Table Of ContentLDB
La	Cultura
847
Giovanni	Arrighi
Il	lungo XX secolo
	 	
Denaro,	potere	e	le	origini	del	nostro	tempo
Presentazione	di	Mario	Pianta
Traduzione	di	Mauro	Di	Meglio
La	traduzione	del	Poscritto	alla	nuova	edizione	è	di	Paolo	Ortelli
Sito	&	eStore	–	www.ilsaggiatore.com
Twitter	–	twitter.com/ilSaggiatoreEd
Facebook	–	www.facebook.com/ilSaggiatore
©	il	Saggiatore	S.r.l.,	Milano	2014
Titolo	originale:	The	Long	Twentieth	Century
ISBN	9788865763667
Presentazione
	Il	lungo	XX	secolo	di	Giovanni	Arrighi	è	uno	dei	testi	più
importanti	del	dopoguerra	nel	campo	delle	scienze	sociali.	Un	«classico»,
apparso	in	inglese	vent’anni	fa,	nel	1994,	che	qui	viene	presentato	in	una	nuova
edizione,	ampliata	dal	Poscritto	pubblicato	nel	2009,	poco	prima	della	morte
dell’autore.	Al	centro	del	Lungo	XX	secolo	c’è	l’evoluzione	del	capitalismo	su
scala	mondiale	–	con	il	susseguirsi	di	cicli	di	accumulazione	–	e	il	suo	intreccio
con	l’evoluzione	del	sistema	di	potere	internazionale	–	i	cicli	di	egemonia
mondiale.	Vi	si	propone	una	teoria	che	unisce	processi	economici,	politici	e
sociali,	integrata	in	una	narrazione	storica	degli	ultimi	500	anni,	di	cui	viene
infine	esplorata	la	capacità	di	anticipare	gli	sviluppi	futuri.
L’originalità	 di	 Arrighi	 consiste	 appunto	 in	 una	 visione	 del	 sistema
capitalistico	mondiale	come	successione	–	a	partire	dal	XV	secolo	–	di	cicli	di
accumulazione,	 che	 vedono	 alternarsi	 fasi	 di	 espansione	 produttiva	 e	 fasi	 di
espansione	finanziaria,	e	di	cicli	di	egemonia,	con	l’ascesa	e	il	declino	di	una
potenza	dominante.	Il	ciclo	di	accumulazione	–	seguendo	Karl	Marx	e	Fernand
Braudel	 –	 è	 caratterizzato	 al	 suo	 avvio	 da	 un’espansione	 materiale,	 con
l’allargamento	 della	 produzione	 e	 del	 commercio	 di	 beni;	 quando	 poi	 tale
sviluppo	 incontra	 il	 proprio	 limite,	 emerge	 una	 crisi,	 a	 cui	 il	 «centro»
capitalistico	 risponde	 con	 un’espansione	 finanziaria	 che	 rilancia	 –
temporaneamente	–	l’accumulazione,	fino	a	una	crisi	terminale	che	porta	alla
riorganizzazione	del	sistema	mondiale	del	capitalismo.
Arrighi	estende	la	logica	dell’accumulazione	del	capitale	descritta	da	Marx
con	 riferimento	 ai	 singoli	 investimenti	 (la	 sequenza	 di	 denaro	 come	 capitale
monetario,	merce,	capitale	monetario	allargato)	alla	logica	del	capitalismo	nel
suo	 complesso.	 Nella	 prima	 fase	 di	 espansione	 materiale	 l’investimento	 di
capitale	 alimenta	 la	 crescita	 della	 produzione.	 Il	 capitale	 perde	 la	 sua	 forma
liquida	e	flessibile	e	viene	immobilizzato	in	un	particolare	insieme	di	merci	e
mezzi	di	produzione.	All’inizio	l’espansione	materiale	produce	grandi	profitti
monopolistici	per	i	capitalisti	che	ne	sono	stati	protagonisti,	ma	con	il	passare	del
tempo	il	flusso	di	capitali	investiti	nelle	stesse	attività	non	trova	più	un	parallelo
aumento	 delle	 opportunità	 di	 investimento	 e	 di	 profitto.	 Emerge	 così	 una
maggiore	concorrenza	tra	capitali,	che	riduce	il	tasso	di	profitto.
Il	 punto	 di	 svolta	 è	 dato	 da	 una	 «crisi	 spia»,	 in	 cui	 il	 capitale	 investito
nell’espansione	materiale	si	riduce	e	il	processo	di	accumulazione	rallenta.	La
mancanza	di	opportunità	di	profitto	spinge	i	capitalisti	a	mantenere	in	forma
liquida	una	parte	crescente	dei	capitali.	Questo	crea	le	condizioni	per	una	fase	di
espansione	 finanziaria,	 in	 cui	 i	 capitali	 puntano	 a	 ottenere	 profitti	 e
accumulazione	senza	passare	per	investimenti	materiali.	In	tal	modo	l’offerta	di
capitali	 monetari	 si	 allarga	 rapidamente,	 insieme	 alla	 domanda	 di	 liquidità	 e
all’indebitamento,	 anche	 per	 l’effetto	 della	 crisi	 sulle	 finanze	 pubbliche	 e
private.	 L’espansione	 finanziaria	 consente	 un	 periodo	 di	 rinnovata	 crescita	 e
accumulazione	del	capitale,	ma	alla	fine	porta	a	un	crollo:	le	bolle	speculative
che	avevano	gonfiato	le	quotazioni	di	borsa	o	i	valori	immobiliari	scoppiano,	i
debiti	accumulati	–	sia	dalle	imprese	che	dai	governi	–	diventano	insostenibili,
molte	 banche	 falliscono,	 la	 produzione	 non	 ottiene	 più	 credito	 e	 la	 caduta
dell’economia	può	trasformarsi	in	una	depressione	prolungata.	È	questa	la	«crisi
terminale»	del	ciclo	di	accumulazione.
Il	 processo	 di	 accumulazione	 si	 verifica	 su	 scala	 mondiale	 in	 base	 alla
gerarchia	 che	 si	 viene	 a	 creare	 tra	 un	 «centro»,	 dove	 confluiscono
l’accumulazione	stessa	e	il	potere	di	decisione	di	grandi	imprese	e	banche,	e	una
«periferia»	che	assume	un	ruolo	subalterno	come	fonte	di	forza-lavoro	e	risorse
materiali	 e	 finanziarie,	 oltre	 che	 come	 mercato	 di	 sbocco	 e	 destinazione	 di
investimenti	esteri	diretti.
Per	Arrighi,	la	sequenza	dei	cicli	di	accumulazione	è	accompagnata	da	una
successione	 di	 cicli	 egemonici	 (una	 definizione	 che	 si	 fonda	 sul	 concetto	 di
egemonia	 di	 Antonio	 Gramsci)	 nella	 sfera	 dei	 rapporti	 politici	 tra	 stati.	 Lo
sviluppo	 dell’accumulazione	 su	 scala	 mondiale,	 infatti,	 ha	 bisogno	 della
presenza	di	un	potere	politico	che	organizzi	i	mercati,	protegga	gli	investimenti,
assicuri	 i	 profitti.	 È	 quindi	 necessaria	 l’affermazione	 di	 un	 paese	 capace	 di
esercitare	 un’egemonia	 internazionale	 e	 di	 definire	 il	 centro	 del	 sistema
mondiale	 in	 cui	 il	 capitalismo	 è	 storicamente	 organizzato;	 intorno	 a	 esso	 si
struttura	una	periferia	di	paesi	subalterni	sul	piano	politico.	Come	nella	fase
ascendente	il	potere	egemonico	e	l’accumulazione	del	capitale	procedono	di	pari
passo,	così	la	fine	dell’espansione	materiale	e	la	finanziarizzazione	si	associano
a	una	diminuzione	del	potere	del	centro	egemonico:	nelle	parole	di	Fernand
Braudel,	l’ascesa	della	finanza	è	«il	segnale	dell’autunno»	per	il	potere	del	paese
leader.
Le	 fasi	 finali	 dei	 cicli	 sono	 caratterizzate	 da	 una	 transizione	 economica	 e
politica.	L’accumulazione	del	capitale	tende	a	spostarsi	verso	una	nuova	area,
che	 emerge	 come	 centro	 di	 un	 nuovo	 stadio	 di	 espansione	 materiale;	 un
passaggio	alimentato	dalla	stessa	espansione	finanziaria	precedente,	che	muove	i
capitali	 dai	 vecchi	 ai	 nuovi	 centri	 di	 accumulazione.	 Nei	 rapporti	 interstatali
emerge	 così	 un	 periodo	 di	 «caos	 sistemico»,	 seguito	 dal	 progressivo
consolidamento	di	un	diverso	ordine	mondiale,	con	una	nuova	potenza	egemone.
Le	 fasi	 di	 transizione	 sono	 sempre	 caratterizzate	 da	 una	 forte	 incertezza
economica	–	sulle	attività	emergenti,	sui	mercati	di	sbocco,	sugli	investimenti
più	promettenti	–	e	da	un’elevata	instabilità	politica,	che	rendono	incerta	anche
l’evoluzione	dei	rapporti	tra	stati	e	gli	assetti	istituzionali	destinati	a	definire	la
nuova	egemonia	mondiale.
Nel	 Lungo	 XX	 secolo	 Arrighi	 individua	 quattro	 cicli	 di	 accumulazione	 ed
egemonia,	 dal	 XV	 secolo	 a	 oggi:	 un	 ciclo	 genovese-iberico	 dal	 XV	 secolo
all’inizio	del	XVII;	un	ciclo	olandese	dal	XVII	secolo	alla	metà	del	XVIII;	un	ciclo
britannico	 dalla	 metà	 del	 XVIII	 secolo	 all’inizio	 del	 XX;	 un	 ciclo	 statunitense
apertosi	 all’inizio	 del	 XX	 secolo.	 In	 quest’ultimo	 ciclo,	 gli	 Stati	 Uniti	 hanno
preso	il	posto	dell’impero	britannico	come	potenza	egemone,	in	una	transizione
che	si	completò	con	la	Seconda	guerra	mondiale.	Tale	ciclo	ha	avuto	una	lunga
fase	 di	 espansione	 materiale	 –	 dagli	 anni	 quaranta	 agli	 anni	 settanta	 del
Novecento	–	caratterizzata	dalla	produzione	industriale	«fordista»,	che	è	stata
messa	in	crisi	dalle	lotte	sociali	nel	centro,	dalla	crescente	competizione	con
Europa,	Giappone	e	Asia	orientale	e	dalle	difficoltà	nel	controllare	i	paesi	della
periferia.	Al	rallentare	dell’accumulazione,	a	partire	dagli	anni	ottanta	i	capitali
dei	paesi	del	centro	si	sono	spostati	verso	investimenti	finanziari	più	«liquidi»,
alla	ricerca	di	rendimenti	maggiori.	Esattamente	come	durante	la	Belle	époque,
al	termine	dell’egemonia	britannica,	l’espansione	finanziaria	dagli	anni	ottanta	ai
primi	anni	del	2000	ha	consentito	una	momentanea	ripresa	dell’accumulazione,
ma	ha	anche	rappresentato	il	«segnale	dell’autunno»	del	ciclo	americano,	fino
alla	 crisi	 terminale	 del	 2008.	 Il	 Poscritto	 a	 questa	 nuova	 edizione	 esamina
proprio	le	lezioni	che	Il	lungo	XX	secolo	può	offrire	per	capire	la	crisi	attuale,	la
complessità	della	transizione	in	corso	e	gli	scenari	possibili	per	il	futuro.
La	capacità	anticipatrice	di	Giovanni	Arrighi	è	di	grande	rilievo	e	abbraccia
molteplici	 fronti	 di	 ricerca.	 Il	 primo	 e	 più	 immediato	 elemento	 riguarda
l’interpretazione	della	crisi	scoppiata	nel	2008.	Negli	ultimi	trent’anni	la	ricerca
economica	 mainstream	 ha	 posto	 la	 crescita	 economica	 come	 orizzonte
indiscutibile,	 una	 crescita	 fondata	 sull’espansione	 della	 finanza	 e	 sulla
liberalizzazione	di	mercati	ritenuti	in	grado	di	autoregolarsi.	Si	è	teorizzata	la
«fine	dei	cicli	economici»,	arrivando	ad	affermare	–	l’ha	fatto	Robert	Lucas
all’American	Economic	Association	nel	2003	–	che	per	la	macroeconomia	«il
problema	centrale	di	prevenire	la	depressione	è	stato	risolto	a	tutti	gli	effetti».
Già	nel	1999,	all’apice	dell’espansione	americana	trainata	dalla	«new	economy»
e	dalla	finanza,	Giovanni	Arrighi	e	Beverly	Silver,	in	Caos	e	governo	del	mondo,
sostenevano	che:
L’espansione	finanziaria	globale	degli	ultimi	vent’anni	circa	non	è	né	un	nuovo	stadio	del	capitalismo
mondiale,	né	il	prodromo	di	una	«imminente	egemonia	dei	mercati	globali».	Piuttosto,	è	il	segno	più
chiaro	del	fatto	che	ci	troviamo	nel	bel	mezzo	di	una	crisi	egemonica.	In	quanto	tale,	l’espansione
può	essere	considerata	un	fenomeno	temporaneo	che	si	concluderà	più	o	meno	catastroficamente,	a
seconda	di	come	la	crisi	sarà	affrontata	dalla	potenza	egemonica	in	declino	[…].	L’unica	domanda
che	rimane	aperta	a	questo	riguardo	non	è	se,	ma	fra	quanto	tempo	e	quanto	catastroficamente
l’attuale	dominio	globale	dei	mercati	finanziari	non	regolamentati	crollerà	(Arrighi	e	Silver,	2003,
pp.	316-317).
La	finanziarizzazione	dell’economia	da	cui	è	scaturita	la	crisi	del	2008	non	è
dunque	 una	 «degenerazione»	 eccezionale	 del	 capitalismo,	 risultato	 di
comportamenti	 individuali	 scorretti	 o	 di	 errori	 nelle	 politiche,	 come	 ha	 poi
argomentato,	a	crisi	ormai	avvenuta,	l’economia	mainstream.	D’altro	canto,	le
interpretazioni	«keynesiane»	della	crisi	–	per	esempio	quella	di	Paul	Krugman	–
sottolineano	il	ruolo,	nel	caso	degli	Stati	Uniti,	dell’eccesso	di	debito	privato
provocato	dalla	deregolamentazione	della	finanza.	Joseph	Stiglitz	e	altri	autori,
inoltre,	 chiamano	 in	 causa	 gli	 squilibri	 delle	 bilance	 dei	 pagamenti
internazionali,	i	problemi	della	domanda	e	gli	effetti	delle	disuguaglianze	nella
distribuzione	 del	 reddito.	 Tutti	 i	 «keynesiani»	 criticano	 poi	 le	 politiche	 di
austerità	 che,	 specie	 in	 Europa,	 hanno	 trasformato	 la	 crisi	 in	 prolungata
depressione.
Tuttavia,	 nell’interpretazione	 di	 Arrighi	 –	 la	 più	 convincente	 tra	 le	 molte
avanzate	 –	 l’espansione	 finanziaria	 non	 è	 che	 la	 modalità	 con	 cui
l’accumulazione	capitalistica	si	trasforma	quando	l’aumento	della	produzione	di
beni	non	è	più	sufficiente	a	sostenere	i	profitti	dei	paesi	al	centro	del	sistema
mondiale.	L’espansione	finanziaria	porta	inevitabilmente	alla	crisi	perché	non
può	 sostenere	 un	 processo	 di	 accumulazione	 duraturo;	 le	 lezioni	 della	 storia
insegnano	che	con	la	crisi	finanziaria	crolla	l’intera	organizzazione	economica	e
politica	di	un	particolare	ciclo	di	sviluppo	del	capitalismo.
Negli	 ultimi	 trent’anni	 i	 conflitti	 sociali,	 l’esaurimento	 del	 modello	 della
grande	 industria,	 i	 limiti	 ambientali	 allo	 sviluppo,	 la	 scarsa	 dinamica	 della
domanda	 –	 insieme	 all’emergere	 delle	 grandi	 capacità	 produttive	 dell’Asia
orientale	–	hanno	spinto	gli	Stati	Uniti	e	buona	parte	dell’Europa	a	spostare	gli
investimenti	 dall’economia	 reale	 alla	 finanza.	 Alla	 perduta	 competitività
industriale	si	è	sostituita	una	supremazia	nei	mercati	dei	capitali	su	scala	globale.
Ma	per	attrarre	a	Wall	Street	e	nella	City	di	Londra	i	capitali	di	tutto	il	mondo	è
stato	necessario	liberalizzare	i	flussi	di	capitale	di	tutti	i	paesi,	allentare	le	regole
per	 banche,	 borse	 e	 patrimoni,	 assicurare	 rendite	 finanziarie	 molto	 elevate,
ridurre	o	aggirare	l’imposizione	fiscale	su	di	esse.	Questo	è	quanto	avvenuto
negli	 ultimi	 trent’anni:	 una	 nuova	 belle	 époque	 della	 finanza,	 destinata	 a
tramontare	e	a	trascinare	con	sé	l’ordine	internazionale	su	cui	si	sosteneva.
Il	secondo	tema	su	cui	occorre	sottolineare	la	capacità	anticipatrice	di	Arrighi
è	la	dimensione	autenticamente	globale	della	sua	analisi,	fondata	sui	rapporti	tra