di Benevolo, già segnalata, a portare ad effetto
il risultato delle elaborazioni culturali e politiche, a non
fare «letteratura urbanistica». La sua storia di urbanista
deposita questo insegnamento, che è di merito e di meto-
do. La pianificazione urbana e territoriale mette le mani
nella vita delle persone, ne organizza il quotidiano e cerca
di interpretarne le speranze. Misura gli interessi in campo.
Valuta le condizioni politiche. Agli occhi di chi ha raccolto
e sistemato il suo racconto – occhi di profano, occorre
ribadire – sembra che Benevolo abbia voluto interpretare
questo ruolo evitando a ogni costo di indossare sia l’abito
del demiurgo, invaghito delle proprie idee, sia quello del
tecnico, succube di un pragmatismo spiccio. Mi pare di
capire che in ogni circostanza abbia messo in opera gli
strumenti della lettura, dell’interpretazione e della critica.
Ma sempre guidato dal desiderio di individuare, con fatica
e costanza, il proteiforme eppur concretissimo interesse
generale, al quale subordinare, non schiacciandoli, ma te-
nendoli a bada, quelli privati. E convinto che alle doman-
de delle persone bisogna dare risposte che le affezionino
al disegno complessivo previsto per il luogo in cui si svolge
la loro vita e le rendano partecipi delle scelte.
viii
Il profilo di urbanista che esce dalle pagine che seguo-
no, pur nella crisi che investe questa figura professionale,
sembra il più adatto a fronteggiare la sfida di una città che
sta cambiando pelle, di cui è incerta la fisionomia futura
e le cui trasformazioni non possono essere lasciate né al
mercato né al caso. In tempi di glaciazione intellettuale
e di una politica che miseramente annaspa, è un insegna-
mento pieno di speranza.
F.E.