Table Of ContentAndrea Sormano
Immagini, parole, voci
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Indice
Premessa. Un percorso di ricerca
1. Cosa vogliono le immagini? Un gioco autoriflessivo
2. Spettri, mostri, idoli in Max Weber
2.1. Un amico non è un elefante
2.2. La “spettralità” dei concetti collettivi
2.3. Il “così” e il possibile – idealtipico – “altrimenti”.
2.4. Un mostro: il “maestro-capo”
2.5. Un idolo: la “personalità”
3. Spectra fotografici. Segno e senso, studium e punctum, giudizio e pregiudizio
4. Corpi in gioco e fuori gioco nella comunicazione senza corpo
5. Simbolico e diabolico nella comunicazione senza faccia
6. Spremuta o cioccolatino? Personalità e persone nel conflitto faccia a faccia
6.1. I prodromi del conflitto
6..2. L’esplosione
6..3. La (comune) sconfitta
6..4. La (provvisoria) interruzione
7. Voci dal sen fuggite. Combattimenti per un’immagine
8. Leopoli o Cracovia? Persone di parola, padroni della parola
9. I dolori del giovane Holden
9.1. Holden Caulfield: un giovane in cerca di normalità.
9.2. Uno che non ti sta (quasi) mai a sentire: il professor Spencer.
9.3. Un “duro” e un “bello”: Robert Ackley e Ward Stradlater
9.4. Una “ballerina di prima forza”: Bernice
9.5. Il “miglior professore” di Holden: il professor Antolini
9.6. Presenza e mancanza nel racconto
Conclusioni. Il gioco, la guerra, il gioco della guerra
Bibliografia
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Premessa. Un percorso di ricerca
L’oggetto del percorso di ricerca che, a partire dal gioco autoriflessivo recentemente proposto da
uno dei promotori della iconic turn, W. J. T. Mitchell, presenterò in queste note è costituito dal
senso dell’agire, quale si realizza mediante la parola in vari contesti della comunicazione umana, e
quale si esprime nei motivi dell’attore sociale – assunti, con Mills (1940) come vocabolari tipici -
che testualmente lo documentano. In questa prospettiva mi occuperò di tre coppie concettuali,
costituite da parole e immagini, finzioni e fantasmi, persone e personalità, che assumerò come tre
criteri, distinti ma inseparabili, di lettura di tali testi. Quanto alla relazione interna fra i termini delle
tre coppie, assumerò la prima come necessaria: non si danno parole senza immagini. Assumerò per
contro la seconda e la terza come relazioni di reciproca esclusione: laddove siano presenti i fantasmi
e le personalità, le finzioni e le persone saranno, propriamente, fuori gioco. Nel ricorso al modello
del gioco sta la cifra grammaticale del criterio di lettura adottato: un criterio la cui potenzialità
terapeutica, in senso wittgensteiniano e, ante-litteram, weberiano, consiste nell’associare alle
differenti pratiche del suo essere in gioco o fuori gioco i differenti stati, di benessere o malessere, di
quell’essere culturale che, a partire da Weber, è l’attore sociale.
1. Cosa vogliono le immagini? Un gioco autoriflessivo
What Do Pictures Want? è la domanda, volutamente “bizzarra”, che compare nel titolo di un
recente saggio di W. J. T. Mitchell, professore di Letteratura inglese e Storia dell’arte all’Università
di Chicago, uno degli artefici della iconic o pictorial turn, l’etichetta che, a partire dai primi anni 90
del secolo scorso, identifica un ampio dibattito internazionale sviluppatosi, ai confini tra riflessione
filosofica e metodologia della storia dell’arte, teoria dei media e studi culturali, sull’interrogativo
“che cos'è immagine?”. Senza rispettare l’ordine dell’argomentazione di Mitchell, alla quale rinvio
(Mitchell 2005), mi limiterò qui a presentare schematicamente il “gioco” che il saggio propone di
giocare, in risposta a quella domanda, la sua premessa e la sua posta.
Il gioco che Mitchell propone di giocare è un gioco molto particolare: il gioco del domandarsi
“Cosa vogliono le immagini?”. Condizione per giocarlo è ricorrere ad una “finzione”: che le
immagini non siano oggetti inerti del nostro sguardo o semplici strumenti di potere, ma siano
soggetti animati, dotati di personalità e desideri. Anziché chiederci che cosa le immagini
“significano” o che cosa “fanno”, Mitchell ci invita a chiederci che cosa “vogliono”. E’ un
interrogativo che non implica l’abbandono delle questioni legate all’interpretazione e alla retorica,
ma che si propone di indagare in un’ottica nuova “la questione del significato e del potere delle
immagini” (Ibid., 100). Mitchell è ben consapevole che non limitarsi a guardare alle immagini come
“veicoli di significato o strumenti di potere”, ma interrogarsi anche su che cosa esse vogliano,
assumendole finzionalmente come entità “animate”, sia una “domanda bizzarra e forse persino
improponibile” che può giocare ambiguamente con un atteggiamento “regressivo e superstizioso”
nei confronti delle immagini”, tale da condurre a pratiche quali “il totemismo, il feticismo,
l’idolatria e l’animismo”. Noi tutti siamo peraltro attaccati ai nostri “atteggiamenti magici
premoderni” verso gli oggetti e le immagini in particolare, argomenta Mitchell, e la cosa più
opportuna che possiamo fare, suggerisce, non è sforzarci di superarli, quanto piuttosto cercare di
“capirli”. Tutti sappiamo che una fotografia di nostra madre non è una cosa viva, ma saremmo
disposti a “sfigurarla o a distruggerla” senza “riluttanza”? (Ibid., 103).
La premessa della proposta di questo gioco è che il “campo sociale del visuale”, costituito dai
“quotidiani processi del guardare gli altri e dell’essere guardati”, non sia soltanto “un effetto
secondario della realtà sociale” ma la costituisca attivamente. La “visione”, argomenta Mitchell, è
importante tanto quanto il linguaggio nel mediare le relazioni sociali, e non è riducibile al
linguaggio, al “segno” o al discorso”. (Ibid., 119).
Quanto alla posta del gioco proposto, è l’apertura di una prospettiva autoriflessiva: giocare il
gioco del “Che cosa vogliono le immagini?” può rivelarsi un utile “esperimento mentale”,
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necessario a ricondurre le immagini nell’economia autoriflessiva del “senso”. La posta non è
personificare le immagini – quella è la mossa finzionale iniziale - ma “mettere in questione la nostra
relazione” con esse, “facendo della relazione tra l’immagine e colui che la guarda il campo di
indagine” (Ibid. 121). Giocare questo gioco è anche un modo per moderare il “discorso retorico” sul
“potere delle immagini”: certamente le immagini non sono prive di potere, ma potrebbero averne
“molto meno di quanto pensiamo”, e il problema è rendere “più complessa e raffinata la nostra
valutazione del loro potere e del modo in cui esso opera” (Ibid., 105).
Che cosa vogliono, dunque, le immagini? Quello che le immagini vogliono, è la risposta di
Mitchell,
non è essere interrogate, decodificate, adorate, distrutte, smascherate o criticate dagli spettatori: non
vogliono nemmeno affascinarli. (…) Alla fine ciò che le immagini desiderano (…) è semplicemente che si
chieda loro che cosa vogliono, con la consapevolezza che la risposta potrebbe benissimo essere che non
vogliono proprio nulla. (Ibid. 120)
La proposta di Mitchell, per come io l’ho intesa e la userò in queste note, mi pare sia innanzitutto
un’importante estensione del campo dell’autoriflessività e della sua natura intrinsecamente
relazionale. Sottrarre le immagini – ogni sorta di immagine - all’immagine che le rappresenta come
unilaterali “veicoli di significato” o semplici “strumenti di potere” assegnando loro una soggettività
finzionale vuol dire entrare con loro in comunicazione. In termini più generali, e con la sociologia
della conoscenza millsiana prima che con i più recenti sviluppi della “dialogical self theory”
elaborata in psicologia (Hermans 1996, 2006), ciò vuol dire applicare al pensiero il modello della
conversazione e sperimentare in tal modo il pensiero individuale come un interplay of meaning, un
gioco interattivo di significati tra un ego e un alter in cui alter, “sezione finita” dell’Altro
generalizzato meadiano, orienta diversamente il pensiero a seconda che sia “ciò con cui o contro di
cui colui che pensa svolge la sua interna conversazione.” (Mills 1939, 216)
Tale proposta, in quanto incentrata su una finzione, mi pare in secondo luogo possa contribuire ad
identificare le immagini che, nell’economia autoriflessiva di questo stesso gioco, alle finzioni si
oppongono, e che qui definirò fantasmi. Anche i fantasmi sono un prodotto della nostra
immaginazione ma, a differenza delle finzioni, non li riconosciamo come tali. E non li riconosciamo
come tali, possiamo precisare con Mitchell, proprio perché sono immagini con le quali non
stabiliamo una relazione autoriflessiva di comunicazione finzionale: giunte che siano, non
chiediamo loro che cosa vogliano. E proprio perché non rivolgiamo loro tale domanda, possiamo
aggiungere restando sullo stesso registro finzionale, le immagini si vendicano, diventano fantasmi
persecutori, e tali vogliono rimanere: indipendenti dal loro artefice, gelosi depositari di un potere
inindagato. Un potere che è il nostro silenzio stesso a fondare.
Se con le finzioni si può sempre giocare – sono condizione d’esistenza d’ogni gioco -, dai
fantasmi si è sempre giocati. E’ una finzione a trasformare in avversario di gioco quel fantasma che
è il nemico di guerra, quale che sia la guerra, se combattuta con i cannoni o con quelle pietre che in
ogni comunicazione conflittuale sono le parole. E’ la finzione che in J. Searle (1994) assume la
forma di una regola, la regola della simbolizzazione/istituzionalizzazione: X (fatto bruto) conta
come Y (simbolo, istituzione) in C (contesto). E’ attraverso questa regola che quel fatto bruto che è
il nemico viene trasformato in quel simbolo che è l’avversario, nel contesto di un qualsivoglia
gioco. E’ questa stessa regola-finzione ad operare nella nascita dell’attore – persona in senso
sociologico, linguistico, drammaturgico - nell’hic et nunc, temporale e contestuale, delle sue
pratiche: Mario Rossi (identità anagrafica) conta come Studente (identità pragmatica) prendendo
appunti in C (aula universitaria). E’ l’identità che muta continuamente, nel corso di una qualsiasi
giornata, e che non muta a caso ma sempre in base al criterio costituito da quella regola. Ed è
precisamente a questa identità tòpica della persona – ipse - ad opporsi concettualmente e nelle
pratiche quotidiane, nei termini che vedremo, l’identità utopica della personalità: un idem che non
si sovrappone fantasmaticamente all’ipse, annullandolo, solo quando sia messo finzionalmente -
narrativamente - in gioco a titolo di personaggio.
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La proposta di Mitchell, in terzo luogo, mi pare vada accolta quale utile strumento di indagine
anche da chi, sociologo, ponga al centro della propria osservazione il senso dell’agire di
quell’essere culturale che, a partire da Weber, è l’attore sociale. L’analisi testuale dei motivi in cui il
senso individuale dell’agire si esprime in maniera pubblicamente intelligibile mette il sociologo a
diretto e costante contatto con le parole dell’attore sociale – basti pensare alle ricerche condotte
mediante intervista – ma, con quelle, l’analista del senso dell’agire entra anche sempre in contatto
con la varietà delle immagini che sempre si intrecciano alle parole – e alle voci - nel mediare le
relazioni sociali e nel conferire senso al mondo.
La proposta di Mitchell infine, e in relazione alle considerazioni appena suggerite, può essere una
buona occasione per ripensare alle origini stesse della sociologia del senso dell’agire e alla sua
vocazione formativa: segnalare a chiunque l’adotti la via da seguire per identificare e dissolvere i
fantasmi – gli “spettri” – che, quando siano presenti nei motivi del proprio agire, ne limitano le
possibilità e la volontà.
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2. Spettri, mostri, idoli in Max Weber
E’ la sociologia interessata alle finzioni e ai fantasmi? Lo è per suo statuto, possiamo rispondere,
se la sociologia è quella di Max Weber, se assumiamo come fantasmi quegli “spettri” che per Weber
sono i “concetti collettivi indifferenziati” e se assumiamo come finzioni i “tipi ideali” che, operanti
al centro dell’individualismo metodologico weberiano, tali fantasmi si incaricano di identificare e
dissolvere e, con quelli, si incaricano anche di identificare e dissolvere una varietà di altre immagini
persecutorie, quali mostri ed idoli.
Nei concetti collettivi indifferenziati Weber vede operare un “gioco degli spettri” la cui presenza
nel linguaggio della scienza rappresenta il fondamentale ostacolo al costituirsi della sociologia
come scienza della cultura: scienza non “di leggi” ma “di realtà”, non scienza “della società”, bensì
scienza di quella realtà intrinsecamente relazionale che è il senso culturale dell’agire sociale1. E’ al
fine di identificare e dissolvere tali fantasmi che Weber attrezza la sociologia di un metodo
“individualistico” al cui centro compaiano i “tipi ideali”: misuratori finzionali delle reali possibilità
dell’agire, quali si aprono quando siano identificati i fantasmi della necessità. Nell’identificare e
dissolvere fantasmi, infine, si precisa la vocazione formativa, riflessiva ed autoriflessiva, della
sociologia weberiana: insegnare, a chiunque la faccia propria, non “ciò che egli deve, ma soltanto
ciò che egli può e – in determinate circostanze – ciò che egli vuole.” (Weber 1904, 61)
2.1. Un amico non è un elefante
Se la parola “elefante” e la parola “amico”, argomenta Weber in Knies e il problema
dell'irrazionalità, non possono essere definite allo stesso modo, ciò non è dovuto all'intervento di
una qualche variabile psicologica, ma ad una differenza interna al “carattere logico dei concetti”,
ossia al fatto che il primo, l’elefante, “è un concetto di cosa”, mentre il secondo, l’amico, “esprime
un concetto di relazione.” (Weber 1905, 92) Disgiunto da quella relazione – ontologizzato in tal
senso – un amico diventa un elefante: un fantasma ingombrante.
Con Max Weber, è stato osservato, il lungo percorso dello storicismo si conclude all'insegna della
“fine dell'ontologia” (Tessitore 1996, 200). Ciò che finisce con Weber non è la storia ma “l'idea
della storia come realtà ontologicamente esistente indipendentemente dalle esigenze e dagli
interessi degli individui” (Ibid., 206); non finisce il progredire della storia ma la “necessaria
linearità” che le attribuiscono sia l'“ideologia positivistica del progresso”, sia la “metafisica
spiritualistica dell'idealismo”. (Ibid., 204). La storia diventa, con Weber, una “possibilità”, il
risultato delle “decisioni” o delle “prese di posizione” assunte da ciascun individuo storico
all'interno della “lotta mortale senza possibilità di conciliazione” costituente il “politeismo dei
valori” in cui la scelta anti-ontologica weberiana coerentemente si esprime e a cui la “scienza
empirica della cultura” weberiana conseguentemente introduce. Con Max Weber il vecchio
storicismo muore, ma un nuovo storicismo si affaccia, “in sintonia con il cammino della filosofia
novecentesca verso il concreto” e con la “rivoluzione gnoseologica” che tale cammino comporta.
(Ibid., 208).
In queste note segnalerò alcune fra le traiettorie della deontologizzazione – de-mostrificazione -
weberiana, quelle che più direttamente riguardano le condizioni d’esistenza della sociologia quale
scienza di quel “concreto” costituito dalla testualità dei motivi in cui si esprime, sempre all’interno
di un qualche contesto – sistema, organizzazione, gioco - il senso dell’agire. Quanto alle relazioni
con la filosofia novecentesca, mi limiterò qui a segnalare soltanto di sfuggita le relazioni che a me
1 W.Hennis, nel segnalare l’insistenza e la puntigliosità di Weber nel precisare che cosa “la sociologia interpretativa”
non voleva essere, l’associa a “tutto ciò che invece la sociologia odierna vuole essere, ossia scienza della società”.
Oggetto della sociologia weberiana, precisa, non è la società ma unicamente “l’agire sociale” dell’individuo, inclusi “i
sentimenti” rilevanti ai fini di tale agire; suo oggetto, nonostante i cambiamenti di etichetta – “scienza della cultura”
prima, “sociologia” poi – restano i “problemi culturali” dell’uomo, “i problemi che nascono dall’inserimento dell’uomo
in costellazioni sociali, le quali formano l’uomo, investono le sue capacità, liberandole oppure deformandole fino alla
possibile “parcellizzazione dell’anima”.” (Hennis 1987, 80-81)
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pare intercorrano, assai strette, tra la sociologia weberiana e la grammatica filosofica
wittgensteiniana, avendo in altri lavori dedicato una più meditata riflessione sulle ragioni che
consentono di considerare un’utile opportunità quella di attribuire alla sociologia weberiana i
caratteri di una “grammatica del senso”. (Sormano 2000, 2003b, 2004a)
Scienza non del dover essere ma del poter essere, educazione della volontà mediante
identificazione delle reali possibilità d’azione, la sociologia weberiana, in maniera non dissimile
dalla filosofia wittgensteiniana, può essere assunta come una “terapia” dei molti mali culturali –
delle molte “mitologie”, con Wittgenstein2 – che affliggono quell’essere culturale che in Weber è
l’attore sociale3. Mali che, ridotti all’osso, corrispondono alla presenza, nei vocabolari culturali
dell’attore, di rappresentazioni ontologiche di realtà relazionali: rappresentazioni la cui presenza
oscura il senso relazionale dell’agire e le relative possibilità.
2.2. La “spettralità” dei concetti collettivi
E veniamo ai fantasmi weberiani, alla “spettralità” dei concetti collettivi indifferenziati. In una
delle sue ultime lettere Weber confida ad un amico, nei seguenti termini, la ragione della sua
professione:
Se ora sono diventato sociologo (stando alla lettera del mio decreto di nomina), ciò è avvenuto
essenzialmente per porre fine a quel gioco degli spettri che continua ad operare con concetti collettivi. In
altre parole, anche la sociologia può essere praticata soltanto prendendo le mosse dall'agire di uno o più,
pochi o molti, individui, cioè deve procedere con un metodo strettamente “individualistico”. (cit. in Cavalli
1981, 36, e in Zingerle 1988, 61).
Gli stessi spettri compaiono, nei seguenti termini, in uno dei primi saggi “metodologici”
weberiani:
L'uso di concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il linguaggio quotidiano, è sempre il rivestimento
di oscurità del pensiero o della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di ingannevoli raggiri – in ogni
caso è però un mezzo per ostacolare lo sviluppo di una corretta impostazione problematica. (Weber 1904,
34).
Un'impostazione problematica è metodologicamente corretta, secondo Weber, quando sia in grado
di identificare, nel linguaggio quotidiano come in quello della scienza, le ontologizzazioni –
ipostatizzazioni, essenzializzazioni, oggettivizzazioni – proprie dei “concetti collettivi
indifferenziati”, consistenti in “formazioni concettuali di carattere collettivo, proprie di altre forme
di considerazione”, preciserà Weber nel capitolo di Economia e Società dedicato ai “concetti
sociologici fondamentali”, quali “stato”, “nazione”, “società per azioni”, “famiglia”, “corpo
d’esercito”, e così via. Con tali concetti o con concetti del tutto simili, diffusi nel linguaggio
giuridico come in quello comune, anche la sociologia è spesso “costretta a lavorare”, per costruirsi
“una terminologia intelligibile”; ma ad essi la sociologia attribuisce “un senso completamente
diverso” in quanto non riconosce nessuna personalità collettiva “agente”. Quando la sociologia usa
tali concetti, argomenta Weber, vuole piuttosto con ciò indicare “esclusivamente un determinato
processo di un agire sociale effettivo – o costruito come possibile”. Per differenti scopi conoscitivi
(ad esempio giuridici) o per fini pratici, può essere opportuno o inevitabile, considerare tali
2 “Nel nostro linguaggio”, scrive Wittgenstein, “è depositata un’intera mitologia” (Wittgenstein 1969b, 83). Un esempio
di mitologia, tra i moltissimi immediatamente traducibili in termini weberiani, è trasformare nell'attributo di una cosa
l'esito di un nostro processo d'attribuzione: “Si potrebbe dire che «ogni prospettiva ha il suo fascino», ma ciò sarebbe
sbagliato. È invece corretto dire che ogni prospettiva è significante per colui il quale la vede significante (questo però
non vuol dire che la veda diversamente da com'è)”. (Wittgenstein 1967a, 32).
3 La sociologia, per Weber, è una “igiene mentale” (Ferrarotti, 1982), è un “esercizio di auto-comprensione” (Albrow
1990), fornisce una “nuova comprensione dell'uomo, cioè un'antropologia finalmente all'altezza delle ambivalenze del
tempo in cui viviamo”. (Bianco 1997, 55).
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formazioni concettuali come “individui particolari”, portatori di diritti o di doveri, o come “soggetti
di azioni giuridicamente rilevanti”. Ma per l’interpretazione intelligibile dell’agire, a cui la
sociologia aspira,
queste formazioni sono invece semplicemente processi e connessioni dell’agire specifico di singoli uomini,
poiché questi soltanto costituiscono per noi il sostegno intelligibile di un agire orientato in base al senso
(Weber 1920, 12-13)
Differenziare tali formazioni indifferenziate vuol dire innanzitutto trasformare in relazionale il
loro statuto ontologico, ossia introdurre il senso che orienta l’agire dell’attore al loro interno, e che
conferisce loro vitalità sociale. E’ l’intervento del senso individuale dell’attore a conferire vitalità
reale a queste formazioni, sottraendole alla loro immaginaria spettralità. E può trattarsi
dell’intervento “di uno o più, pochi o molti individui”, nei termini sopra segnalati, giacché
l’individualismo weberiano, in quanto “metodologico”, non è una “valutazione individualistica”
della realtà, ma non si riferisce neppure all'individuo empirico quale “atomo” della società: si
riferisce piuttosto all'unità culturale di analisi del senso dell’agire, costituita dai “motivi” in cui
l’agire si manifesta in forma pubblicamente intelligibile, e con ciò non costringe a indebite
“penetrazioni simpatetiche”. E’ al fine di identificare tale unità che Weber distingue i due tipi
dell’intendere, l’intendere “immediato” e l’intendere “esplicativo” o “in base ad una motivazione”:
intendiamo attualmente il senso della proposizione “2 x 2 = 4” quando la sentiamo o la leggiamo (…)
“intendiamo” in base ad una motivazione quale senso attribuisca all’aver compiuto un atto del genere proprio
adesso, e in questa connessione, colui che ha pronunciato o scritto la proposizione “2 x 2 = 4”, quando lo
vediamo occupato in un calcolo commerciale, in una dimostrazione scientifica, in una misurazione tecnica o
in un’altra azione nel cui ambito “si inserisce” questa proposizione, secondo il suo senso a noi comprensibile
(…) (Ibid., 6)
E’ questa una distinzione che possiamo molto facilmente tradurre e aggiornare, senza nulla
perdere della sua pregnanza originaria ma segnalandone semmai la perdurante vitalità e l’estesa
comunicabilità, con la distinzione che Benveniste stabilisce fra i due tipi di significanza della
lingua, il semiotico e il semantico. In Sémiologie de la langue (1969a) Benveniste definisce la
lingua come l’unico modello caratterizzato dalla combinazione di due tipi distinti di significanza, il
“semiotico” e il “semantico”. Il primo designa il modo di significanza che è proprio del segno
linguistico, unità della lingua la cui “esistenza” deve essere semplicemente “riconosciuta” con un sì
o con un no: “albero” e “canzone” esistono? Si. Olbero e vanzone? No. Il segno esiste quando “è
riconosciuto come significante dall’insieme dei membri della comunità linguistica, ed evoca in
ciascuno, all’incirca, le stesse associazioni e le stesse opposizioni”. Tale è il dominio e il criterio del
semiotico. Col “semantico”, prosegue Benveniste, entriamo per contro nell’ordine specifico di
significanza che è generato dal “discorso”, entriamo “nel mondo dell’enunciazione e nell’universo
del discorso”, e i problemi che si pongono qui sono “funzione della lingua come produttrice di
messaggi”. Il messaggio non si riduce ad una successione di unità da identificare separatamente, il
senso non è prodotto da un’addizione di segni ma è al contrario il senso, concepito globalmente, che
si realizza e si divide in “segni” particolari, che sono le “parole”. Che si tratti di “due ordini distinti
di nozioni e di due universi concettuali” è anche confermato dai diversi criteri di validità richiesti
dai due modi di significazione: “il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto; il semantico (il
discorso) deve essere compreso”. Il privilegio della lingua rispetto agli altri sistemi significanti è di
comportare “allo stesso tempo” la significanza dei segni e quella dell’enunciazione, e da ciò
discende il suo “maggior potere”, quello di creare un “secondo livello di enunciazione” dove
diventa possibile “tenere discorsi significativi sulla significanza”. (Benveniste 1974, 80-81)
Tornando alla distinzione weberiana fra i due tipi dell’intendere possiamo dire, in termini generali,
che i concetti collettivi indifferenziati sono e restano oggetti semiotici di osservazione – semplici
segni, riconoscibili mediante il loro significato convenzionale – fino a quando, con il discorso
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dell’attore, non intervenga un qualche possibile senso a renderli oggetti semantici di comprensione
individuale. Riconosciamo la proposizione “2 x 2 = 4”, quando la sentiamo o la leggiamo, quale
segno del sistema matematico, e non disponendo d’altro dobbiamo fermarci lì, al significato che
quel segno ha per noi osservatori (di primo grado). Possiamo anche comprendere il senso di quel
segno per chi lo sta usando (come osservatori di secondo grado: scienziati sociali), soltanto
disponendo di una unità processuale di osservazione costituita dal co-testo e dal contesto della sua
occorrenza: dall’insieme del testo (discorso) di cui è parte e dall’identità del contesto istituzionale
entro cui quel testo è prodotto. Testi e contesti procedono in Weber di pari passo, proprio come di
pari passo procedono, in Wittgenstein, i significati delle parole e i contesti del loro uso, gli
“innumerevoli” giochi linguistici che quotidianamente giochiamo4.
2.3. Il “così” e il possibile – idealtipico – “altrimenti”
Identificato il senso individuale dell’agire quale componente essenziale della de-ontologizzazione
delle formazioni collettive al cui interno ogni agire si realizza – attore e sistema procedono, in
Weber, di pari passo – il passo metodologico successivo è conferire all’agire – a qualsivoglia tipo di
agire in quanto tale, distinto dal comportamento “meramente reattivo”, non “motivato”, non
culturalmente mediato – lo statuto storico culturale della possibilità. Ed è a questo proposito che
interviene quell’“utopia” - quella finzione - che è il “tipo ideale”. Il tipo ideale (o tipo puro), scrive
Weber
è ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione
di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e
talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro
concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato
empiricamente nella realtà; esso è una utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni
caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale. (Weber 1904, 108)
Nella sua purezza utopica il tipo ideale weberiano è lo strumento necessario a Weber per costruire
la sociologia come scienza del possibile e per descrivere logicamente – grammaticalmente - ogni
possibilità in relazione ai suoi possibili – idealtipici - “altrimenti”. In tanto l’agire può essere
oggetto di una scienza sociale in quanto sia l’espressione di una possibilità, innanzitutto, e non di
una necessità, sia cioè l’espressione di un motivo e non l’effetto di una causa 5. E’ quando una
qualche possibilità non si dia che siamo a fronte non della cultura ma della natura.6
Se inavvertitamente poso la mano su una piastra incandescente io, come chiunque, mi ustiono: la
mia ustione non è “motivata”, non interessa al sociologo, interessato semmai al senso della mia
sbadataggine. Il calore è la causa della mia ustione, fra me e il calore non si dà alcuna mediazione
culturale, alcuna regola, ad entrare necessariamente in azione è soltanto una legge termica. Stessa
considerazione se taglio una cipolla, come insegna Louis Malle nelle prime scene di Milou a
4 “Quando i filosofi usano una parola – “sapere”, “essere”, “oggetto”, “io”, “proposizione”, “nome” – e tentano di
cogliere l’essenza della cosa, ci si deve sempre chiedere: Questa parola viene effettivamente usata così nel linguaggio,
nel quale ha la sua patria? Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano.”
(Wittgenstein 1953, § 116) Quelle parole, diremo con Weber, sono “concetti collettivi” senza senso individuale fino a
quando non ne osserviamo l’impiego quotidiano.
5 Così Marianne Weber, nella monumentale biografia dedicata al marito, associa la categoria della “possibilità” alla
vitalizzazione di quelle immagini che in queste note identifico nei fantasmi: “Se la “possibilità”, qualcosa che nell’uso
quotidiano appare fuggevole, acquista qui [nell’opera di Weber] il rango di categoria per comprendere logicamente ciò
che è comune a tutto l’agire sociale, allora è davvero – per dirla con Weber – come se delle fredde mani di uno scheletro
toccassero il calore della vita” (Weber 1926, 774).
6 “Un evento diviene «natura» se in esso non siamo in grado di reperire alcun «senso». Quindi, l'antitesi della «natura»
intesa come «ciò che è privo di senso», non è evidentemente la «vita sociale» (come la intende Stammler) bensì appunto
«ciò che è dotato di senso», ossia di quel «senso» che può essere attribuito ad un evento o a un oggetto e che può essere
«reperito in esso» (dal «senso» metafisico dell'intero universo nel quadro di una dogmatica religiosa fino al «senso» che
«ha» per Robinson l'abbaiare di uno dei suoi cani all'avvicinamento di un lupo).” (Weber 1907, 452).
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maggio: mi escono le lacrime dagli occhi, e quale effetto di quella causa dirò, propriamente, che sto
lacrimando. Ma se mi escono lacrime all’ascolto di una brutta notizia trasmessa alla radio non sto
soltanto lacrimando, sto propriamente piangendo: le mie lacrime sono l’espressione di un motivo
culturale, consistente nel valutare “brutta” quella tal notizia.
Questa mia valutazione è peraltro l’espressione di una possibilità, prova ne sia che, alla “stessa”
notizia, altri ridono o restano indifferenti. Ma non è necessario che io li veda piangere o restare
indifferenti: a caratterizzare il mio pianto come l’espressione di un motivo possibile mi è sufficiente
pensare che altri potrebbero ridere o restare indifferenti. Come lo so? Prima che dalla sociologia
weberiana – il cui oggetto, nei termini sopra riportati, è l’“agire sociale effettivo – o costruito come
possibile” (corsivo mio) - l’ho appreso dalla mia esperienza idealtipica della realtà culturale di cui
sono parte ed entro cui vivo.
I tipi ideali sono gli strumenti concettuali – “concetti-limite” o “modelli”, da valutare non nella
loro “adeguatezza descrittiva” ma soltanto nella loro “efficacia strumentale” (Cavalli 1981, 39) -
necessari a identificare l’agire come possibile, innanzitutto, ma non soltanto. Sono anche gli
strumenti necessari per descrivere “logicamente” (grammaticalmente) ciascun motivo – ciò che è –
attraverso il confronto con qualcosa che non è ma potrebbe essere. Sono l’equivalente dei “possibili
altrimenti” wittgensteiniani, necessari a identificare la realtà di ciascun particolare “così”7: necessari
all’analisi grammaticale dei motivi, altrimenti consegnati alla metafisica o alla fisica delle “molle
psichiche”. Sono la finzione necessaria a fondare le unità di osservazione della realtà sociale – i
motivi dell’agire – come possibili in base al senso e descrivibili in base a una grammatica. Sono
anche l’equivalente, potremmo dire, del “grado zero” della retorica, che in sociologia consente di
identificare le varie “figure” dell’agire, a partire dalla identificazione e dissoluzione della figura
fantasmatica - la ontologizzazione valoriale della cultura – la cui presenza è di ostacolo alla nascita
stessa dell’attore sociale quale essere culturale:
(…) non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significato che
ha per noi la realtà della vita, sempre individualmente atteggiata, in determinate relazioni particolari (…) La
“cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso
e significato dal punto di vista dell’ uomo (…) Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è
già che noi riteniamo fornita di valore una determinata, o anche in generale una qualsiasi “cultura”, ma che
noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei
confronti del mondo e di attribuirgli un senso. (Weber 1904, 96)
La possibilità dell’attore sociale di esistere quale essere culturale è data, nei passi sopra riportati,
dalla identificazione della ontologizzazione che la impedisce, e dal conseguente ristabilimento di
una relazione di senso. L’essere culturale si costituisce come tale entrando in relazione con la
cultura, mediante le sue prese di posizione per questo o quel valore, interno a questa o a quella
“sfera” di valore, ed entrando in “relazione particolari” con altri attori, all’interno di questo o quel
contesto istituzionale. Due soli esempi valgano al proposito, tratti da quel “piccolo capolavoro
letterario” che è il “testamento spirituale” weberiano (Pellicani 1997), la conferenza del 1917 su
“La scienza come professione”. Il primo esempio riguarda la produzione fantasmatica di un mostro,
realizzato mediante unione immaginaria di identità realmente (istituzionalmente) distinte; il secondo
riguarda la produzione fantasmatica di un feticcio, realizzato mediante immaginaria separazione di
pratiche realmente (istituzionalmente) connesse.
2.4. Un mostro: il “maestro-capo”
7 “Quando si vuole provare la mancanza di senso delle locuzioni della metafisica spesso si dice: «Non potrei
immaginare il contrario di ciò» (...) Ebbene, se non posso immaginare come sarebbe altrimenti allora non posso neppure
immaginare che è così.” (Wittgenstein 1969a, 94).
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