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IMMA ASCIONE
Una peste politica? L’epidemia di Conversano del 1691
La c’è pur troppo la vera cagione, (…). La neghino un poco, se possono, quella
fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che
l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenza? Mi neghe-
ranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come
tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?»
(A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXXVII)
1. Lo Stato e il contagio
Le scoperte scientifiche impiegano sempre un certo tempo prima di giun-
gere alla gente comune, al mondo dei non addetti ai lavori. Questa ricerca
si propone di verificare come, alla fine del Seicento, in un clima ormai larga-
mente dominato dall’interesse per le scienze della natura, la classe politica
riveli aspetti di forte arretratezza culturale e tecnica nei confronti di uno dei
fenomeni più catastrofici per le popolazioni europee del mondo moderno: la
peste. Gli studi sulla storia sanitaria costituiscono oggi un filone ampio e
variegato, al quale non intendiamo neppure accennare: ci lasceremmo trarre
fuori dai limiti imposti, che prevedono la mera presentazione di una fonte
d’archivio inerente in qualche modo alla tematica scientifica.
Il documento da noi prescelto è un registro conservato presso l’Archivio
di Stato di Napoli, che fa parte della serie Notamenti del Consiglio collate-
rale; si tratta di un volume monografico, perché in esso il segretario del
Regno Domenico Fiorillo annotò i verbali delle sedute dell’organo consiliare
riguardanti la peste di Conversano, dal 30 dicembre 1690 al 20 giugno 1692.
Come ognuno noterà, si tratta di una fonte «di parte»: la classe dirigente
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napoletana parla attraverso le sue pagine. Ma è anche lo specchio di una
profonda frattura tra vecchio ceto di potere e nuove élites intellettuali, che
tentano di conquistare propri spazi d’azione. Tutto un mondo seicentesco di
apparenze e di vuote maschere si rivela quando passiamo ad esaminare da
vicino il sistema di governo: colpisce il cinismo, l’assoluta freddezza con cui
i reggenti del Consiglio collaterale affrontano l’emergenza. L’essenziale è
salvaguardare dal contagio la capitale, cuore dello Stato: la peste del 1656
aveva prodotto più danni alla classe dominante della stessa rivoluzione del
1647-1648. All’indomani si erano dovuti ripensare tutti i precedenti assetti
politici, creare nuovi equilibri, riorganizzare intere magistrature sconvolte
dall’ingresso di homines novi, e solo dopo lungo tempo e faticosi aggiusta-
menti si era raggiunta una certa stabilità.
Bisogna poi salvare un’immagine dello Stato alquanto deteriorata dalle
ultime vicende interne, in particolare dalle difficoltà economiche culminate
nel grave episodio della svalutazione della moneta. Nulla di meglio che
mostrare la presenza di un forte potere centrale che interviene con decisione
a perseguire ed eliminare gli «untori»: sarà un atto di «buon governo»;
servirà a restituire credito al Regno nei confronti di Roma e degli altri stati,
e a mostrare ai sudditi che nulla sfugge ai governanti, impegnati nella
insonne cura del bene comune.
Così, il viceré si mostra spesso in città per infondere fiducia; visita i
«rastelli» alle porte della capitale, dove le guardie non lasciano passare
neppure l’aria e inzuppano per ore nell’aceto la corrispondenza prima di
decidersi a farla entrare. Ma tutti sanno che Napoli non è interamente
circondata di mura e vi si accede con facilità per infiniti varchi non sorve-
gliati. A sera intorno ai «rastelli» i nobili organizzano superbi banchetti,
vere e proprie orge dove scorrono fiumi di vino, gareggiando tra loro con
spagnolesco ardore a chi prepari l’«abbuffata» più solenne: si può immagi-
nare che all’alba i soldati dei «rastelli» russino sonoramente, dimenticando
ogni precauzione.
Colpisce la mancanza di veri e propri interventi statali nel campo della
profilassi. Il contagio, accettato come inevitabile e imprevedibile, va circo-
scritto con misure repressive (lazzaretti, inviti alla delazione, editti minac-
ciosi, cordoni sanitari), ma pochi sono i tentativi di curare gli infermi. La
Deputazione della salute diffonde istruzioni su come identificare i sintomi
della malattia; molto meno su come prevenirla o combatterla. Non vengono
suggerite misure d’igiene particolari; non si parla quasi mai di medicamenti,
sia pure empirici; non pochi medici si rifiutano di visitare i pazienti anche
in assenza di sintomi specifici.
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Ma non è tutto. Siamo tentati di chiederci se la peste del 1691 sia stata
davvero una peste. Il dubbio sembra legittimo di fronte al numero relativa-
mente limitato dei decessi e all’alta percentuale di guarigioni. E se non fu
peste, perché tante precauzioni e tanta pubblicità?
L’ipotesi di una peste «politica» (ossia di un diversivo su cui incanalare
lo scontento della pubblica opinione) diviene consistente quando si noti che
all’inizio degli anni Novanta una grave crisi economica era in corso nel
Regno, conseguenza anche delle prodighe spese spagnole per la guerra di
Milano. Il problema della rarefazione della moneta, che già il marchese del
Carpio aveva tentato di risolvere, era divenuto drammatico; il debito
dell’erario con i Banchi superava ormai i trecentomila ducati; reale era la
minaccia di una serrata da parte di questi ultimi e del blocco di tutte le atti-
vità creditizie, che avrebbe paralizzato lo Stato. Viceré e classe politica, messi
alle strette, finirono con l’applicare un correttivo alla spagnola: l’alzamento
(ossia la svalutazione) della moneta, nella misura del venti per cento; un
provvedimento impopolare, soprattutto fra i ceti produttivi e gl’imprenditori,
che — condotto senza le dovute cautele — finì con l’essere avversato dagli
stessi consumatori per i consistenti aumenti dei prezzi che trascinò con sé.
Tuttavia l’alzamento, da solo, non poteva bastare a fornire l’illusione di
una reale e congrua crescita della moneta: occorreva agire in modo da impe-
dire la sua fuga oltre confine, causata dall’alta propensione al consumo dei
napoletani e non compensata da corrispondenti esportazioni. La peste —
ovvero il presunto contagio — di Conversano offrì un valido pretesto alla
chiusura delle frontiere del Regno e il rigido divieto delle importazioni frenò
artificiosamente — sia pure per poco — il drenaggio della moneta, creando
un’illusoria ed effimera abbondanza di denaro, cui però corrispose subito
una prevedibile, ovvia, impennata dei prezzi.
Forse anche per questi motivi i ministri napoletani si preoccuparono più
dell’immagine della peste che non del morbo in sé: soprattutto studiarono di
apparire preoccupati e solerti, presenti e impegnati, e di far credere che
tutto fosse politicamente sotto controllo, malgrado le difficoltà del momento.
Ma da un punto di vista sanitario in realtà fecero ben poco, né si affanna-
rono a suggerire misure di igiene e profilassi. E forse non ce n’era neppure
bisogno: falsa o vera che sia stata, la peste di Conversano si spense da sé,
quando le acque tornarono tranquille. Un bel giorno di giugno il segretario
del Regno annotò nel suo Notamento che, grazie alla «gran vigilanza ed
attenzione» poste in atto, «s’è publicata la salute per tutto, ed è svanito
qualunque timore» (c. 187v).
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2. Il parere degli esperti e la pubblica opinione
Notizie contraddittorie giungevano a Napoli negli ultimi giorni del 1690:
il morbo segnalato a Conversano era peste, o non piuttosto «cagionato sola-
mente da mali cibbi», come insinuava il presidente del Sacro consiglio
Adriano Lanzina y Ulloa, convinto che la gente avesse mangiato «carne
porcina infetta»? Anche i «segni e buboni che si erano scoperti», potevano
«da altre infermità esser prodotti» (c. 1r e v). Sta di fatto che dei diecimila
abitanti di Conversano si era ammalata solo una minima parte e si registrava
anche un’alta percentuale di guarigioni.
La mattina dell’ultimo giorno dell’anno, il viceré conte di Santo Stefano
convocò «repentinamente» il Consiglio collaterale, per avvertire che «dovea
giudicarsi vera peste il morbo di Conversano, ivi comunicata da Levante per
mezzo di alcuni coriami in quelle marine sbarcati»; e mostrò una carta «con
il parere autenticata de’ più famosi medici di quella Provincia» (c. 4r), infor-
mando che si era provveduto ad aprire i lazzaretti per gli appestati. Fin dal
primo momento la preoccupazione maggiore apparve quella di salvaguardare
la capitale dal contagio, sicché Napoli venne circondata da ogni parte con
cordoni sanitari: non era facile allontanare lo spettro del ’56. Il 3 gennaio
1691 il Viceré in persona si recò a controllare i «rastelli»; venne dato
l’ordine di serrare le porte della città «ad un’hora di notte» e di «spurgare
le (…) lettere poche miglia distante dalla Città con aceto» (c. 12v); il giudice
di Vicaria Pietro Emilio Gauschi ebbe l’incarico di sorvegliare che venissero
«buttate a mare le sarache guaste che si ritrovavano in questa città» (c. 14v).
Com’era prevedibile, non tardò a diffondersi una vera e propria psicosi
collettiva: un medico di Giugliano si rifiutò di «toccare il polzo ad un
semplice febricitante che, senza buboni, né altro segno pestifero, pure volean
dire che fosse peste»; i nobili che poterono si ritirarono nelle loro terre, con
gran sollievo dei ministri napoletani, i quali calcolarono che al seguito di
«quattromila cavalieri, sarebbero partite altre quarantamila persone» e si
sarebbe «allegerita questa città di gente» (c. 15r). Il problema più grave
rimaneva quello dell’impossibilità di chiudere del tutto la capitale e di impe-
dire ogni ingresso, anche perché bisognava pur approvvigionare una popola-
zione tutt’altro che esigua. I ministri sapevano bene che «li rastelli che si
sono fatti al ponte della Maddalena, Casanova, Capodichino, Capodimonte
ed altri, sono più un’apparente costodia che reale, mentre nelli borghi di
Napoli si può entrare per infinite parti» (c. 18r).
Il 14 gennaio la pletorica e litigiosa Delegazione della salute, composta di
più di una ventina di membri, varò un primo bando, con una dozzina di
misure volte ad arginare la diffusione dell’epidemia. Il punto 8 conteneva
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una descrizione abbastanza dettagliata dei sintomi che solitamente accompa-
gnavano l’apparire del morbo; dai «nostri esperti» si era giudicato
essere di contagio sospetti coloro i quali patissero qualsivoglia sorte di febre, accom-
pagnata però da buboni sotto l’anguinaglia, o sotto delle braccia nel luogo detto
l’azilla, o da parotide, o da antraci, o da qualsivoglia specie di pustole maligne, le
quali saranno tali, se si osservaranno livide, nere o molto putride; così parimente
potrà sospettarsi esser male contagioso qualsivoglia specie di febre acuta, accompa-
gnata però da mortificazione in qualunque parte del corpo o da petecchie vulgar-
mente dette pesticci negre o lividi, o se la detta febre vada accompagnata però con
deliri non aspettati, sonni profondi, repentina caduta di forze, sudori freddi, urine
negre o molto turbate, anzietà senza riposo, cattazioni ed immoderato moto di
corpo, escrezioni negre, lucide, variegate o molto puzzolenti o colliquate, colore di
tutto il corpo, e principalmente del volto, livido, negro, o molto difforme sul prin-
cipio del male, e particolarmente se alcuno delli enunciati segni tenga molta in
proporzione con la febre, o se vi sia segno di straordinaria putredine o venenosità.
Parimente si è stimato potersi sospettare esser male contagioso se alcuno fosse
gravato da sincope o da grave vertigine, restando poi con assai mal colore o inap-
petenza o con dolor di stomaco quantunque le dette cose accadessero scompagnate
dalla febre, o se apparissero buboni, pustole, petecchie senza febre (cc. 26v-27r).
Si trattava — com’è evidente — di un’interpretazione assai estensiva, che
poteva comprendere un’ampia gamma di malesseri: dalla banale influenza, al
carbonchio, ad ogni forma di enteriti e febbri tifoidee. I provvedimenti adot-
tati erano volti soprattutto ad isolare i sospetti, incentivando o rendendo
obbligatorie denunce e delazioni, e non spendevano una parola sui soccorsi
da arrecare ai malcapitati, sulla profilassi, sulla prevenzione.
Poiché si temeva che il morbo potesse trasmettersi anche senza diretto
contatto, attraverso oggetti toccati da persone contaminate, i medici consi-
gliarono «la spurga delle lettere», operazione che consisteva nel
ponere le dette lettere in aceto forte, di maniera che restino ben bagnate da dentro,
lasciandole un quarto di hora dentro del detto aceto: ed essendo pieghi, dividerli
acciò entri per tutto il detto aceto, ponendole dopo in un forno ad asciugare, di là
non cavandole fin tanto che non siano bene asciugate e secche, (c. 32v).
con quanta soddisfazione del destinatario è facile immaginare. Infatti contro
questo provvedimento vi furono comprensibili proteste e i medici vennero
chiamati a consulto per sapere se fosse davvero così indispensabile violare il
segreto della corrispondenza privata a fini sanitari: non sappiamo quale sia
stato il loro verdetto (c. 36v).
Description:italiano»), ed inviati al Permanent Service on Fluctuations of Glaciers. 3. alito cattivo. 4. anemia. 5. angina pectoris. 6. arteriosclerosi. 7. artrite.