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Prima edizione ebook: maggio 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5241-0
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
I magnifici 7 capolavori
della letteratura per ragazze
Alcott, Piccole donne
Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Austen, Ragione e sentimento
Burnett, Il giardino segreto
Dodge, Pattini d’argento
Spyri, Heidi
Porter, Pollyanna
Edizioni integrali
Newton Compton editori
Avvertenza
Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di nascita
degli autori.
Louisa May Alcott
Piccole donne
Introduzione di Chiara Gamberale
Premessa di Berenice
Titolo originale: Little Women. Traduzione di Anna Maria Speckel.
Introduzione
Ahimè. Troppo spesso, nella vita (soprattutto mentre non ce ne accorgiamo)
ci ritroviamo a ferire i bambini che siamo stati: spezziamo le loro illusioni,
ribadiamo i loro traumi, barattiamo sicurezze con la loro smania d’avventura.
Ma a volte abbiamo la straordinaria occasione di fare un regalo a quei
bambini.
Ecco per me che cosa rappresenta occuparmi di questa prefazione. Il regalo
migliore che mi sia permesso di fare alla bambina che sono stata.
Non la risarcirà di tutte le incoerenze e i tradimenti di cui sopra che
(soprattutto mentre non me ne accorgo) le infliggo, certo.
Però la emozionerà talmente tanto, che rischierà uno dei suoi pericolosi
attacchi d’asma.
Perché era una bambina strana, quella lì. Caratteriale, la definirebbe oggi
uno psichiatra infantile, se la visitasse. Rompipalle, credo che la definissero i
suoi genitori.
Una bambina, insomma, che non stava mai bene da nessuna parte. Che
all’asilo invece di giocare con i suoi compagni di classe s’aggrappava alla
gonna della bidella, che non voleva mangiare, non sapeva dormire e che se ogni
tanto, libera dai suoi mostri, rideva, lo faceva in una maniera così esagerata da
cadere vittima, appunto, di misteriosi e abnormi attacchi d’asma.
I suoi genitori non erano pronti a una maledizione del genere come figlia:
ben lontani da quelle coppie di oggi così addestrate a riconoscere in un
labbruccio abbassato del loro piccolo l’insorgere di una qualche forma
patologica maniaco-depressiva, l’uno ingegnere, cresciuto fra le montagne del
Molise, l’altra ragioniera, cresciuta in un minuscolo centro affondato nella
pianura padana, si limitavano ad amarla, la bambina. Ma non la capivano.
Una cosa però l’avevano intuita: che niente, niente, niente la metteva
tranquilla (o giù di lì) come un racconto. Bastava quello di come si erano
conosciuti. O di che cosa avevano fatto durante la giornata. La piccola
nevrotica a quel punto mollava le sue paturnie, magicamente, e li ascoltava, con
bocca e occhi sbarrati.
Naturalmente, quei poveretti di genitori si affrettarono a fare incetta di tutti i
libri di favole possibili e immaginabili in commercio, perché arrivata la sera
forse anche loro preferivano distrarsi con una qualche vita immaginata,
piuttosto che mettersi a sciorinare il resoconto della loro – non così esaltante a
guardarla bene.
Insomma avevo cinque anni quando, esaurite tutte le favole a disposizione,
una sera mia madre si presentò nella mia cameretta con quel libro lì.
Piccole donne.
«È bellissimo, vedrai che ti piacerà», mi disse. E attaccò, come al solito, a
leggere.
Che fosse un intero romanzo non solo non avevo gli strumenti per
accorgermene. Non ne ho avuto il tempo: perché sono bastate poche righe.
«Natale non sarà Natale senza regali», borbottò Jo, stesa sul tappeto.
«Che cosa tremenda esser poveri!», sospirò Meg, lanciando un’occhiata al
suo vecchio vestito.
«Non è giusto, secondo me, che certe ragazze abbiano un sacco di belle cose
e altre nulla», aggiunse la piccola Amy, tirando su col naso con aria offesa.
«Abbiamo papà e mamma, e abbiamo noi stesse», disse Beth, col tono di chi
s’accontenta, dal suo cantuccio.
Poche righe: e, subito come solo subito possono cominciare le storie
d’amore più importanti della nostra vita, è successo. Avevo trovato finalmente
un posto che non si limitava a darmi un rifugio da quello (il mondo) dove mi
sembrava così impossibile vivere. Avevo trovato un posto dove proprio mi
piaceva stare: la casa delle sorelle March.
Un posto dove tutto, tutto, tutto mi tornava familiare tanto quanto mi
risultavano estranei e ostili l’asilo, la piscina, i giardinetti sotto casa.
«Leggi leggi». Assalivo mia madre, appena tornava dal lavoro, le buste della
spesa ancora da svuotare, il soprabito addosso. «Leggi!».
E non credo fu un soprassalto di pietà nei suoi confronti, ma l’impazienza di
doverla aspettare e l’insofferenza di dipendere da lei, che mi portarono, proprio
in quei giorni, a imparare a leggere da sola.
Ricordo come fosse ieri, come fosse adesso, la vertigine che mi ha dato lo
scoprire di poter entrare a casa March senza il permesso di nessuno.
E se di nessuno avevo bisogno per entrare, va da sé che nessuno poteva
obbligarmi a uscire: così mi sono definitivamente trasferita lì. Dalle mie quattro
amiche.
Non so dire con esattezza che cos’è che mi facesse sentire così
irrimediabilmente attratta da quel libro. Credo che ancora prima di un cosa, la
risposta fosse e continui a essere un come: laddove mi risultavano totalmente
incomprensibili le regole che scandivano l’esistenza dei miei coetanei e le loro
esigenze, laddove quei modi di comunicare così facili e spontanei a me parevano
complicatissimi e irraggiungibili, mi ritrovavo ad abbracciare quelli dei
personaggi di Piccole donne istintivamente. Condividevo nel profondo le loro
ragioni, mi dispiacevo dei loro dispiaceri, mi rallegravo delle loro conquiste. E
mentre esplodeva la guerra fredda, io mi angosciavo per quella civile
americana. Mentre le mie compagne si scambiavano gli accessori di Barbie
Paninara, io mi preoccupavo di un guanto smarrito al ballo dei Laurence, i
magnanimi, sorprendenti vicini delle March.
Non che le quattro sorelle mi fossero tutte, indistintamente, simpatiche. Anzi.
Rimproveravo a Meg un’esagerata compostezza, oscillavo fra la rabbia e
l’assoluta tenerezza per le ritrosie timide di Beth, sono arrivata a detestare Amy,
quando, per un semplice moto di stizza, dà alle fiamme del caminetto il
manoscritto di Jo.
Perché poi c’era lei. Oh, sì. Lei: Josephine March. L’alter ego di Louisa
May Alcott. Ma ancora prima, se è possibile, l’alter ego di tutte noi, donne
inquiete di oggi, adolescenti arrabbiate di ieri, bambine rompipalle
dell’altroieri.
Jo che era uguale solo a se stessa e che implicitamente ti suggeriva che sì, se
lo faceva lei, lo potevi fare anche tu. Jo che non si rassegnava, che non stava
mai bene da nessuna parte, che sicuramente, fosse andata all’asilo, si sarebbe
aggrappata alla gonna della bidella invece di giocare con gli altri bambini.
Perché odiava tutto quello che non fosse imposto da un qualche suo desiderio,
Jo. Ma che tutto quello che desiderava fare e incontrare, lo faceva e lo
incontrava con passione.
Così, dove non era riuscito ad arrivare nemmeno l’amore dei miei genitori,
ci arrivava lei: che mi dava l’autorizzazione a procedere. A non sintonizzarmi su
niente che non venisse da dentro di me. A non sentirmi sempre diversa, sempre
fuori fuoco, sempre fuori luogo: ma a concentrarmi sui miei, luoghi, sul mio,
fuoco. Fuoco che, guarda caso, condividevo con lei. Perché: certo! Era così
chiaro... Se anche Jo, come me, preferiva i libri alla realtà, anch’io, come Jo,
non potevo che sognare, da grande, di diventare una scrittrice!
Fatto sta che, nello stesso periodo in cui ho imparato a leggere da sola, ho
deciso (capito? sentito?) che l’unico destino adatto a me sarebbe stato quello di
scrivere.
Parecchi anni dopo, sarei riuscita a pubblicare il mio primo romanzo: e a
riguardarli adesso, quegli anni, hanno sempre, da qualche parte, avuto qualcosa
a che fare con Piccole donne.
Perché da piccola non potevo capire, non potevo sapere. Ma oggi capisco e
so: che per realizzare un sogno, una persona deve superare tante prove.
E così, sempre più lucidamente, le prove della mia Jo, che a cinque anni mi