Table Of ContentROBIN COOK.
IL SEGRETO DELLE OSSA.
Traduzione di Tullio Dobner.
Sperling & Kupfer.
Copyright 2009 by Robin Cook.
Copyright 2011 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
ISBN 8820049716, 9788820049713.
IL LIBRO.
Stimato medico di New York, Jack Stapleton ha sempre avuto una fiducia illimitata nel potere della scienza.
Ecco perché, quando suo figlio si ammala di un tumore incurabile, Jack sente venir meno tutte le sue
certezze. Disperato, si orienta verso le medicine alternative, nonostante il suo scetticismo. Ma, nel lungo
cammino verso la guarigione del figlio, Jack è disposto a tutto. Anche a incrociare la sua strada con quella di
un vecchio compagno di college, il visionario archeologo Shawn, sulle tracce dell’ossario della Vergine
Maria.
Secondo Shawn, infatti, le ossa della Vergine hanno il potere di guarire qualsiasi malattia. Inizia così
un’avventura che porta Jack fino a Roma, al cuore stesso della Cristianità.
IL SEGRETO DELLE OSSA.
Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell'immaginazione
dell'autore o usati in modo fittizio, e ogni rassomiglianza con persone realmente esistenti o esistite, imprese,
aziende, eventi o località è puramente casuale.
L'autore si è adoperato, al momento della pubblicazione, per assicurare la correttezza dei recapiti telefonici e
Internet, tuttavia né lui né l'editore si assumono la responsabilità per eventuali errori o variazioni occorse in
seguito. L'editore inoltre non ha alcun controllo sui siti web - e sui loro contenuti -, dell'autore o di terzi, né se
ne assume la responsabilità.
Questo libro è dedicato alle famiglie, alle vittime e ai ricercatori che hanno contribuito agli straordinari
progressi nella cura del cancro infantile.
Ora in quella città vi era da tempo un uomo di nome Simone, il quale esercitava le arti magiche e faceva
stupire la gente di Samaria, spacciandosi per un grande uomo. E tutti, dal maggiore al minore, gli davano
ascolto, dicendo: «Costui è la potenza di Dio che è detta Grande». E gli davano ascolto, perché già da molto
tempo li aveva strabiliati con le sue arti magiche. Ma quando credettero a Filippo, che annunziava la buona
novella sul Regno di Dio e il nome di Gesù Cristo, furono battezzati, uomini e donne ugualmente. Persino
Simone stesso credette, e dopo essere stato battezzato, era sempre con Filippo e, vedendo i segni e i grandi
miracoli che avvenivano, ne rimase stupito.
Ora gli apostoli che erano a Gerusalemme, quando seppero che la Samaria aveva accettato la parola di Dio, vi
mandarono Pietro e Giovanni. Giunti là, essi pregarono per loro, perché ricevessero lo Spirito Santo (perché
non era ancora disceso su alcuni di loro; erano solo stati battezzati nel nome del Signore Gesù). Così Pietro e
Giovanni imposero loro le mani ed essi ricevettero lo Spirito Santo. Ora Simone, vedendo che con
l'imposizione delle mani degli apostoli veniva dato lo Spirito Santo, offrì loro del denaro dicendo: «Date
anche a me questo potere, affinché colui sul quale imporrò le mani riceva lo Spirito Santo». Ma Pietro gli
disse: «Che il tuo denaro si perda con te, perché tu hai pensato di poter comprare il dono di Dio con il denaro!
Tu non hai né parte né sorte alcuna in questo, perché il tuo cuore non è al cospetto di Dio».
Atti degli Apostoli, 8:9-21.
1.
LUNEDÌ, 1° DICEMBRE 2008, ORE 04.20 NEW YORK.
Il passaggio di Jack Stapleton da un sonno irrequieto al completo risveglio fu istantaneo. Scendeva a
precipizio per una ripida via cittadina su un'auto senza controllo e stava piombando su una fila di bambini che
attraversavano la strada in coppie tenendosi per mano, ignari della calamità che stava per abbattersi su di
loro. Jack schiacciava inutilmente a tavoletta il pedale del freno. Se mai, la velocità dell'auto aumentava. Urlò
ai bambini di togliersi da lì, ma si trattenne quando finalmente si accorse di essere nella sua camera da letto
nella casa in cui abitava nella Centoseiesima Strada a New York. Non c'erano bambini, non c'era automobile,
non c'era pendio. Un altro dei suoi incubi.
Si girò a guardare Laurie, sua moglie, temendo di avere gridato davvero. Nella debole luce che giungeva
dalla finestra priva di tende vide che dormiva profondamente, quindi doveva avere represso il suo urlo di
orrore. Mentre tornava a contemplare il soffitto, rabbrividì ricordando il sogno, un incubo ricorrente che lo
terrorizzava. Il tutto aveva avuto inizio nei primi anni Novanta, quando la sua prima moglie e le loro due
figlie di dieci e undici anni erano morte in un incidente aereo dopo essere state a trovarlo a Chicago, dove lui
stava seguendo un corso di
riqualificazione in patologia forense. Già chirurgo oftalmologo, Jack aveva deciso di cambiare specialità per
sottrarsi a quella che considerava la progressiva intrusione dei quattro cavalieri dell'Apocalisse medica:
compagnie di assicurazione, assistenza gestita, governi ottusi e un pubblico pressoché indifferente.
Abbandonando la medicina clinica, aveva paradossalmente sperato di riconquistare quel senso di altruismo e
abnegazione che lo aveva spinto a studiare da medico. Ma se da questo punto di vista era riuscito nel suo
intento, l'involontaria conseguenza della sua scelta era stata la scomparsa della sua amata famiglia, una
tragedia che lo aveva precipitato in una spirale di senso di colpa, depressione e cinismo. Uno dei sintomi era
l'incubo dell'auto senza freni. Erano già alcuni anni che quei sogni non si ripetevano, ma erano riaffiorati più
atroci che mai in quegli ultimi mesi.
Con lo sguardo fermo sui giochi di luce che il lampione davanti alla casa proiettava sul soffitto, rabbrividì di
nuovo. Entrando dalla finestra, i raggi passavano attraverso i rami spogli dell'albero solitario piantato tra casa
sua e il lampione. La brezza notturna che muoveva i rami disegnava sul soffitto una ondeggiante serie di
ipnotiche composizioni che ricordavano le macchie di Rorschach. Lo facevano sentire solo in un universo
freddo e impietoso.
Si tastò la fronte. Non stava sudando, ma poi si controllò il polso. Il cuore pulsava forte e veloce, intorno ai
150 battiti al minuto, segno che il suo sistema nervoso era nel pieno di una reazione da «combattere o
fuggire», tipica conseguenza del sogno dell'automobile senza freni.
La novità in quella particolare versione dell'incubo era rappresentata dai bambini. Normalmente il senso di
terrore aveva come oggetto solo se stesso, rispecchiato per esempio in un fragile guardrail lungo un
precipizio, un solido muro di mattoni o acque profonde infestate da squali.
Guardò l'orologio: erano le quattro passate. Con quel cuore al galoppo, sapeva bene che non sarebbe riuscito
a riaddormentarsi. Allora spinse delicatamente da parte coperta e lenzuolo per non disturbare Laurie e scivolò
fuori del letto. Il parquet era freddo come marmo.
In piedi, si sgranchì i muscoli induriti. Nonostante i suoi cinquanta e rotti anni, Jack giocava ancora a basket
in un cortile tutte le volte che glielo permettevano il bel tempo e gli impegni di lavoro. La sera prima, nella
speranza di tenere a bada l'ansia di cui soffriva ultimamente, aveva giocato fino a sfiancarsi. Sapeva che ne
avrebbe pagato il prezzo l'indomani mattina e aveva ragione. Resistette a dolore e disagio chinandosi a posare
i palmi sul pavimento. Poi andò in bagno riflettendo sui bambini dell'incubo. Il riemergere di quella tortura
non lo meravigliava. La sua angoscia attuale, il rinnovato senso di colpa e la minaccia della depressione
avevano per protagonista un bambino, il suo, per la precisione, John Junior, o JJ, come lo chiamavano lui e
Laurie. Era nato in agosto, qualche settimana prima del previsto. Ma erano più che preparati, Laurie in
particolare. Aveva serenamente tenuto testa al parto precoce. A differenza di lei, quando finalmente il bimbo
era nato dieci ore dopo, Jack era sfinito come se fosse stato lui a darlo alla luce. L'avere assistito alla nascita
delle sue due figlie non era servito a ricordargli quanto quell'esperienza fosse emotivamente impegnativa.
Potè confortarlo solo il fatto che madre e figlio stessero bene e riposassero tranquilli.
Tutto era andato bene per un mese. Laurie era in maternità e, nonostante i capricci notturni di JJ, si era calata
con gioia nella parte di neomamma. I timori di Jack che il bambino nascesse con qualche problema congenito
si erano dissolti. Non avrebbe mai confessato a Laurie che, subito dopo il parto e dopo essersi sentito
assicurare che la madre stava bene, era corso a sbirciare da sopra la spalla del pediatra.
Trepidante, aveva controllato l'aspetto generale del neonato e gli aveva contato dita di mani e piedi. Non era
sicuro di saper affrontare il problema di un figlio handicappato, in preda com'era ancora al rimorso per il
destino toccato alle due figlie. Si era a lungo angosciato sull'opportunità di avere un altro figlio e sulla sua
capacità di affrontare la vulnerabilità e la responsabilità di un genitore, soprattutto se avesse avuto un figlio
disabile. Era stato riluttante ad accettare di risposarsi. Non fosse stato per la stoica pazienza e l'incrollabile
sostegno di Laurie, avrebbe rinunciato. Nel profondo del cuore. Jack non sapeva liberarsi dalla sensazione di
essere predestinato a portare sventura alle persone che amava.
Prese l'accappatoio in bagno e andò a trovare JJ. Anche al buio, nell'entrare nella stanza del bambino ebbe un
pensiero di gratitudine per Dorothy Montgomery, sua suocera, che nell'ar-redare l'ambiente per il nipotino
che temeva non sarebbe mai arrivato, aveva mollato tutti gli ormeggi.
La stanza era illuminata delicatamente da alcuni lumi notturni all'altezza del battiscopa. Jack si avvicinò alla
culla di vimini foderata in cotone bianco. Non voleva certo svegliare il bambino. Indurlo a riaddormentarsi
dopo l'ultima pappa era stata un'impresa. La debole luce dei lumini non arrivava fin dentro la culla e Jack non
potè vedere molto. Il neonato giaceva supino, con le braccine aperte. Le dita erano ripiegate, strette sui
pollici. Una propaggine di luce fioca gli illuminava la fronte. Gli occhi erano in ombra, ma Jack sapeva che
sotto c'erano occhiaie scure, uno dei primi sintomi del suo problema. Lo scurimento della pelle si era
sviluppato con lentezza nell'arco di alcune settimane e all'inizio né lui né Laurie se ne erano accorti. Era stata
Dorothy a richiamare la loro attenzione. Poi erano emersi altri sintomi. Quella che l'ignaro pediatra aveva
inizialmente definito «eccesso di apprensione», per tutta la famiglia Stapleton in fretta si era trasformata in
notti insonni.
Quando finalmente era stata decretata la diagnosi, per Jack era stato come ricevere un colpo di mazza da
baseball allo stomaco. Il sangue gli era defluito così bruscamente dal cervello da costringerlo ad aggrapparsi
ai braccioli della poltrona per non accasciarsi al suolo. Aveva visto materializzarsi tutti i suoi timori più
angoscianti. Era riesplosa la paura di una maledizione incombente sulle persone a lui care, specialmente i
figli.
A John Junior era stato diagnosticato un neuroblastoma, una malattia responsabile del quindici percento dei
casi di morte per cancro nei bambini. Il suo caso però era particolarmente grave, perché il tumore si era già
ampiamente diffuso nell'organismo del bimbo, attaccando ossa e sistema nervoso centrale. Per John Junior il
verdetto era neuroblastoma ad alto rischio, il tipo peggiore.
Mentre la diagnosi si faceva sempre più sfavorevole e si stabiliva una strategia terapeutica, per i neogenitori i
mesi successivi erano stati un autentico inferno. Per fortuna di John Junior, durante quel periodo Laurie era
rimasta straordinariamente presente, in particolar modo in quei primi giorni cruciali durante i quali Jack
aveva dovuto lottare con tutte le forze per non essere risucchiato nello stesso abisso emotivo e mentale in cui
era precipitato anni prima. Sapere che John Junior e Laurie avevano bisogno di lui lo aveva salvato. Con un
grande sforzo, Jack aveva sconfitto senso di colpa e ira ed era stato capace di contribuire con ragionevole
efficienza.
Non era stato facile, ma gli Stapleton avevano avuto la fortuna di essere inseriti nel programma di lotta al
neuroblastoma del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, dove avevano sentito subito di potersi affidare
alla professionalità, all'esperienza e alla solidarietà di un personale medico di tutto rispetto. Per alcuni mesi JJ
era stato sottoposto a una serie di cicli chemioterapici mirati, ciascuno dei quali aveva richiesto il ricovero
ospedaliero a
causa degli spiacevoli effetti collaterali. Quando la chemioterapia aveva ottenuto quello che pensavano fosse
il risultato voluto, JJ era passato a un trattamento nuovo e promettente che consisteva nella somministrazione
per endovena di un anticorpo monoclonale estratto dai topi, antagonista delle cellule del neuroblastoma.
L'anticorpo, che si chiamava 3F8, cercava le cellule cancerogene e aiutava il sistema immunitario del
paziente a distruggerle. Almeno tale era la teoria.
Il protocollo originale prevedeva cicli di iniezioni quotidiane per periodi di due settimane in un arco di tempo
di alcuni mesi, se non addirittura per un anno. Purtroppo, già dopo i primi cicli, la terapia aveva dovuto essere
interrotta. Il sistema immunitario di John Junior, nonostante la chemioterapia precedente, aveva sviluppato
un'allergia alla proteina dei topi con un pericoloso effetto collaterale. Si era così deciso di aspettare un mese o
due, per poi rianalizzare il grado di sensibilità di John Junior alla proteina. E se la soglia di tolleranza si fosse
alzata a sufficienza, avrebbero ripreso il trattamento. Non c'erano alternative. Il tumore di John Junior era
troppo diffuso per tentare la via delle staminali, della chirurgia, o delle radiazioni.
«Sembra un angioletto quando dorme e non piange», disse una voce nell'oscurità.
Jack trasalì. Sorpreso nelle sue meditazioni, non si era accorto che Laurie lo aveva raggiunto.
«Scusa se ti ho spaventato», aggiunse lei guardando con preoccupazione il marito.
«Mi scuso io di averti svegliato», ribatté Jack sinceramente mortificato. Con l'impegno supplementare delle
cure da riservare a JJ, sapeva che Laurie era ormai in uno stato di stanchezza cronica.
«Ero già sveglia quando ti sei destato di soprassalto. Ho temuto che avessi un altro incubo, sentendo il tuo
respiro così affannato.»
«L'ho avuto. Il mio vecchio sogno dell'auto senza controllo, solo che questa volta stavo piombando su un
gruppo di bambini dell'asilo. È stato terribile.»
«Lo immagino. Almeno non è difficile interpretarlo.»
«È quello che pensi tu», rispose Jack con una punta di sarcasmo. Non gli andava di essere psicoanalizzato.
«Ehi ehi, non alzare subito la cresta», lo ammonì Laurie. Gli prese il braccio. «Per la centesima volta, se JJ è
malato non è colpa tua. Devi smetterla di flagellarti.»
Jack trasse un respiro profondo. «Facile dirlo per te.»
«Ma è la verità!» esclamò Laurie. «Sai bene che cosa hanno detto i medici del Memorial quando abbiamo
insistito per avere un'opinione eziologica. È addirittura più probabile che la causa sia io, se pensi a tutte le
sostanze chimiche a cui siamo esposti come patologi legali. Quando ero incinta, ho cercato di stare alla larga
da tutti i solventi, ma non era possibile.»
«Nessuno ha mai provato che i solventi siano una causa di neuroblastoma.»
«Non è provato, ma è una causa maledettamente più probabile della maledizione soprannaturale con cui tu
continui a torturarti.»
Jack annuì malvolentieri. Non gli piaceva la piega che aveva preso la conversazione. Non gli piaceva parlare
della sua maledizione perché non credeva nel soprannaturale, né era particolarmente religioso, due categorie
del pensiero umano che secondo lui erano imparentate. Preferiva restare fedele alla sua realtà immediata,
cose che poteva toccare e sentire e percepire con i propri sensi.
«E i miei farmaci per la fertilità?» chiese Laurie. «Un'altra delle ipotesi fatte dal dottore. Ricordi?»
«Certo che ricordo», replicò Jack in tono un po' sostenuto. Era un argomento di cui non voleva parlare.
«La verità è che la causa del neuroblastoma non è conosciuta, punto e a capo! Dai, torna a letto.»
Jack scosse la testa. «Non riuscirei più a dormire. E poi devono essere quasi le cinque. Tanto vale che mi
faccia una doccia e la barba e vada in ufficio presto. Ho bisogno di qualcosa con cui tenere occupata la
mente.»
«Ottima idea», concordò Laurie. «Vorrei poter fare lo stesso anch'io.»
«Ne abbiamo discusso, Laurie. Puoi benissimo tornare al lavoro. Prendiamo delle infermiere. Anzi, forse per
te sarebbe anche meglio.»
Laurie fece segno di no. «Mi conosci. Jack. Non potrei. Devo starci dietro di persona, comunque vada. Non
saprei perdonarmela.» Abbassò lo sguardo sul bambino, apparentemente sprofondato in un sonno sereno. Il
buio pietoso nascondeva i suoi occhi un po' sporgenti. Trattenne il fiato colta da un'improvvisa ondata
emotiva, come le accadeva talvolta senza preavviso. Aveva tanto desiderato un figlio. Mai aveva immaginato
che potesse dover soffrire tanto quanto JJ, che aveva solo quattro mesi. Anche lei era alle prese con un senso
di colpa, ma a differenza di Jack aveva trovato almeno un po' di conforto nella religione. L'educazione
cattolica che aveva ricevuto non aveva avuto un seguito attivo, ma voleva ancora credere in Dio e lo faceva a
suo modo, riuscendo comunque a considerarsi cristiana. Pregava in segreto per JJ, ma allo stesso tempo non
riusciva a capacitarsi che un essere supremo potesse consentire l'esistenza di un male come il cancro infantile,
il neuroblastoma in particolare.
Jack si accorse che Laurie stava trattenendo il fiato e capì il suo sconforto. Ricacciando lui stesso indietro le
lacrime, passò un braccio intorno alle spalle della moglie e abbassò a sua volta lo sguardo su John Junior.
«A questo punto la cosa più difficile per me», riuscì a confessare Laurie asciugandosi le lacrime, «è la
sensazione di starcene qui con le mani in mano. Mentre aspettiamo che superi questa
allergia alla proteina dei topi, non lo stiamo curando. In un certo senso è come se la medicina ortodossa ci
avesse abbandonati. È così frustrante! Ero tanto fiduciosa quando abbiamo cominciato con l'anticorpo
monoclonale. Lo trovavo mille volte più logico di quei cicli di chemioterapia, specialmente considerato che si
tratta di un neonato in rapida crescita. La chemio attacca tutte le cellule in crescita, mentre l'anticorpo
colpisce solo quelle tumorali.»
Jack avrebbe voluto risponderle ma non potè. Riuscì solo a concordare con quanto Laurie stava dicendo con
un cenno della testa.
«L'ironia è che ci troviamo di fronte a uno dei fallimenti della medicina convenzionale», borbottò Laurie
mentre cominciava a riprendere il controllo delle sue emozioni. «Quando la medicina tradizionale cozza
contro un ostacolo, il paziente e tutta la sua famiglia patiscono la conseguenza di finire sospesi nel vuoto.»
Jack annuì con tristezza.
«Hai mai pensato a un'alternativa per JJ? Un altro tipo di medicina?» chiese Laurie. «Dico almeno per tutto il
tempo che avremo le mani legate in attesa di riprendere il trattamento con l'anticorpo?»
Jack si girò a guardarla sorpreso. «Dici sul serio?»
Laurie si strinse nelle spalle.
«Io non ne so un gran che, sinceramente. Non l'ho mai provata, se non vogliamo tenere conto degli integratori
vitaminici. Né ne ho letto un gran che. Per quel che ne so è tutto vudu, eccetto che per qualche principio
attivo di qualche pianta farmacologica.»
«La vedo così anch'io. Si basa tutto su effetti placebo, per quel che ne so. Anch'io non ho mai avuto il
desiderio di approfondire la materia, meno che mai di provarla su me stesso. Credo che sia per le persone che
hanno più speranza che buonsenso, o per persone che vanno a caccia di fregature. Soprattutto credo che sia
per gente disperata.»
«Noi siamo disperati», affermò Laurie.
Jack scrutò il volto della moglie nell'oscurità. Non fu in grado di capire se fosse seria o no. Ma che fossero
entrambi disperati, quello sì, era vero. Disperati però fino a quel punto?
«Non mi aspetto una risposta», aggiunse Laurie. «Stavo solo pensando a voce alta. Vorrei che facessimo
qualcosa per il nostro bambino. Non sopporto il pensiero di quelle cellule maligne che si moltiplicano
liberamente.»
2.
LUNEDÌ, 1° DICEMBRE 2008, ORE 12.00 IL CAIRO
(ORA DI NEW YORK, 05.00).
Shawn Daughtry fece fermare il tassista egiziano al mausoleo di al-Ghouri, la tomba del condottiero
mammalucco che agli inizi del sedicesimo secolo cedette l'Egitto agli ottomani. Erano passati dieci anni
dall'ultima volta che Shawn era stato lì, accompagnato dalla terza moglie. Ora vi tornava con la quinta, Sana
Martin, in una condizione di spirito assai più lieta. Sana era stata invitata a partecipare a una conferenza
internazionale sul gene tracking. Stimata biologa molecolare con una specializzazione in genetica
mitocondriale, tema della sua tesi di laurea, Sana era uno dei relatori di punta della conferenza. L'invito
comprendeva un viaggio interamente spesato per due persone. Shawn ne aveva approfittato per partecipare a
sua volta a una concomitante conferenza di archeologia. Poiché era l'ultimo giorno del simposio, aveva
rinunciato al pranzo finale per compiere invece una commissione molto speciale.
Shawn scese dal taxi nella calura afosa e polverosa e attraversò a piedi il traffico congestionato di via al-
Azhar. Nel coro di clacson di tutti i veicoli a motore, pedoni e carretti si insinuavano negli spazi che si
aprivano di tanto in tanto tra automobili, camion, autobus e taxi. Il traffico al Cairo era un dramma. Nei
dieci anni intercorsi, la popolazione della metropoli era salita alla vertiginosa cifra di 18,7 milioni di abitanti.
Shawn percorse un tratto della al-Mukz li-Den Allah e s'inoltrò nei vicoli del suk di Khan el-Khalili. Nel
labirintico bazar del quattordicesimo secolo si vendeva di tutto, dai casalinghi all'abbigliamento, dalla
mobilia ai generi alimentari, ai souvenir più economici. Ma non era quella la merce che lo interessava. Shawn
si diresse alla zona specializzata in oggetti antichi in cerca di una bottega che si chiamava Antica Abdul e che
ricordava dalla sua visita precedente.
Shawn era un esperto archeologo e a cinquantaquattro anni era all'apice della carriera, direttore del
dipartimento di arte mediorientale al Metropolitan Museum of Art di New York. Sebbene il suo interesse
principale fosse per l'archeologia biblica, era un'autorità sull'intero Medio Oriente, dall'Asia Minore a Libano,
Israele, Siria, Giordania e Iran. Era stato trascinato in quel bazar da Gloria, la sua terza moglie. Persala di
vista nel dedalo di vicoli, Shawn si era ritrovato davanti all'Antica Abdul. Era stato attratto da uno
straordinario pezzo esposto nella polverosa vetrina della bottega, un vaso in terracotta ancora integro risalente
a un'epoca predinastica di seimila e più anni addietro. Era decorato con spirali in senso antiorario e all'epoca
ce n'era uno quasi identico in bellavista nella sezione egizia del Metropolitan Museum, ma quello dell'Antica
Abdul era in condizioni decisamente migliori. Non solo i disegni dipinti erano perfettamente conservati, ma il
vaso del museo era stato trovato in cocci ed era stato restaurato. Affascinato, ma anche convinto che, come
tanti altri presunti oggetti d'antichità in vendita al bazar, si trattasse di un falso riprodotto ad arte, Shawn era
entrato.
L'intenzione era stata quella di limitarsi a un esame superficiale del vaso per poi tornare in albergo, invece era
rimasto ore. La moglie era tornata in albergo prima di lui e, quando Shawn l'ave-
va finalmente raggiunta, sospettando qualche attività equivoca e un tentativo di abbandonarla, lei lo aveva
aggredito, sostenendo che avrebbero potuto rapirla. Ricordando l'episodio, Shawn rifletté su quanto
opportuna sarebbe stata quella eventualità. Si sarebbe risparmiato le grane del divorzio avvenuto un anno
dopo.
A trattenere Shawn in quella bottega così a lungo era stata più che altro una lezione gratuita in ospitalità
egiziana. E quella che era cominciata come una vivace discussione con il proprietario sull'autenticità del vaso
si era trasformata in una interessante conversazione sul vasto mercato di oggetti d'antiquariato falsi di ottima
fattura con concomitante consumo di parecchie tazze di tè. Rahul, il proprietario del negozio, aveva giurato
sull'autenticità del vaso, ma, saputo che Shawn era un archeologo, si era speso di buon grado nel rivelargli
tutti i trucchi del mestiere, compresi quelli riguardanti il fiorente mercato degli scarabei. Si credeva che lo
scarabeo, il noto talismano dello stercoraro fin dai tempi dell'antico Egitto, avesse il potere della
rigenerazione spontanea. Attingendo a una scorta inesauribile di ossa prelevate dai cimiteri antichi dell'Alto
Egitto, abili intagliatori ricreavano gli scarabei, poi li mescolavano al cibo di vari animali domestici perché si
rivestissero di una patina convincente. Rahul era convinto che molti degli scarabei faraonici conservati nei
più grandi musei del mondo fossero contraffazioni.
Al termine di quella lunga conversazione, in segno di ringraziamento per l'ospitalità ricevuta da Rahul,
Shawn aveva comprato il vaso. Dopo un amichevole mercanteggiamento, lo aveva pagato la metà della cifra
che all'inizio l'egiziano gli aveva richiesto.
Anche così, Shawn pensava che duecento sterline egiziane fossero più del doppio del prezzo giusto, almeno
finché non era rientrato a New York. Quando aveva mostrato il vaso ad Angela Ditmar, la sua collega a capo
del dipartimento di egittologia, per
poco non gli era preso un colpo. Angela aveva accertato che il vaso non era un falso ma un reperto autentico,
che risaliva a ben più di seimila anni prima. Alla fine Shawn lo aveva donato al dipartimento egizio affinché
sostituisse quello restaurato in esposizione permanente, nella speranza di mitigare il senso di colpa che
provava per avere involontariamente trafugato dall'Egitto un oggetto così prezioso.
I tappeti e i tendoni tirati da un edificio all'altro ai lati delle strette viuzze nascondevano alla luce del sole il
cuore del bazar. Passando davanti ai macellai con le carcasse degli agnelli appese, complete di cranio, occhi e
mosche, Shawn fu avvolto dall'odore penetrante delle frattaglie, subito sostituito dagli aromi delle spezie e
poi dal profumo del caffè arabo che veniva tostato. Il suk era un'aggressione ai cinque sensi, nel bene e nel
male.
In un punto in cui si incrociavano diversi vicoli, Shawn sostò smarrito come già dieci anni prima. Chiese
aiuto a un anziano sarto in zucchetto bianco e galabeja marrone. Pochi minuti dopo entrava nell'Antica
Abdul. Non lo sorprese affatto che la bottega esistesse ancora. In occasione della sua visita precedente, Rahul
aveva detto che la sua famiglia la gestiva da più di cento anni.
A parte l'assenza del fantastico vaso predinastico, non era cambiato niente. Poiché quasi tutte le antichità che
vendeva erano contraffazioni, Rahul non faceva che rimpiazzarle via via che venivano vendute.
Quando entrò, gli sembrò che la bottega fosse incustodita. Mentre i pendagli di perline contro le mosche si
richiudevano crepitando alle sue spalle, per un momento si domandò se a gestirla fosse ancora Rahul, ma
tutte le sue preoccupazioni svanirono nel vederlo emergere prontamente da dietro i drappi scuri che
separavano la retrostante zona conversazione disseminata di cuscini dal negozio vero e proprio. Rahul
abbozzò un saluto inclinando leggermente la testa mentre andava a prendere posto
dietro un vecchio bancone con il piano in cristallo. Era un ex fellahin dalle ossa grosse e labbra carnose,
capace di riqualificarsi agevolmente in un abile uomo d'affari. Senza una parola, Shawn avanzò di qualche
passo fissando i profondi occhi neri del bottegaio. Quasi subito Rahul assunse un'espressione di sorpresa.
«Dottor Daughtry?» domandò. Si sporse in avanti per guardarlo meglio.
«Rahul», rispose Shawn, «è già incredibile che si ricordi di me dopo tanti anni, ma addirittura il mio nome...»
«Come potrei dimenticare?» ribatté Rahul accorrendo da dietro il banco per stringergli la mano con vigore.
«Io ricordo tutti i miei clienti, specialmente quelli dei musei famosi.»
«Perché, ha clienti di altri musei?» La bottega era così modesta che gli sembrava poco plausibile.
«Ma certo, certo», intonò Rahul. «Tutte le volte che mi capita qualcosa di speciale, cosa che non accade
molto spesso, mi metto in contatto con quelli che potrebbero essere più interessati. Molto più facile oggi con
Internet.»
Mentre Rahul usciva di corsa nel vicolo aprendo i pendagli di perline per abbaiare qualcosa in arabo, Shawn
si soffermò a riflettere sulla velocità della globalizzazione. Sciocco da parte sua avere pregiudizialmente
pensato che Internet e il vecchio Khan el-Khalili vivessero in mondi separati.
Pochi istanti dopo Rahul rientrò e invitò Shawn a trasferirsi nella zona salotto del retrobottega. Pavimento e
pareti erano coperti di tappeti orientali. E per sedersi c'erano a disposizione un gran numero di grossi cuscini
di broccato. Un angolo era dominato da un narghilè, accanto a una catasta di vecchi scatoloni di cartone. Dal
soffitto pendeva una nuda lampadina. Su un tavolino di legno c'erano alcune fotografie sbiadite, in una delle
quali si vedeva un omone in abbigliamento tipicamente egiziano
che somigliava a Rahul. Rahul seguì la direzione dello sguardo di Shawn.
«Una foto di mio zio, donatami di recente da mia madre. Era proprietario di questo negozio quasi vent'anni
fa.»
«Si vede che è parente», commentò Shawn. «Acquistò da lui la bottega?»
«No, da sua moglie. Lui era fratello di mia madre, ma rimase coinvolto in uno scandalo che riguardava il
ritrovamento sensazionale di una tomba ancora intatta. Una complicità che gli costò la vita. Fu ucciso in
questo negozio.»
«È terribile», si dispiacque Shawn. «Non avrei dovuto chiedere.»
«In questo mestiere non si è mai troppo prudenti. Sia lodato Allah per avermi risparmiato guai del genere.»
Un attimo dopo la pesante tenda si aprì per lasciare passare un ragazzetto scalzo con un vassoio e due
bicchieri infilati in portabicchieri di metallo, colmi fino all'orlo di tè fumante. In silenzio, posò il vassoio sul
pavimento vicino a Shawn e Rahul e scomparve dietro la tenda. Durante il suo rapido intervento Rahul
proseguì in una vivace chiacchierata sulla sua letizia per la rinnovata visita di Shawn.
«In verità avevo un motivo preciso», gli rivelò quest'ultimo.
«Davvero?» ribatté Rahul incuriosito.
«Devo farle una confessione. L'ultima volta che sono stato qui ho comprato da lei un vaso di epoca
predinastica.»
«Lo ricordo. Uno dei miei pezzi migliori.»
«Abbiamo quasi litigato sulla sua presunta autenticità.»
«E lei non era molto disposto a farsi convincere.»
«In effetti non mi ero affatto convinto. L'ho comprato come souvenir in ricordo della nostra conversazione
così interessante, ma quando sono rientrato a New York l'ho fatto esaminare da una collega esperta. Ha
confermato la sua convinzione. Non solo
il vaso è autentico, ma è ora in esposizione permanente al museo. Davvero un reperto di straordinario
interesse.»
«È molto gentile da parte sua ammettere l'errore.»
«Be', è una cosa che ha continuato a turbarmi in tutti questi anni.»
«Ma è facile rimediare», rispose Rahul. «Se vuole mettere in pace la sua coscienza, non ha che da pagarmi un
supplemento.»
Shawn lo fissò in silenzio, colto in contropiede dall'inaspettato invito. Per un momento credette che parlasse
sul serio. Poi Rahul sorrise mettendo in mostra i malconci denti gialli. «Stavo scherzando naturalmente. Ho
incassato un buon profitto con quel vaso rispetto a quanto l'ho pagato ai bambini che lo avevano trovato e
sono soddisfatto così.»
Shawn sorrise a sua volta con palese sollievo. Aveva trovato l'umorismo arabo inatteso come l'ospitalità.
«La sua confessione mi ha fatto venire in mente un pezzo molto singolare che ho ricevuto solo ieri da un
amico fellahin che coltiva i campi nell'Alto Egitto. E qualcosa che potrebbe interessare in particolare lei, data
la sua competenza in archeologia biblica. Su questo particolare oggetto lei saprà certamente più di me, così
voglio sperare che non mi ingannerà se dovesse decidere di comprarlo. Le piacerebbe vederlo?»
«Perché no?» rispose. Non sapeva che cosa aspettarsi e non intendeva abbandonarsi a eccessive illusioni.
Rahul frugò in uno degli scatoloni accatastati contro la parete e ne tolse quello che sembrava una federa da
guanciale non troppo pulita. Solo quando si fu riseduto ne estrasse il contenuto posandolo nelle mani di
Shawn.
Per qualche secondo quest'ultimo rimase immobile mentre Rahul tornava ad accomodarsi contro uno
schienale di cuscini. La sua espressione era insieme di aspettativa e compiacimento. Sapeva che l'archeologo
avrebbe capito all'istante che cosa ave-
va tra le mani. La domanda era se fosse disposto a comprarlo. Quel piccolo tesoro illegale aveva bisogno
della persona giusta, una persona con tasche capienti.
Shawn riconobbe subito il reperto. Come la maggior parte degli studiosi della Bibbia più accreditati,
specialmente quelli che si occupavano di studi del Nuovo Testamento o della storia dei primordi del
Cristianesimo, aveva anche visto e persino maneggiato gli originali. Ma quello che aveva fra le mani era
autentico
o era un falso, come gli scarabei e quasi tutti gli oggetti che Rahul vendeva abitualmente? Shawn non aveva
modo di saperlo ma, ricordando l'inattesa autenticità del vaso di età predinastica, era disposto a correre il
rischio e comprare ciò che Rahul gli stava mostrando. Nel caso fosse stato un reperto autentico, si sarebbe
trattato della scoperta più importante di tutta la sua vita e anche se lo avesse restituito alle autorità egiziane,
era quel genere di reliquia che lo avrebbe posto su un gradino più alto di quello di tutti
i suoi contemporanei. Non voleva certo che a entrarne in possesso fosse uno degli importanti musei con cui
trattava Rahul, possibilità tutt'altro che remota considerato che gli aveva appena rivelato di sapersi muovere
con disinvoltura nella grande rete.
«Naturalmente non è autentico», cominciò Shawn cercando di dare il via al mercanteggiamento partendo con
il piede giusto. Il suo problema era che, nonostante l'apparente modestia del ne-gozietto, sapeva di avere a
che fare con un commerciante professionista e scaltro.
3.
LUNEDÌ, 1° DICEMBRE 2008, ORE 06.05 NEW YORK
(ORA DEL CAIRO, 13.05).
«Lei è un dottore?» domandò con esagerata sorpresa il poliziotto in divisa. La volante era parcheggiata dietro
di loro sul lato ovest della Seconda Avenue, dove il traffico del primo mattino scorreva in direzione del
centro. Il collega del poliziotto era ancora a bordo a bere un caffè. La bici quasi nuova di Jack era coricata sul
marciapiede davanti all'auto della polizia. Quando Laurie era andata in maternità, Jack aveva ripreso la
vecchia abitudine di andare e tornare in bicicletta dall'istituto di patologia legale.
Jack si limitò ad annuire. Per quanta calma avesse ormai ritrovato, non gli era passata del tutto la collera nei
confronti del tassista che gli aveva tagliato la strada attraversando quattro corsie di traffico per andare a
caricare un cliente. Era riuscito a fermarsi con un urto di lieve entità contro il paraurti posteriore della vettura,
ma subito dopo si era precipitato sul lato del conducente prima che il cliente si fosse seduto a bordo. Aveva
quindi inferto una serie di piccole ma ben visibili ammaccature alla portiera del taxi con il tacco della scarpa
nella speranza di indurre il conducente a scendere per ingaggiare con lui una discussione. Per fortuna,
l'incidente era stato chiuso di lì a pochi attimi dall'arrivo della polizia. I due agenti avevano assistito almeno a
una parte dell'episodio.
«Credo che farebbe bene a partecipare a un corso sul controllo dell'aggressività», disse il poliziotto.
«Lo terrò in considerazione», rispose Jack con sarcasmo. Sapeva di essere offensivo, ma non poteva
trattenersi. L'agente aveva congedato il tassista senza nemmeno controllare la sua licenza. Era come se
ritenesse che l'incidente fosse tutta colpa di Jack, visto che era lui a essere trattenuto.
«Lei sta andando in giro in bicicletta», sbottò il poliziotto. «Che cosa ha in mente, di farsi ammazzare? Se è
tanto pazzo da girare in bici, allora deve aspettarsi l'inaspettato, soprattutto da parte dei tassisti.»
«Ho sempre pensato di poter condividere civilmente le strade con i taxi di New York.»
Con esasperazione, il poliziotto gli restituì la patente. «Il funerale è il suo», concluse lavandosi le mani della
questione.
Ancora seccato, Jack raccolse la bici, montò in sella e cominciò a pedalare allontanandosi dalla volante prima
ancora che il poliziotto fosse risalito a bordo. Di lì a poco la frenesia del traffico, il vento gelido e il furioso
esercizio fisico raffreddarono i suoi bollenti spiriti. Alla velocità ottimale di trenta chilometri all'ora
raggiunse la Quarantaduesima. Mentre con il fiatone aspettava il verde, ammise tra sé che quell'agente aveva
ragione. I tassisti erano sempre abbastanza avidi da fermarsi a prendere un cliente ignorando il traffico
circostante. Rinunciando a pedalare con la dovuta prudenza, lui stava ricadendo nel comportamento
patologicamente autodistruttivo che aveva messo a rischio la sua vita dopo la morte della moglie e delle
figlie. Jack sapeva di non potersi permettere un atteggiamento così egoistico. Laurie e John Junior avevano
bisogno di lui. Se volevano sperare di sconfiggere il neuroblastoma, dovevano agire da squadra.
All'angolo della Prima Avenue e della Trentesima, imboccò il viale d'accesso dell'istituto. Sebbene
esteriormente la costruzio-
ne fosse in tutto e per tutto quella dei tempi in cui era stata edificata negli anni Sessanta, molti erano stati i
cambiamenti successivi, specialmente dopo l'undici settembre. La vecchia piattaforma di carico era stata
sostituita da un più spazioso parcheggio con una serie di rimesse individuali dove ricoverare i veicoli che
giungevano trasportando i cadaveri. Erano scomparsi anche i vecchi furgoni marrone con la scritta health and
hospital corp. sulle fiancate, che una volta venivano parcheggiati alla bell'e meglio lungo tutta la Trentesima
Strada, ora sostituiti da un'ordinata flottiglia di nuovi furgoni bianchi. E invece di doversi portare la bici in
obitorio, Jack entrò in una delle rimesse, dove sapeva di poterla lasciare in custodia di un servizio di
sicurezza assai meglio organizzato.
Altri cambiamenti erano avvenuti all'interno. Quando, in occasione dell'undici settembre, l'istituto di
medicina legale aveva assunto un ruolo centrale, l'amministrazione cittadina aveva deliberato in modo da
rifornirlo di personale, attrezzature e spazio. Per ospitare il rafforzato dipartimento di biologia forense che
comprendeva in particolare il laboratorio di analisi del DNA, era stato costruito un palazzo nuovo sulla Prima
Avenue, qualche isolato più avanti. Dimenticati erano i tempi in cui, in seguito a successivi tagli dei
finanziamenti, l'istituto di patologia legale di New York aveva perso il suo ruolo di leader nazionale nel
settore della medicina legale.
Ora Jack poteva contare su più di trenta colleghi medici legali o patologi forensi che dir si volesse. Alla sede
di Manhattan era aumentato anche il numero di investigatori non medici, che non venivano più chiamati
assistenti, bensì investigatori medicolegali, o MLI. Il personale era stato rafforzato anche dall'aggiunta di otto
nuovi antropologi forensi, oltre che da alcuni odontologi specialistici a disposizione dei patologi.
Di tutte queste migliorie e cambiamenti Jack aveva benefi-
ciato anche di persona. Oltre che gli interi dipartimenti di analisi del DNA e di sierologia, nel nuovo palazzo
erano stati trasferiti anche altri reparti, tra cui archivio, amministrazione, ufficio legale e risorse umane,
liberando così spazio nel vecchio edificio. Ora tutti i medici legali avevano un ufficio individuale al secondo
piano. Adesso, oltre alla scrivania, Jack aveva a disposizione anche un banco da laboratorio tutto suo,
cosicché poteva lasciare fuori microscopio, vetrini e documentazioni dei casi a cui stava lavorando.
Entrando, si ripromise di mettere sotto chiave la sua emotività e concentrarsi sul lavoro. Spinto dalla
sensazione di avere una missione da portare a termine, non aspettò l'ascensore e prese le scale. Attraversò
velocemente i nuovi uffici dedicati alla sindrome della morte infantile improvvisa e, subito oltre, il vecchio
salone degli archivi medici, che ora ospitava i nuovi cubicoli riservati agli investigatori. Il turno di notte degli
MLI stava finendo di redigere i verbali per il nuovo turno delle sette e mezzo. Jack salutò fugacemente Janice
Jaeger, l'investigatore del turno notturno che conosceva dai tempi in cui aveva cominciato a lavorare
all'istituto e che spesso gli faceva da assistente personale.
Arrivato nell'ufficio ID, dove tutti i medici legali iniziavano la giornata lavorativa, abbandonò la giacca su
una vecchia poltroncina in pelle. Su una scrivania isolata erano impilati i fascicoli relativi ai casi giunti
all'istituto durante la notte e che, a giudizio della squadra investigativa medicolegale, erano di loro