Table Of Content© 2014 Milieu edizioni
© 2014 Andrea Staid
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Cover: Francesca Rossi
Immagine in copertina: Gianmarco Rossi Montecuccoli
Le fotografie presenti provengono dall’archivio privato di Gianmarco Rossi Montecuccoli
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Se tutti avessero una mela, rubarla costituirebbe un reato,
ma in questa società, possedere la mela è reato
e rubarla è un atto di giustizia.
Ascanio Celestini
PREFAZIONE
F L C
RANCO A ECLA
Succede, a leggere questo libro, di rendersi conto della tragicità del
presente in cui viviamo. I racconti degli intervistati, le loro cronache, gli
eventi di cui sono vittime e protagonisti coloro di cui si parla, la stessa mappa
vivente dell’immobile in viale Bligny a Milano ci restituiscono un mosaico
che fa violenza al senso comune, che scuote per i costi umani che comporta e
che ridisegna completamente il paesaggio dell’ovvio cui siamo abituati.
Accanto alla nostra vita quotidiana, esiste un mondo solo apparentemente
nascosto dalla nostra abitudine, in cui vivere è difficile, molto di più delle
nostre cronache di crisi e di penuria. A due passi da noi, che siano le spiagge
di Lampedusa o i viali “bene“ di Milano si muove la realtà nel suo
sconquasso più assurdo. Gente come noi che fugge da paesi difficili più del
nostro, e si trova per questo in situazioni impensabili e deve far fronte
all’assurdità scegliendo una maniera per sopravvivere.
Andrea Staid è tornato alle origini del fare antropologia, a quella scuola di
Chicago che si interrogò nei primi decenni del Novecento sulle migliaia di
hobos, di clochard, di senzatetto, di marginali e fuorilegge. Un approccio che
ha fondato una tradizione di ricerca dove è fondamentale il coinvolgimento,
ma che si astiene da qualunque romanticismo o da facili mitizzazioni. Per
fotografare il presente con la lucidità e l’apertura di chi cerca di coglierne
nella follia quotidiana i segni umani e disumani. Oggi c’è chi, come Bourgois
e Schonberg, si occupa della nuova marginalità urbana negli Stati Uniti; chi
come Jennifer Toth si cala nel sottosuolo di New York per riemergere con
storie terribili di uomini e donne talpa che sopravvivono nel buio e nel freddo
dei tunnel della metropoli. Staid ci conduce nel tunnel che inizia con la
decisione di emigrare, con le tragedie nel deserto libico o altrove, con il
pericolo e la morte in mare e arriva ai centri lager dove gli emigranti vengono
ammassati e trattati come criminali. Fino a convincerli a diventar tali, a
trovare un proprio modo di vivere nelle pieghe che la società prevede per i
fuorilegge. E infine Staid ci porta tra le parole dei protagonisti, fino ai destini
di marginalità e carcere.
Sono storie disperate e disperanti, ma anche storie piene di vita, dove si
capisce che l’immigrato dichiarato fuorilegge a un certo punto trova una
propria ridefinizione dell’esserlo. Storie di immediata disillusione, di rivolta,
di voglia di vivere nonostante. L’antropologia con la sua vocazione a
testimoniare è uno strumento perfetto da questo punto di vista: ci costringe a
renderci conto di come la vita quotidiana altrui non sia tanto differente dalla
nostra, e nei panni dei marginali potremmo tranquillamente trovarci noi.
In più, con una sottigliezza che Staid utilizza senza ideologismi, la
marginalità stessa in queste storie viene anch’essa ridefinita. Si è marginali
rispetto a una normalità che, se ristretta e ridotta, diventa un campo piuttosto
ampio. Ci si “ritrova” a essere marginali anche non volendolo, quando
dall’esterno le categorie di ammissione allo spazio sociale somigliano a
quelle di un club per giocare a golf o a tennis. Nella tragedia dell’emigrazione
verso l’Europa, oggi c’è la volontà precisa della politica europea di creare
quelle che Foucault chiamava “eterotopie”. L’Europa come luogo che si
serve della cittadinanza per limitare la dialettica sociale piuttosto che per
arricchirla. L’Europa che gioca col fuoco approfittando delle diaspore
mondiali ma che è poi incapace di gestirle.
Le storie raccontate in questo libro dimostrano proprio che la gestione
poliziesca dell’immigrazione non funziona nemmeno nelle sue intenzioni più
repressive. Il flusso non si arresta e la nuova immigrazione trova vie di fuga
che paga duramente, e che ampliano crisi sociale e conflitti sociali.
Gli immigrati, lungi dall’essere carne sociale passiva, materia nuda da
contrabbandare, sono soggetti che decidono di prendere atto della “non
collocazione” a cui li destina l’Europa. Si inventano un ulteriore paese in cui
emigrare, quello della marginalità o della delinquenza, del sottobosco urbano
e se possibile della latitanza.
Pensiamo a questa situazione su larga scala, a ciò che comporta a livello
di destabilizzazione delle società, e poi chiediamoci se non sarebbe molto più
intelligente ampliare lo spazio della cittadinanza europea. A meno che,
ovviamente, in una visione negriana e delle sorti progressive degli sfruttati
non si veda nella marginalità e nelle tragedie umane che ne conseguono la
strada per la coscienza politica di un nuovo soggetto rivoluzionario. Tutte
analisi magnifiche, che non tengono però in conto i costi umani che
comportano né il fatto che i protagonisti di questa storia non vogliono essere
eroi della nuova rivoluzione, ma pensano di avere semplicemente diritto a
una vita decente.
Leggendo le pagine di questo libro viene spesso da pensare al dibattito
che proviene a noi da Hanna Arendt sulla cittadinanza e alle intuizioni di
Giorgio Agamben sulla “nuda vita”. È vero, questi nuovi “non cittadini” sono
gettati nello spazio indifferenziato del corpo nudo di chi non rappresenta che
se stesso. È un corpo dolorante, affogato, riemerso a volte, un corpo che si
mutila, che fugge, che cerca uno spazio dove nascondersi e proteggersi. Ma
insistere sulla “nuda vita”, come osserva Lila Abu-Lughod (lo fa nell’ultimo
libro, Do Muslim Women Need Saving?), porta anche a degli equivoci.
Perché questi protagonisti e protagoniste dell’emigrazione non sono
totalmente “tabula rasa”, portano con sé una storia e una dignità, una identità
che non è solo “d’origine”.
Le loro strategie di sopravvivenza, la loro tattica di re-insediamento e di
nascondimento, il loro scegliere lo spazio della marginalità, avviene dentro a
una appartenenza culturale e a un orizzonte di rapporti. La loro stessa
possibilità di fuga dai centri lager è legata alla capacità di fare rete e di avere
reti di solidarietà.
Credo che il valore de I dannati della metropoli stia proprio in questo, nel
mostrare molte di queste storie di vita, nel raccontare talmente da vicino il
presente da non aver bisogno di un’ideologia di lettura; e avere la possibilità,
invece, di tentare di capire entrando nella carne del mondo, nel suo essere
così com’è e non come vorremmo che fosse. È la vocazione
dell’antropologia, quella di privilegiare il “capire il mondo” sulla pretesa
veloce di “cambiare il mondo”, o meglio, di mettere l’accento sui troppi
errori di un transfert che operiamo “politicamente” sulle vite degli altri come
materiale per il nostro desiderio di rivoluzione.
INTRODUZIONE
Questo lavoro nasce dalla volontà di analizzare con un metodo
antropologico le storie e le scelte di quelle donne e di quegli uomini che
vivono ai margini delle nostre città, che attraversano le nostre metropoli
senza essere calcolati né ascoltati, fino a quando non finiscono sulle cronache
dei giornali diventando oggetto di strumentalizzazione da parte di qualche
politico, o giornalista di turno, che usa i loro nomi, o spesso solo i loro paesi
di origine, per alimentare la politica della paura. Quella politica che si
costruisce con leggi liberticide, tecniche di controllo sempre più accurate e
pervasive, con la creazione di database in grado di schedare chiunque, con
l’aumento di polizia e militari nelle strade, con la proliferazione del video
controllo e la morte dello scambio culturale e della vita sociale.
Troppo spesso nei nostri studi tendiamo a dare un’immagine dei migranti
come degli schiavi volontari, in balia degli eventi, delle persone che
accettano tutto per vivere, per mangiare e aiutare le loro famiglie rimaste in
patria.
Sono molti gli uomini e le donne migranti disposti ad accettare gradi
estremi di sfruttamento, sopruso e autoritarismo, ma è anche vero, e allo
stesso tempo è importante narrarlo, che sono molte le donne e gli uomini che
decidono di rivoltarsi e di non accettare di essere schiavi.
Sono convinto che l’antropologia sia un metodo, uno strumento troppo
poliedrico per rimanere chiuso tra le mura accademiche; ritengo infatti che
l’antropologia e la ricerca sul campo siano oggi, più che in passato, utili per
analizzare e comprendere i mutamenti, le contraddizioni, i confini tra società
legittima e società illegittima, i conflitti e le ibridazioni in atto nella nostra
società contemporanea.
La maggior parte delle persone, e degli stessi antropologi, non inquadra
chiaramente il reale “stato d’emergenza” quotidiano in cui sono costretti a
vivere gli individui socialmente vulnerabili; va constatato infatti che sono
ancora pochi gli accademici che decidono di pubblicare o lavorare attraverso
conversazioni e interviste non strutturate in quello che è il mondo della
criminalità, nelle zone grigie delle nostre metropoli.
È necessario indagare in quella giustapposizione di due mondi, o città,
che coesistono ma si ignorano, o meglio si guardano, nonostante la
prossimità, da una distanza insuperabile: la città legittima dei cittadini,
dell’opinione pubblica, delle corporazioni e associazioni professionali, dei
partiti e quella più o meno invisibile dell’illegittimità, dell’immigrazione,
della micro-criminalità, della prostituzione palese o occulta, della
tossicodipendenza. Due città ovviamente, in una posizione profondamente
diversa e asimmetrica: la prima non conosce la seconda, ma la evoca in
continuazione, ne fa la fonte di ogni disagio o, come si dice oggi, “degrado”
urbano e civile, vedendovi il terreno di coltura di ogni possibile minaccia,
popolandola di anormali e devianti; la seconda vive nell’ombra
dell’economia informale, semi-legale o illegale, in luoghi scarsamente visibili
dalla città legittima, e soprattutto non è dotata di voce. La città legittima
pronuncia parole di paura e sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a
quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro
domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di
prostituzione a quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale. La
città illegittima è titolare di un’offerta di servizi la cui clientela è costituita in
gran parte da membri della società legittima.1
Per conoscere meglio queste due città che convivono in una sola tra il
novembre del 2008 e luglio 2013 ho trascorso molte delle mie giornate a
stretto contatto con donne e uomini che vivono, attraversano, subiscono e si
ribellano nelle città, nelle carceri e nei Cie italiani.
I primi anni di ricerca, passati soprattutto con lavoratori migranti, hanno
portato nel 2011 alla pubblicazione di un saggio di antropologia politica, Le
nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù;2 mentre a
partire dalla primavera del 2012 ho indirizzato il mio studio su quella parte di
migranti che preferisce delinquere che subire.
Molto spesso in questi anni si sono sovrapposti i piani di ricerca, per
questo nel libro troverete anche la voce di migranti che ho intervistato nel
2009 o nel 2011.