Table Of ContentEnzo Gamba - Gianfranco Pala
IL PROGRAMMA MINIMO DI CLASSE
per la prassi dei comunisti in una fase non rivoluzionaria
Laboratorio politico
Napoli 1996
[esaurito]
Indice
Premessa: la situazione politica
I rivoluzionari in una fase non rivoluzionaria
Che cos’è il “programma minimo”
Il programma dei comunisti
La lotta dei rivoluzionari per le riforme
I criteri di impostazione del programma
La crisi e le contraddizioni del capitale
Le contraddizioni del rapporto di capitale e l’antitesi di classe
La contraddizione della merce
La contraddizione della forza-lavoro
Il “programma minimo” e gli obiettivi possibili di lotta
La strutturazione del “programma minimo”
L’organizzazione della classe e i comunisti
... se trascurasse anche per un istante le caratteristiche di classe
che differenziano il proletariato dalla piccola borghesia,
se concludesse fuori tempo un’alleanza svantaggiosa
con questo o quel partito di intellettuali piccolo-borghesi
poco degno di fede, se perdesse di vista anche per poco
i suoi obiettivi autonomi e la necessità
(in ogni e qualsiasi situazione e congiuntura politica,
in ogni e qualsiasi svolta e rivolgimento politico)
di porre come cardine lo sviluppo della coscienza di classe
e dell’organizzazione politica autonoma del proletariato,
... sarebbe pericoloso qualsiasi atto politico.
... le condizioni che non dobbiamo dimenticare in nessun caso:
colpire insieme, marciare in ordine sparso, non confondere
le organizzazioni, controllare l’alleato come un avversario, ecc.
... dobbiamo farci spaventare ... da quello spirito di codismo e di inerte passività
che disgrega il partito del proletariato, esprimendosi
in tutte le possibili teorie sull’organizzazione-processo.
[Lenin]
Premessa
La situazione politica
1. Tutte le più visibili manifestazioni politiche di questi ultimi anni, dalle trappole
elettorali alle prese di posizione contro le varie manovre finanziarie e contro la
riforma delle pensioni, hanno reso ancor più evidenti i limiti progettuali e
programmatici, strategici e tattici della cosiddetta “sinistra”. Alla domanda: “cosa
contrapporre al progetto e al programma della destra”, nella sinistra in genere è stato
o un appiattirsi neocorporativo sulle linee della borghesia (esemplificativa
l’indicazione di Ciampi allora e di Prodi oggi quale futuro Presidente del Consiglio
di un governo sostenuto dalla “sinistra” o, a livello economico sociale, la posizione
dei “Progressisti” sulla riforma previdenziale), oppure, quando non vi era assenza
di indicazioni, un guazzabuglio di obiettivi spesso in contraddizione tra loro.
Per capire come la vecchia sinistra (non di classe) sia di fatto diventata la “nuova
destra”, basti pensare a quella che essa stessa ha definito la “costituzione economica
della II repubblica”, ossia il protocollo d’intesa neocorporativa del 3 luglio 1993,
alla violazione golpista della costituzione, col patrocinio della stessa Corte
costituzionale, rappresentata dalla riforma elettorale maggioritaria, alle più recenti
proposte di cancellierato alla tedesca o di semipresidenzialismo alla francese, ecc..
2. Anche nella sinistra di classe o in quella che ama “sentirsi” nuova (e non vetero
dogmatica) le cose non è che funzionino meglio. La “contaminazione” con altre
culture, visto la poca conoscenza della propria e l’eclettismo che la ispirava, ha
prodotto risultati velleitari, idealistici, connotati da pragmatismo (si pensi a vari
piani e progetti che intenderebbero proporre panacee per risolvere la crisi del lavoro,
e alle indicazioni dei teorici che sostanziano quelle proposte). Il “meglio” che si
possa vedere nella sinistra di classe è stato il porre un programma di obiettivi più
estremizzati di quelli che una volta si dicevano “revisionisti”, ossia di un
radicalismo pur sempre riformistico, molto spesso puramente negativi e
difensivistici.
Nella “sinistra di classe” ciò rappresenta effettivamente il meglio in quanto
l’alternativa, sempre presente e dura a morire come i suoi portatori, è lo spacciare il
programma strategico rivoluzionario come l’unico possibile, su posizioni che
spaziano dalla presunta “maturità del comunismo”, al concepire il processo
rivoluzionario come atto di coscienza volontaristica di classe, all’automatismo
deterministico delle contraddizioni del capitale. Il motivo di tale posizione è in molti
casi dovuto alla confusione tra il carattere storico del tipo di rivoluzione (socialista)
e le fasi e tempi storici del suo contraddittorio processo di avveramento. Per coloro
i quali non esistono mai, per principio, nell’epoca della crisi dell’imperialismo e
delle rivoluzioni proletarie, fasi “non rivoluzionarie”, il problema dell’adeguare alle
condizioni storiche oggettive la presenza soggettiva dei comunisti consiste, al
massimo, nell’agitare a parole obiettivi di carattere “comunista”. Ovviamente anche
per costoro, forse più che per altri, rimane poi insormontabile il problema di fare i
conti, teoricamente e politicamente, con l’esperienza storica delle difficoltà e della
reversibilità dei processi di transizione.
3. Quando invece qui si parla di fase “non rivoluzionaria” - sia detto ora in
apertura una volta per tutte - ci si riferisce a ciò che attiene alla questione della
“presa di potere”, alla sua maturità e attualità: ossia, a quella fase in cui non esistono
le condizioni storico-sociali perché il processo rivoluzionario possa configurarsi in
un periodo di transizione socialista sulla base della presa del potere politico.
Non per caso in queste fasi non si può parlare neppure di “programma di
transizione” in senso proprio, in quanto questo implica la dittatura del proletariato.
È bene chiarire sùbito, anche se brevemente quest’ultimo concetto, se è vero che già
Engels [nell’introduzione del 1891 a La guerra civile in Francia di Marx] osservava
che “i filistei socialdemocratici sono stati recentemente afferrati da un sacro terrore
sentendo pronunciare l’espressione "dittatura del proletariato"”: un simile terrore
afferra ancora oggi parecchie persone, anche tra coloro che si ritengono comunisti,
nella sinistra di classe. La ragione di ciò può essere rintracciata proprio
nell’ipocrisia verbale dell’ideologia dominante, che si risciacqua volentieri la bocca
con la parola “democrazia”. Ora, mentre etimologicamente “dittatura” vuol
chiaramente significare il comandare, il dettare leggi, applicandosi quindi il termine
esplicitamente a chi detenga siffatto comando (un individuo, un autocrate, un
magistrato eletto, un organismo o una classe), “democrazia” vorrebbe dare a
intendere che si tratti di “potere del popolo”: e quest’ultima circostanza è quanto di
più lontano dalla realtà, antica e moderna, si possa immaginare.
“Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una
classe per l’oppressione di un’altra” - scrivevano Engels e Marx [a conclusione del
programma politico del Manifesto, nel 1848]. È ovvia, perciò, la ragione per cui i
“filistei” borghesi quanto più esercitano unilateralmente il potere - il potere di classe
- tanto più amano nascondersi dietro false parole chiamandolo invece “potere del
popolo”. Cosicché, dietro un termine che ambiguo non sarebbe, se non fosse usato
ambiguamente, qual è “democrazia”, l’ideologia che la vuole imporre come parola
costringe a farle porre appresso una sequela di aggettivazioni, assai spesso
inconsistenti col termine stesso: affinché “democrazia” diventi tutto quello che non
è. Semplicemente Engels, Marx, Lenin, chiamavano il “comando della classe
borghese” col termine proprio di dittatura della borghesia, poiché quella era, ed è,
la classe sociale che “dètta” legge, senza doversi inventare una terminologia come
“democrazia borghese”, a tal punto mistificatoria che testualmente vorrebbe dire
“potere del popolo ... borghese”!
Similmente - per quanti, come i comunisti, ritengano impossibile che il potere sia
esercitato contemporaneamente dalla borghesia e dal proletariato - quando si
presentino le condizioni storiche per cui a “dettar” legge siano i lavoratori, è molto
più corretto e non equivoco parlare di dittatura del proletariato. Con il che si vuole
designare lo stato - come ha scritto Marx [nella Critica al programma di Gotha, del
1875] - al quale “corrisponde un periodo di transizione politica” che si colloca come
“periodo di trasformazione rivoluzionaria, tra la società capitalistica e la società
comunista”. Riacquisire terminologia e linguaggio autonomi, di classe,
scientificamente corretti e adeguati all’epoca storica, è tale dunque da non provocare
alcune “terrore”. Anzi, sarebbe più saggio aver paura della parolina “democrazia”.
Pertanto, è ovvio che il non porre l’obiettivo della presa di potere non significa che
non sia necessario prospettare il problema futuro della transizione: ossia non
significa rinunciare strategicamente alla questione del potere - della “dittatura del
proletariato”, codesta sì “democratica” - ma analizzare scientificamente le
contraddizioni di fase, in atto, della particolare formazione economica sociale
capitalistica in cui si lotta.
Il programma minimo va considerato allora come quel programma che
concretizzerebbe “la prassi dei rivoluzionari in una fase non rivoluzionaria”, nella
rammentata accezione dell’inattualità della presa di potere. Ossia quel programma
e quella linea strategica e tattica che si colloca in tutta quella lunga fase dove il
problema è, per dirla con Lenin, trovare le forme di passaggio e di avvicinamento
alla rivoluzione proletaria. Già Engels [nel commentare il Programma di Erfurt, nel
1891] avvertiva che per la classe lavoratrice è importante formulare “rivendicazioni
che possano avvicinarla” al suo “scopo” che è l’“eliminazione delle classi”.
4. Dal primo istante, fino al compimento della trasformazione rivoluzionaria, la
connessione temporale della prassi tra strategia e tattica è legata solo dall’identità
di classe. Tale identità e autonomia degli obiettivi di classe caratterizza ogni fase
politica. E questa è un’avvertenza così importante da doversi tener presente perfino
in un periodo come quello di un governo rivoluzionario provvisorio, dove essa
sembrerebbe ovvia, cui Lenin si riferiva [se si pensa che la citazione di apertura, del
luglio 1905, considera appunto La dittatura democratica rivoluzionaria]. Reputava,
infatti, “davvero molto pericolosa la partecipazione al governo rivoluzionario
provvisorio” in mancanza di quella necessaria autonomia di classe che dovrà
tradursi, senza farsi “spaventare”, nella “idea della dittatura democratica
rivoluzionaria del proletariato e dei contadini”.
È allora maggiormente evidente e proprio per le stesse ragioni che, in una fase
come quella presente, il programma non rivoluzionario dei rivoluzionari si
configuri come inevitabile espressione di minoranza: proprio per questo motivo è
altrettanto evidente che esso sia verosimilmente non attuabile in quanto tale. La
tattica, di cui si concreta gran parte del “programma minimo”, adegua in ogni
momento le azioni di lotta al miglioramento delle condizioni strategiche, per la
transizione, sottese al programma stesso. E in una fase come l’attuale la
frammentazione della classe lavoratrice su scala planetaria, a séguito delle nuove
forme di organizzazione del lavoro, rende più lontano e arduo il raggiungimento di
una coscienza di classe che innata non è.
Quando la coscienza di classe capace di restituire identità al proletariato e alla
sua avanguardia comunista è del tutto carente, un primo obiettivo del “programma
minimo” può essere ben espresso con quanto ricordava Marx [in una lettera a
Engels, del 26.9.1868]: “Per la classe operaia la cosa più necessaria è che cessi di
fare agitazioni con il permesso delle superiori autorità. Una razza addestrata così
burocraticamente deve fare un corso completo di "auto-aiuto"”. Ciò serve affinché
le masse, sviluppando e centralizzando la lotta, si pongano in condizione di imparare
per loro diretta esperienza. È dunque la credibilità pratica di massa dei suoi elementi,
la leva capace di mediare dialetticamente per il successivo raggiungimento di
obiettivi concreti resi maggioritari. La questione dei rapporti di forza esistenti,
spesso da più parti, sul versante riformistico, evocata come alibi, serve qui invece
come analisi scientifica per il riconoscimento della realtà e di condizioni di lotta non
avventuriste.
5. Non è un caso che i “programmi minimi” che Marx ed Engels formularono o a
cui contribuirono erano essenzialmente programmi minimi che avevano una
funzione principalmente elettorale, quindi all’interno di una più complessiva tattica
che, muovendosi su diversi piani, compreso quello istituzionale, puntava ad una
progressiva accumulazione delle forze e delle condizioni oggettive e soggettive per
il processo rivoluzionario.
In tale ottica, perfino il suffragio universale era visto da Engels non come fine a
se stesso ma in quanto mezzo di organizzazione per affrontare l’inevitabile scontro
armato scatenato dalla borghesia, preparando tramite esso i rapporti di forza per il
momento opportuno in cui tale scontro non fosse più suicida. A questo proposito,
tutto il “minimalismo” riformista si rifugia nel parlamentarismo, rabbassato a mero
“cretinismo parlamentare” per dirla con Marx e Lenin, se si misuri l’attuale infimo
livello dell’elettoralismo partitico con le grandi potenzialità contraddittorie che
almeno caratterizzavano le lotte per il suffragio universale. L’intendimento
engelsiano è chiaro; come anche lo è quello leninista sul parlamento borghese, come
luogo di aggregazione, riferimento di massa e lotta contro le classi dominanti.
Come per il problema della transizione anche per una fase più tattica come quella
del programma minimo vale la considerazione che le condizioni attuali della teoria
marxista e di quello che rimane del movimento comunista non permettono
un’elaborazione compiuta del “programma minimo”, ma quantomeno, ovviando alla
sciatteria teorico politica oggi imperante, è possibile tentare un approfondimento dei
criteri inerenti qualsiasi discorso programmatico. Affrontare in questo modo il
dibattito ha il pregio di enucleare in concreto i limiti di comprensione della realtà e,
conseguentemente, di mettere a nudo, per poi superarla, sia la progettualità
strategica debole, sia l’inconsistenza tattica propositiva.
I rivoluzionari in una fase non rivoluzionaria
6. Qualora l’aggettivo “minimo”, impiegato per denotare una particolare forma
di “programma” dei comunisti, disturbasse qualcuno, in nome di un
rivoluzionarismo più velleitario che possibile, nulla impedirebbe di cambiarlo.
Tuttavia, codesto aggettivo, per le ragioni che tosto risulteranno chiare, è
indubbiamente il più adeguato, nell’accezione marxiana e marxista. Allorché i
comunisti elaborano e propongono un loro programma alle masse proletarie e alla
popolazione sottomessa dal sistema di potere vigente, un tale programma non può
che esprimere il punto di vista delle classi lavoratrici cui essi si riferiscono.
Cionondimeno, nella formulazione di un qualsiasi programma di classe, i comunisti
tengono conto delle condizioni economiche e sociali e della situazione politica in
cui il proletariato si trova in relazione allo stato dei rapporti di forza e di potere
espressi dalle classi dominanti.
Perciocché la portata e l’estensione del programma, pur restando fermo e
imprescindibile anzitutto il suo carattere di classe, varia a seconda della
perseguibilità tattica di obiettivi - non solo immediati, ma anche di preparazione di
lotte a venire - che vanno dall’organizzazione della resistenza proletaria per la mera
difesa dell’esistente alla prospettiva della presa di potere. Il giudizio meticoloso e
scientifico su quali siano le condizioni presenti in un dato momento e in un dato
luogo chiarisce le circostanze che fanno sì che un tale programma di classe possa
essere minimo o massimo. Entro la dialettica di questa coppia si pone il problema
del programma di transizione: dopo la presa del potere o al massimo nella fase breve
del dualismo di potere.
Tali criteri marxisti furono ripresi da Lenin nell’esperienza pratica della “dittatura
del proletariato” sulla borghesia sconfitta e contro la nobiltà dispersa, dopo
l’ottobre. Ma è ovvia l’osservazione che le condizioni dei rapporti di forza politici
erano in quella fase profondamente diverse. Allora i “còmpiti immediati” della presa
di potere sovietica, pur nella loro minimalità, si inscrivevano nella specificità storica
della prima fase di un “programma di transizione”, che è realtà ben diversa dalla
fase antagonistica borghese del “programma minimo” sul quale lo stesso Lenin
aveva dato determinanti contributi nei suoi scritti [dalle Due tattiche, del 1905, a
L’estremismo, del 1920], sia prima che dopo la rivoluzione d’ottobre.
7. Questa differenza ancora oggi non è ben compresa da molti. Già Marx [nella
Critica del programma di Gotha, in occasione dell’unificazione del partito
socialdemocratico tedesco nel 1875] commentava ferocemente il pressappochismo
delle parole d’ordine tipiche del velleitarismo verbale rivoluzionariesco
accompagnate da rivendicazioni pratiche copiate dalle piattaforme dei partiti
democratici della borghesia. A proposito di alcuni obiettivi velleitari - “belle
cosette”! - faceva notare che “tutte quelle belle cosette implicano il riconoscimento
della pretesa sovranità del popolo”. Appunto: una pretesa “democrazia” reale che è
ben lungi dall’essere effettiva in qualsiasi regime borghese. In risposta a questo
duplice errore - duplicità che si riscontra inevitabilmente, sempre, in tutte le
posizioni massimaliste a parole e men che riformiste nei fatti, Marx ammoniva [nella
critica del 1869 a Bakunin per il suo “rivoluzionario” programma contenente “una
parafrasi della "armonia del capitale e del lavoro" già predicata dai socialisti
borghesi”] che “il programma per il momento non si deve occupare né di
quest’ultima [la dittatura rivoluzionaria del proletariato] né della natura dello stato
futuro nella società comunista”.
Non a caso proprio l’incomprensione della differenza tra programma minimo e
programma di transizione, ma soprattutto del nesso strategico che li unisce sono
stati alla base delle numerose esperienze negative nel movimento operaio e
comunista. In particolare la rottura di tale nesso, unita alla progressiva cancellazione
del programma massimo sono stati alla base delle egemonie riformistico-borghesi
che hanno caratterizzato la destra socialdemocratica della II Internazionale e
l’ultima fase della III Internazionale e del periodo del Cominform: da ciò la
necessità di distinguere tra lo scorretto uso che del termine “Programma minimo” è
stato fatto storicamente e la profonda validità teorica e scientifica di tale concetto
marxiano.
8. Proprio il legame processuale che si instaura tra la prima fase di transizione
socialista, l’obiettivo strategico, e la sua preparazione tattica di cui il programma
minimo fa parte, fa in modo che quest’ultimo sia correttamente fondato. Lo stesso
ragionamento è valso storicamente anche per quei programmi minimi che erano
sottesi alle linee tattiche che avevano come obiettivo strategico fasi di “nuova
democrazia” quale sbocco dei fronti unici perfino nelle forme dei fronti popolari
antifascisti o antimperialisti. Ovviamente questi ultimi non sono i caratteri distintivi
del processo rivoluzionario che oggi si pone nel nostro paese e nella stragrande
maggioranza del cosiddetto mondo occidentale.
In Italia e in Europa, storicamente e materialisticamente, la tendenza della
rivoluzione è proletario e socialista cioè di una rivoluzione che proceda alla
trasformazione dei rapporti sociali di produzione e proprietà, risolva le questioni
sociali che la precedente società, appunto per il suo carattere capitalistico, è
impossibilitata a risolvere, instauri una piena “democrazia proletaria” nel quadro
della “dittatura del proletariato” che “è la forma particolare dell’alleanza di classe
tra il proletariato, avanguardia dei lavoratori, e numerosi strati non proletari di
lavoratori” - per dirla con Lenin.
Quindi sono sì i caratteri della fase di transizione socialista, nei suoi aspetti
economico-sociali, politici e istituzionali, che determinano materialisticamente i
contenuti e le forme della tattica e del programma minimo, ma tale tattica e
programma si pongono al di qua della fase della presa di potere. Ma giacché di presa
del potere (politico) in quel caso si tratta, è necessario ed indispensabile che a livello
sociale siano maturati tutti i necessari cambiamenti in termini di quei rapporti reali
che, per condizioni economiche e materiali, rapporti di forza sociali, sviluppo delle
contraddizioni capitalistiche e condizioni internazionali, permettano l’effettivo
inizio di una fase di transizione socialista, cioè tutte quelle condizioni alla cui
realizzazione è deputata la tattica e il programma minimo. Quanto detto porta a fare
due considerazioni.
9. La prima considerazione è riferita ai caratteri peculiari della fase imperialistica.
Storicamente in tale fase, rispetto al capitalismo dei primi dell’ottocento, viene
tendenzialmente meno l’aspetto progressivo ed espansivo del capitalismo. La sua
“missione storica” di preparazione delle condizioni economico-sociali per il
passaggio alla società socialista e poi comunista si sintetizza oggi nell’unificazione
del mercato mondiale. Se da un lato dunque il capitale si conferma la principale
forza sociale in questo processo, dall’altro si sviluppano gli aspetti parassitari,
distorti, “putrescenti” e reazionari di esso.
Il carattere monopolistico e finanziario dell’imperialismo transnazionale con
connesso sviluppo degli “investimenti” improduttivi e speculativi, lo sviluppo
diseguale a livello mondiale con formazione di aree di crisi economica, pauperismo
e disoccupazione anche nei paesi capitalisticamente dominanti e con la conseguente
dislocazione della formazione di nuovo proletariato industriale insieme allo
sviluppo di nuovi strati di semiproletariato e di piccola borghesia, l’espropriazione
capitalistica delle grandi masse popolari, oltre che di settori della stessa borghesia,
compiuta sulla base dei prezzi monopolistici e del massiccio intervento statale a
sostegno del capitale, la tendenza alla reazione che si configura nella ristrutturazione
neocorporativa e autoritaria della società - questi sono i dati salienti del presente
periodo storico e dell’incapacità a risolvere realmente quelle contraddizioni che in
teoria potrebbero essere risolte nella società capitalistica.
Ecco perché nella prima fase della transizione socialista, insieme alle
fondamentali misure socialiste, dovranno ancora esser portate a termine perfino tutta
una serie di trasformazioni e riforme di natura economica, sociale e politica che per
il loro carattere e il loro contenuto sono solitamente definite “democratico-
borghesi”. Solo il proletariato, appunto perché non teme la fuoriuscita dal sistema
capitalistico, è in grado di risolvere queste questioni. Tali obiettivi, che continuano
a sostanziare in parte il programma di transizione socialista, in una fase di dittatura
del proletariato che va oltre la fase “pre-socialista” della società, sono nel contempo
il fondamento materiale dell’alleanza strategica tra il proletariato e gli strati
semiproletari, di piccola borghesia e di nuova classe media, cioè quegli strati che,
al pari del proletariato, subiscono l’oppressione e l’espropriazione capitalistica. “La
pressione sui lavoratori si è accresciuta. E dicendo lavoratori si intende lavoratori
di tutte le classi. Il piccolo commerciante, rovinato dalla grande impresa
commerciale, l’impiegato, l’artigiano, l’operaio urbano e quello rurale, tutti
cominciano ora a sentire la pressione dell’attuale sistema di produzione
capitalistico. E noi additiamo loro una via d’uscita scientificamente fondata” - così
rifletteva Engels su tale questione [in un’intervista al The Daily Chronicle, del 1°
luglio 1893].
10. La seconda considerazione è riferita alla linea strategica.
Da quanto detto si riconferma la validità della concezione leniniana della
rivoluzione ininterrotta, che riprendeva le prime indicazioni di Engels e Marx