Table Of ContentAntonio Garrisi
GRAMMATICA DEL DIALETTO
LECCESE
2014
Quella cultura regionale, iniziata da quando Roma fondò le sue colonie a Brindisi, già capitale
della Messapia (244 a. C.) e a Lecce (125 a. C.), ci è stata tramandata, senza soluzione di continuità,
dal dialetto leccese di cui la presente Grammatica è un importante documento per la conoscenza della
latinità regionale e dell'attuale vitalità d'uso del sistema orale nella comunicazione sociale.
Il sistema linguistico leccese, come risulta da tutta la descrizione della Grammatica, è di tipo
italo-romanzo secondo una varietà meridionale, con tratti più vicini al sistema siculo-calabrese, e con
altri tratti più generalmente meridionali.
Accanto a questa caratteristica di schietta romanità, la latinità salentina presenta anche una più
tardiva caratteristica d'epoca medievale.
La Grammatica di A. Garrisi, oltre ad essere documento di una latinità regionale del Salento, è
anche documento dell'uso vivo del dialetto utilizzato nella fascia della comunicazione sociale in un
territorio dominato da Lecce.
Il sistema linguistico leccese, dal punto di vista storico è un dialetto, in continuità latina,
modificatosi nel corso del tempo per diverse innovazioni d'origine interna e per influssi esterni di
centri dominanti; dal punto di vista culturale è invece il sistema orale utilizzato nella fascia bassa della
comunicazione sociale.
p. Giovan Battista Mancarella
PRESENTAZIONE
Con la pubblicazione della Grammatica del dialetto leccese di Antonio Garrisi, la
"Gazzetta del Mezzogiorno" offre ora ai suoi lettori un importante documento a seguito della
Storia del Salento, già pubblicata in 26 puntate nel 2004.
Quella pubblicazione ci fece rivivere i momenti più significativi delle nostre radici
regionali, dai primi insediamenti umani nel territorio sino alla stabilizzazione delle diverse
popolazioni che hanno marcato la nostra identità salentina: un'identità inizialmente territoriale
d'origine messapica, diventata poi anche identità culturale con la romanizzazione della
Messapia. Sappiamo ormai con certezza dalle fonti che quella romanizzazione, che già aveva
raggiunto il territorio dei Peuceti e Dauni (Messapi del nord), a partire dal III secolo a. C.
incominciò a premere sui confini della Messapia. I Messapi, che sino allora erano stati in
lotta con i Greci di Taranto per respingere le loro mire espansionistiche, non furono più in
grado di opporsi a Roma la quale, col pretesto di punire Taranto, aveva mandato i suoi
eserciti per conquistare tutta la Penisola salentina e assicurarsi il dominio sull'Adriatico.
Già con le prime vittorie romane il territorio messapico cominciò ad essere assegnato ai
veterani romani e, dopo la Guerra sociale, con la definitiva vittoria romana dell'89 a. C., tutto
il territorio salentino venne assegnato alle gentilizie famiglie romane. Per almeno durante due
secoli i Messapi, sempre più spogliati dei loro possedimenti e deportati come schiavi dopo
ogni rivolta, alla fine del primo secolo d. C. erano diventati una classe economicamente
disagiata e socialmente emarginata, costretti ad abbandonare anche la loro lingua e usare il
Latino per la comunicazione linguistica con la classe dominante dei vincitori. Il lungo
contatto nel comune territorio salentino dei padroni latini e dei coloni e schiavi nativi
latinizzati, dette origine ad una nuova popolazione che nella lingua latina ricomponeva la
propria cultura regionale.
Quella cultura regionale, iniziata da quando Roma fondò le sue colonie a Brindisi, già
capitale della Messapia (244 a. C.) e a Lecce (125 a. C.), ci è stata tramandata, senza
soluzione di continuità, dal dialetto leccese di cui la presente Grammatica è un importante
documento per la conoscenza della latinità regionale e dell'attuale vitalità d'uso del sistema
orale nella comunicazione sociale.
Il sistema linguistico leccese, come risulta da tutta la descrizione della Grammatica, è di
tipo italo-romanzo secondo una varietà meridionale, con tratti più vicini al sistema siculo-
calabrese, e con altri tratti più generalmente meridionali.
La prima caratteristica della latinità regionale del Salento è quella di una schietta
'romanità', nel senso cioè che un Latino diffuso nella CALABRIA romana, o antico Salento, è
stato appreso dai Messapi senza particolari interferenze fonetiche, in quanto il loro sistema
linguistico era molto diverso da quello latino, allo stesso modo degli Etruschi che hanno
continuato una romanità schietta, base del toscano, a causa della forte divergenza tra sistema
latino e quello etrusco. Nella vicina APULIA il Latino appreso da parlanti in maggioranza
Sanniti, o più genericamente Osco-umbri, è stato contaminato da esiti di sostrato, in quanto
Latino e Osco appartenenti allo stesso gruppo linguistico. Il Salento oggi, in continuazione di
un Latino 'romano' ignora la sonorizzazione tipicamente pugliese d'origine sannita per
Andonio, cambana, angora, ma conosce, almeno in buona parte del suo territorio
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l'assimilazione italica per i gruppi -ND- (kuannu), e per -MB- kiummu) come traccia di un
probabile influsso ricevuto dai Messapi a contatto dei Sanniti: a Lecce però A. Garrisi trova
sempre manda, índere 'vendere', pende, respúndere, ecc.
Accanto a questa caratteristica di schietta romanità, la latinità salentina presenta anche
una più tardiva caratteristica d'epoca medievale.
Anche nell'Italia centro-meridionale il sistema del vocalismo tonico del Latino si era
mutato nel nuovo sistema qualitativo a 7 vocali, con le due vocali estreme i, u chiusi, le due
vocali medie e, o stretti, le due vocali medie e, o aperti e la vocale centrale a. La
realizzazione delle due vocali e, o stretti non risultava univoca in tutto il territorio, nel senso
che a Roma questi suoni venivano resi molto vicini a e, o stretti, a Lecce, e in altri punti,
questi stessi suoni venivano resi simili a i, u larghi. Questa particolare realizzazione
meridionale, in parte oscillante, si è protratta sino al VI secolo quando, per influsso dei
Longobardi di Benevento, si rafforzò la tendenza, che era stata anche latina, a modificare le
vocali toniche secondo una specie di armonizzazione con le vocali finali, per cui i suoni di i,
u larghi finirono per stabilizzarsi in e, o a contatto di -A, -E, -O finali, e a chiudersi in i, u a
contatto di -I, -U finali: troviamo così a Brindisi lu mesi, li misi, la sera, l'acitu, lu nipoti, li
niputi, la kroce, li kruci. A Lecce, dominata dai Bizantini, non essendo arrivata l'innovazione
beneventana, i suoni di i, u larghi hanno finito per avvicinarsi di più a i, u chiusi, con i quali
si sono confusi, per cui sempre lu mise, li misi, la sira, lu citu, lu nepute, li neputi, la kruce, li
cruci.
Una successiva innovazione della stessa origine ha poi modificato anche le due vocali
medie e, o aperti con, o senza, dittongo secondo le vocali finali: in questo caso l'innovazione
ha raggiunto tanto Brindisi che Lecce, (ma non Otranto-Ugento) per cui in tutti e due i
territori si trova lu pete, li pieti, lu dente, li dienti, la socra, lu suecru, la morta, lu muertu,
ecc. Di particolare però, nel territorio di Lecce si trova la monottongazione per alcune forme
lessicali come l'éu 'uovo', ertu 'orto', ergiu 'orzo' (ma nel brindisino sempre ueu, uertu, uergiu,
ecc.).
L'arrivo delle innovazioni medievali ha prodotto una triplice distinzione linguistica tra il
tipo 'brindisino', che ha conosciuto le due innovazioni, il tipo 'leccese', che ne ha conosciuta
una sola, e il tipo 'otrantino-ugentino', che le ha ignorate completamente. Anche se con questa
triplice distinzione, l'antico territorio salentino risulta ancora ben distinto dal vicino territorio
pugliese, per tutta una serie di tratti linguistici, come la palatalizzazione di A tonico (kesa
'casa', pene 'pane'), il frangimento vocalico (séire, 'sera', nepóute 'nipote'), la caduta delle
atone (kes- 'casa', pen- 'pane', séir- 'sera', nepóut- 'nipote'), ecc., tratti presenti a nord della Via
Appia, già confine romano che separava nell'organizzazione amministrativa della REGIO
SECUNDA la CALABRIA dalla APULIA. Questa distinzione d'origine medievale non ha
però cancellato i tratti di un'antica latinità comune a tutta l'Italia meridionale, per cui molte
forme lessicali raccolte nella Grammatica, come nzurare 'maritare', vúngulu 'baccello'
risultano diffuse non solo in territorio pugliese, ma anche in quelli sardo, calabrese e
siciliano; così come sono diffusi anche antichi grecismi penetrati nel latino regionale come
naka 'culla', cilona 'tartaruga'.
La Grammatica di A. Garrisi, oltre ad essere documento di una latinità regionale del
Salento, è anche documento dell'uso vivo del dialetto utilizzato nella fascia della
comunicazione sociale in un territorio dominato da Lecce.
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Il sistema linguistico leccese, dal punto di vista storico è un dialetto, in continuità latina,
modificatosi nel corso del tempo per diverse innovazioni d'origine interna e per influssi
esterni di centri dominanti; dal punto di vista culturale è invece il sistema orale utilizzato
nella fascia bassa della comunicazione sociale.
Ogni lingua romanza, in quanto risultato di un lungo processo culturale di tutta una
comunità in un territorio unitario, si presenta come una fascia di sistemi o registri linguistici,
con quello letterario-scientifico al vertice della fascia per la massima circolarità in tutto il
territorio, i vari sistemi regionali ai livelli medio-alto e medio-basso per la circolarità in
territori limitati, il dialetto nella parte più bassa per la minima circolarità linguistica. Data
questa sua stessa collocazione e limitata circolarità, il dialetto non è la corruzione della lingua
comune, o nazionale, da bandire dalla fascia della comunicazione sociale ma, nello stesso
tempo, non è neppure un sistema da poter promuovere a usi più alti che non gli competono;
come un dialetto deve essere rimosso quando è la triste eredità di una classe disagiata di
analfabeti, così anche non deve essere piegato alle sperimentazioni di eventuale classe
superagiata di alfabetizzati. Il dialetto rimane sempre una ricchezza della comunità per
utilizzare distinti sistemi per usi diversi, ma non può aspirare di essere promosso a 'lingua',
data la sua minima circolarità e la sua identificazione con una cultura minore.
A. Garrisi, che con la raccolta di costrutti tipici e frasi idiomatiche (confronta tutta
l'Appendice) ha ben documentato l'energica vitalità del dialetto leccese, non ci nasconde che
proprio tale vitalità possa avere anche un risvolto negativo: il dialetto nella continua
resistenza agli influssi della lingua comune per mantenere inalterato il proprio sistema
fonetico, morfo-sintattico e lessicale, può arrivare a sovrapporsi allo stesso sistema della
lingua comune, impedendo ai parlanti la dovuta separazione dei distinti sistemi negli usi
diversi. Perché il parlante leccese possa mantenere la consapevolezza, per es. di articolare in
Italiano patria, quattro senza la sua abituale resa gengivale, dovrà possedere la doppia
competenza della propria grammatica dialettale e quella della lingua italiana per non
incorrere nelle sanzioni della comunità nazionale.
p. Giovan Battista Mancarella
Squinzano 5 maggio 2005
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Al lettore
Conoscevo di fama Antonio Garrisi quale autore del Dizionario Leccese-Italiano e del
Glossario Italiano-Leccese, dai quali ho attinto per tentare di districarmi ogni qualvolta mi ha
attanagliato un dubbio sull'uso corretto o sul significato di una parola dialettale leccese.
L'occasione di un incontro con l'autore è stata da me cercata per poter, insieme a lui,
vedere cosa si poteva fare per rendere rappresentabile dal punto di vista teatrale qualche
opera letteraria del Capitano Black, Giuseppe De Dominicis, suo illustre concittadino del
quale, nessuno come lui, è un approfondito studioso ed estimatore. Lo testimoniano le varie
pubblicazioni fatte dal Garrisi sul De Dominicis ed elencate alla fine del libro.
In quel primo incontro, tenutosi in casa sua, al quale partecipò anche sua moglie e Gianni
Solinas, dopo aver parlato e sviscerato l'argomento che mi stava a cuore, si parlò ovviamente
di dialetto, e fu allora che appresi da Antonio Garrisi che aveva pronta la grammatica del
dialetto leccese, da oltre dieci anni, ma che non si era mai deciso a pubblicarla.
Raggiungemmo l'intesa che sarebbe stata la mia Associazione Culturale "Corte dei
Musco" a rendersi promotrice della pubblicazione. Ed è stato così.
Contattai "La Gazzetta del Mezzogiorno", che è stata sempre attenta ad iniziative
editoriali riguardanti la nostra cultura, trovando subito la massima disponibilità.
La stessa cosa è avvenuta con il Professore di Filologia Romanza dell'Università di Lecce,
Padre Giovan Battista Mancarella, che con la sua presentazione ha dato giusto
riconoscimento della valenza scientifica della pubblicazione.
Come pure la famiglia Re, gelosa custode dei quadri del grande pittore Geremia Re, ha
contribuito con entusiasmo acconsentendo a far uscire in copertina, curata dal grafico Vittorio
Contaldo, un particolare de "Il contadino" una delle ultime e più significative opere del
maestro.
Ed è grazie a tutte queste persone, a "La Gazzetta del Mezzogiorno" e all'intervento
finanziario dell'Amministrazione Provinciale di Lecce, che è stato possibile pubblicare la
"Grammatica del dialetto leccese", che è tra le prime, se non la prima, tra le grammatiche di
dialetto pubblicate in Italia.
Oronzino Invitto - Presidente di "Corte dei Musco"
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PARTE PRIMA:
Cenni storico-linguistici e annotazioni fonetiche
Il linguaggio prerogativa dell'uomo
Il linguaggio è prerogativa necessaria solo per l'uomo in quanto essere ragionevole e
socievole. Persino un eremita sente il bisogno di colloquiare e, difatti, parla con se stesso e
con Dio. Gli uomini, vivendo in comunità, non possono fare a meno di comunicare tra loro e,
poiché hanno molti e svariati bisogni, numerosi e complessi messaggi hanno da esternare ai
propri simili. Inoltre, essendo mutevole la natura umana, sono variabili pure gli stati d'animo
e sono modificabili i modi e i mezzi di espressione e di comunicazione.
Gli uomini si esprimono in tante maniere diverse: con i gesti e con gli sguardi, con la
danza e con la musica, con i simboli, ecc; ma il mezzo principale di comunicazione, il più
completo e il più usato, è senz'altro il linguaggio sia parlato che scritto.
Le maniere di espressione di un animale sono appena una mezza dozzina; un indigeno
boscìmano della boscaglia africana utilizza un linguaggio formato di poche centinaia di voci;
la lingua italiana supera i 400.000 vocaboli; la lingua inglese ne ha ben 800.000. E l'idioma
leccese? Beh, il nostro dialetto (la lingua di Lecce, ceppo delle parlate salentine) supera
appena i 17.000 lemmi (vedi A. GARRISI, Dizionario Leccese-italiano, 1990), parole
bastevoli, tuttavia, per esprimere qualsiasi sentimento e comunicare qualunque messaggio,
sufficienti per formulare qualsiasi concetto e descrivere qualunque azione, sia a voce che con
la scrittura, sia in prosa che in versi.
La parlata leccese figlia del latino
Il dialetto leccese, come tutti gli altri idiomi regionali d'Italia, è derivato dal latino
volgare, il linguaggio del popolo (vulgus), lingua che duemila anni fa era parlata in tutta la
romanità. Nel Salento (dalle legioni romane occupato nell'anno 266 a. C.) la cultura romana
era penetrata ancor più profondamente, tanto è vero che fu un 'rusçiaru', Quinto Ennio, nato a
Rudiae nel 239 a. C. e morto a Roma nel 169, l'iniziatore della poesia latina e fu sommamente
lodato per la sua vasta produzione letteraria; e suo nipote Marco Pacuvio, nato a Brindisi nel
220 a. C. e morto a Taranto nel 130, fu il primo scrittore in latino di tragedie teatrali.
Il dialetto leccese, dunque, ha come lingua madre il latino, il quale aveva finito di
sovrapporsi alla parlata messapica (rimanendone in certo modo contagiato, sicuramente nella
pronunzia), e vanta come sorella maggiore la lingua italiana; prova ne sia il fatto che il
dialetto leccese è costituito, nella grandissima maggioranza, di vocaboli pervenuti dal latino o
direttamente o tramite l'italiano. Se consultiamo il dizionario leccese, rinveniamo un gran
numero di parole latine che sono passate tali e quali, o con lievi differenze, nel nostro
dialetto, così che non sbaglia chiunque affermi che, tra gli idiomi provinciali italiani, quello
leccese è il più aderente al latino volgare, al latino parlato dal popolo romano.
Per rèndercene conto, poniamo un po' di attenzione al lessico e, pur tralasciando centinaia
di nomi identici nella forma e nel significato (p. es. anima, avaru, butìru, carota, cùrrere,
desperare, èssere, farina, generosu, gioentute, iussu, lacertu, lupa, màsculu, mula, nora, omu,
persona, petra, quintadecima, rètina, rosa, sàrcena, seca, sedile, sicca, tamariscu, trezza, unda,
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vanu, velu, vuluntate, zelare, zona, ecc., ecc., e l'espressione [qu]isti suntu fili mei, ecc.)
facciamo un primo raffronto tra le seguenti voci:
leccese italiano
latino
ansula asula ansa di vaso
arcu arcu arco
bibere biere bere
capitium capizzu capecchio
cistus cistu cesto
cubare cuare accovacciarsi
dicere dicere dire
ventare entare annusare
fisca fisça fiscella
insita insita innesto
intra intra entro
laus lau lode
longa longa lunga
machina machina macchina
magnus magnu grande
merula merula merlo
musca musça mosca
nasica nasca nasone
niclaricus nicchiarecu non coltivato
patronus patrunu padrone
pilus pilu pelo
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guardare
respicere respicare
ancora
rota rota ruota
ruina ruina rovina
suburra saurra zavorra
susceptus suscettu figlioccio
scuparius scuparu spazzatoio
saetula setula pianticella
simula simula semola
strata strata strada
termitem termete olivastro
umbra umbra ombra
viriola verola ghiera
Dissomiglianze fonetiche e lessicali
Bisogna tenere presente che anche durante la romanità più profonda e sentita (fino a tutto
il sec. V) la lingua latina parlata dalla gente di Rudiae, per esempio, di Lupiae, dei casali e dei
borghi circonvicini, non era del tutto simile alla lingua latina parlata dalla plebe di Roma e
dal volgo del Lazio. Sulle bocche dei nostri antenati discendenti dai Messapi-Sallentini le
voci lessicali trasmesse dai coloni latini acquistavano una tonalità particolare, una cadenza
tipica (teniamo presente, ancora oggi, la differenza sonora tra l'italiano parlato dai Toscani e
l'italiano parlato dai Campani!); il modo stesso di pronunziare certe sillabe, certi nessi, era
diverso, influenzato da secolari dissomiglianze fonetiche e da differenti abitudini linguistiche,
dovute a dissimili sostrati fonetici antichi (ancora un Torinese a lungo residente a Lecce non
imparerà mai a riprodurre certi suoni tipici della pronunzia leccese!).
A mo' d'esempio:
Invece di herba, oculus, frigidus, tabula si cominciò a dire popolarmente erva, oclus,
frigdus, tavula; invece di camisia, pessulus, sanitatem, sunt (essi sono) parlando si
pronunziava camisa, pesulu, sanetate, suntu; invece di calumnia si diceva calugna; invece di
ius si disse iussu; sulcus diventò surcu, e praecoquus (precoce) diventò prima precocu >
percocu e poi percuecu (pesco); ecc.
Ancora il popolo via via cominciò ad eliminare tanti vecchi vocaboli e prese a sostituirli
con altri più congeniali. Ecco altri facili esempi, per dare l'idea. I Romani usavano dire
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'bellus', aggettivo maschile, per significare 'bello, grazioso'; per indicare la guerra dicevano
'bellum', sostantivo neutro, e per loro non c'era da confondere i due nomi e i due significati.
Ma nel medioevo, quando caddero nel parlare le consonanti finali -s di bellus e -m di
bellum, si ebbe una identica forma lessicale 'bellu' per indicare due concetti diversi, e
quest'unica voce certamente ingenerava confusione. Perciò la parola 'bellu' rimase a
significare soltanto 'bello e grazioso', e, per indicare la 'guerra, si usò il nome uerra, preso dal
parlare dei neovenuti Longobardi dominatori, che infatti dicevano werra.
Nel frattempo i lavoratori dei campi tralasciarono di usare il termine equus (= nobile
cavallo da cocchio e da sella) e gli preferirono la parola caballus (= ronzino, l'utile bestia da
lavoro), anche perché, poi, per gente illetterata equus era da confondere con 'aequum'
(pianura) e con 'aequus' (equo, giusto); vinse, pertanto, la voce popolare caballu, di
comprensione più immediata.
Inoltre, i poveri come potevano usare il vocabolo domus (= abitazione ampia e bene
arredata) se la propria dimora era un'umile piccola casa (casupola, capanna, tugurio)?; e
dunque nel linguaggio comune prevalse quest'ultimo termine, casa.
E il popolano analfabeta, invece di presentare: 'uxorem meam' (la mia signora moglie),
diceva semplicemente 'muliere[m] mea[m]' (mia moglie), successivamente diventato in
leccese > mugghiere mea > mugghièrema; e indicando sororem suam disse soru sua > sorsa.
Infine, invece di continuare a chiamare avis l'uccello (che, per di più, si confondeva con
avus = nonno) lo disse aucellus; e così invece di dire ovis la pecora, ebrius l'ubbriaco, scriba
lo scrivano, apothecarius il bottegaio, labor il lavoro gratificante, li disse rispettivamente
pècora, ebriacus, scribanus, putearius, fatiga (cioè lavoro faticoso), ecc.; al vocabolo leva
preferì sinistra; a callidus > vitiosus; a hispidus > pilosus; a ludus > jocus; a urbs > civitas; a
sus > porcus; ecc.; invece di cantare 'Dies illa' recitò 'tiesilla'.
Invece di anulus disse anellus (anello), e a cerebrum preferì cerebellum (cervello); al
letterario os preferì il popolare bucca (bocca); invece di senex (vecchio) usò il più facile
vetulus; ecc.
Al posto dell'antica voce emere usò comparare (comprare) e a lucere sostituì prima
lucèscere e poi lucescìre (far luce), ecc.
Semplificazioni grammaticali
La popolazione leccese ormai costituiva una comunità sociale di tipo feudale, limitata e
chiusa nel suo contado. Non essendo più in vigore le scuole pubbliche, chi insegnava ai
giovanetti le complesse desinenze latine da applicare secondo i casi, i generi, i numeri ai
nomi delle cinque declinazioni? Chi insegnava loro ad usare correttamente le complicate voci
verbali delle coniugazioni regolari, ed ancora la forma attiva, la passiva, la deponente e, in
più, le forme dei verbi irregolari? E tutti, analfabeti quali erano, finirono per applicare ai
sostantivi e agli aggettivi, per il singolare e per il plurale, per il maschile e per il femminile,
quattro soli (invece di sessanta!) morfemi: -a, -u, -e, le vocali risultanti, cioè, dopo
l'eliminazione della -m finale del caso accusativo singolare; in seguito venne aggiunta una
quarta vocale, la -i, per indicare i nomi maschili plurali; sicché avvennero le seguenti
mutazioni: animam > anima, rosam > rosa, spicam > spica, manum > manu, remedium >
remediu, pedem > pede, mortem > morte, pirum > piru, curtam > curta, cupum > cupu,
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