Table Of ContentBruno Vespa
Dieci anni che hanno
sconvolto l'Italia
1989-2000
I libri di Bruno Vespa
Copyright 1999
RAI, Radiotelevisione italiana,
Roma
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.,
Milano
RAI-ERI
Mondadori
Le due assoluzioni per Andreotti dalle accuse di omicidio e di
associazione mafiosa e le furiose polemiche seguite alle rivelazioni
contenute nel dossier Mitrokhin sui rapporti tra Pci e Kgb hanno
segnato la conclusione di un decennio sconvolgente per la storia
italiana. Come in una rapida virata, hanno proiettato indietro la
memoria del nostro paese, costringendolo a fare i conti con
avvenimenti troppo presto archiviati nell'illusione che il tempo
potesse seppellire per sempre il passato con verità talvolta di
comodo.
In questo libro, Bruno Vespa ripercorre in presa diretta
avvenimenti in apparenza distanti, talvolta addirittura dimenticati,
che sono invece intrecciati strettamente gli uni agli altri. A
partire dalla crisi italiana della Prima Repubblica nata dalla caduta
del Muro di Berlino, nel novembre dell''89, e dal ruolo decisivo
svolto dal primo papa polacco della storia.
Vespa racconta la drammatica accelerazione che portò al tramonto
del Pci e alla nascita del Pds, la miopia della classe dirigente che
non seppe prevedere le conseguenze della fine della guerra fredda, il
duello fratricida nella Dc concluso dall'elezione di Scalfaro, la
nascita dei governi di transizione, la discesa in campo di Berlusconi
e la caduta del suo esecutivo, la vittoria del centrosinistra prima
con Prodi e poi con D'Alema a palazzo Chigi, l'elezione unitaria di
Ciampi al Quirinale. E, ancora, il fallimento della Bicamerale, il
ruolo spesso decisivo di Bossi e Bertinotti, lo "sdoganamento" di
Fini, la frantumazione della Dc, la morte di Falcone e Borsellino e
gli anni di Tangentopoli, con le loro durevoli conseguenze politiche
e giudiziarie.
Vespa tenta per la prima volta di riannodare i Dieci anni che hanno
sconvolto l'Italia svelando inediti retroscena e dando voce a
protagonisti e testimoni di questo secolo che si chiude.
Bruno Vespa (L'Aquila 1944) ha cominciato a sedici anni il mestiere
di giornalista nella sua città e a diciotto le collaborazioni con la
RAI. Dopo la laurea in giurisprudenza (con un tesi sul diritto di
cronaca), nel 1968 si è classificato al primo posto in un concorso
nazionale per radiotelecronisti ed è stato assegnato al telegiornale.
Dal 1990 al 1993 ha diretto il TG1. Da quattro anni la sua
trasmissione "Porta a porta" (alla quale è intervenuto
telefonicamente anche papa Giovanni Paolo II) è il programma politico
più seguito. Fra i suoi libri ricordiamo: E anche Leone votò Pertini
(Cappelli 1978), Intervista sul socialismo in Europa (Laterza 1980)
e, per Mondadori, Telecamera con vista (1993), Il cambio (1994), Il
duello (1995), La svolta (1996), La sfida (1997), La corsa (1998) e
Il superpresidente (1999).
[p. 1] Questo libro è dedicato a Karol Wojtyla. Senza di lui il
secolo sarebbe stato diverso.
"Non abbiate paura!"
Giovanni Paolo II,
22 ottobre 1978,
primo giorno
del suo pontificato.
[p. 3] Premessa:
Un giorno, sul Monte Bianco
"Te Deum laudamus"
Per tre volte l'elicottero fu ricacciato indietro dal vento. Era un
apparecchio piccolo, con un solo pilota, e Joaquìn Navarro-Valls, il
medico e giornalista spagnolo che da sei anni era il portavoce del
papa, temette di aver fatto un'imprudenza. Ma Karol Wojtyla non è
tipo da tirarsi indietro. I suoi volevano fargli una sorpresa e, a
questo punto, lui volle che fosse portata fino in fondo.
Al quarto tentativo, il pilota sconfisse il vento e il piccolo
elicottero riuscì a posarsi sulla vetta del Monte Bianco. Era una
limpida giornata del luglio '90. Le nubi erano state sospinte
lontano. Il papa scese sulla neve e gli sembrò di poter abbracciare
l'Europa intera. Dalla vetta del suo monte più alto, egli dominava il
continente e lo vedeva per la prima volta nella sua storia millenaria
libero da ogni oppressione.
La caduta del Muro di Berlino, pochi mesi prima, aveva compiuto
l'ultimo, inatteso miracolo.
Quando, la sera del 9 novembre 1989, Navarro-Valls gli aveva detto
che i cattolici di Berlino Est uscivano dalle chiese tenendo in mano
le fiaccole e poco dopo che la gente poteva muoversi liberamente da
un lato all'altro della città e poco dopo ancora che da Berlino Est
erano stati dati al Muro i primi colpi di piccone senza che nessuno
intervenisse e anzi in un clima di gioia collettiva, il papa aveva
mormorato: "Dio ti ringrazio".
Adesso che aveva l'Europa libera davanti a sé, ai piedi del [p. 4]
Monte Bianco, Karol Wojtyla sentì la commozione salirgli nell'animo e
da solo, come se celebrasse la funzione più importante della sua vita
e perfino quella per la quale Dio l'aveva mandato sulla terra, ruppe
il silenzio della montagna e cantò: "Te Deum laudamus, te Dominum
confitemur". A quel punto, chi gli stava accanto proseguì: "Te@
aeternum Patrem@ omnis terra@ veneratur...".
Cambiava la storia del mondo. Cambiava la storia d'Italia.
[p. 5] I: "Buonasera,
signor Dub¬cek"
"Se tutto questo è vero,
amico..."
"Buonasera, signor Dub¬cek." L'eroe della Primavera di Praga mi
guardò imbarazzato con gli occhi liquidi da cerbiatto. Avevo un
microfono in mano e una telecamera che mi seguiva in diretta. Nel suo
sguardo si leggeva qualcosa del genere: io non so, amico, chi tu sia;
ma se la televisione italiana può muoversi liberamente sulla pista
dell'aeroporto di Praga, se io che nel '68 ho cercato invano di
salvare dai carri armati sovietici il "socialismo dal volto umano" (e
per questo fui degradato a giardiniere) adesso sono il presidente del
Parlamento cecoslovacco, se i vecchi gerarchi comunisti che tu vedi
accanto a me sono impettiti sull'attenti e hanno preso dall'armadio
l'abito scuro migliore, se tutto questo è vero, amico, come sta
documentando in diretta la tua telecamera, ed è la conseguenza della
caduta del Muro di Berlino, il merito è di quel polacco vestito di
bianco che sta scendendo dalla scaletta dell'aereo.
Eccolo là, il papa polacco. Scende e abbraccia un vecchissimo prete
con lo zucchetto rosso, "il generale senza truppe", come lo chiamava
fino a poco fa il regime di Gustav Husàk. L'"intrepido pastore", lo
definisce invece Wojtyla. E a Franti¬sek Toma¬sek, novantunenne
primate ceco, campione della "Chiesa del silenzio", arrestato e
tenuto in un campo di lavoro dal '51 al '54, spuntano le lacrime agli
occhi. Mormora Vàclav Havel, drammaturgo amatissimo dalla folla,
passato in pochi mesi dal carcere alla guida dello Stato: "Non so, se
so, cosa sia [p. 6] un miracolo. Nonostante ciò oso dire che, in
questo momento, sto partecipando a un miracolo". Commenta Giovanni
Paolo II: "Ancora un anno fa non era pensabile che potesse venire il
papa, anch'egli slavo e figlio di una nazione sorella".
Mi dice oggi Joaquìn Navarro-Valls: "La visita non era prevista così
presto. Havel insistette perché avvenisse immediatamente: "Venga
subito, Santità". Il viaggio fu organizzato in quindici giorni".
Aggiunge uno strettissimo collaboratore del pontefice: "La
Cecoslovacchia era una nazione simbolo della repressione contro la
Chiesa. Lì si faceva lezione perché gli altri paesi dell'Est
imparassero". Tutto questo fino al tardo autunno dell''89. Nella
primavera del '90, il papa polacco veniva accolto a Praga come il
Salvatore. Un miracolo, appunto.
D'Alema:
"Questo papa ci preoccupava..."
Il Muro di Berlino cominciò a franare alle 18,18 del 16 ottobre
1978, undici anni e ventiquattro giorni prima del crollo ufficiale. A
quell'ora il cardinale Angelo Felici, camerlengo di Sua Santità, si
affacciò alla Loggia delle Benedizioni, al centro della facciata di
San Pietro, e disse: "Habemus papam". Stavo facendo la telecronaca
per il Tg1 e i vaticanisti della mia redazione mi avevano detto:
"Hanno eletto Giovanni Colombo". Tenevo ben spiegata davanti la
biografia dell'arcivescovo di Milano quando Felici disse "Carolus" -
ed era già una sorpresa - "Wojtyla" e cambiò la storia del mondo. "Il
papa è polacco!" gridai con la voce strozzata, mentre la folla
radunata in piazza San Pietro si stava abituando all'eventualità di
un papa nero.
"Per noi" mi confessa Massimo D'Alema a palazzo Chigi "l'elezione
del papa polacco fu senza dubbio un motivo di preoccupazione. C'era
la novità rappresentata dalla rottura della continuità italiana. Ed
era una novità stimolante. Però c'era anche il timore di un papa che
guidasse una crociata. L'Uomo venuto dal Freddo..."
[p. 7] Chiedo a D'Alema: pensa che Giovanni Paolo II abbia
contribuito alla caduta del comunismo?
"In una certa misura sì: ha fatto emergere il vuoto spirituale e di
valori che c'era in quella società. Le grandi personalità, più che
determinare gli avvenimenti della storia, hanno il merito di saperli
capire e interpretare prima degli altri. La crisi del comunismo era
matura. Il papa l'ha capito prima di altri."
A Wojtyla non aveva pensato nessuno. Il "Corriere della Sera" aveva
preparato diciassette biografie: quella giusta non c'era. Avevo
conosciuto il nuovo pontefice esattamente un anno prima. Stavo
organizzando un viaggio in Polonia, quando un collega, Pierluigi
Varvesi, mi disse: "C'è un cardinale polacco di passaggio a Roma,
abbiamo la possibilità di incontrarlo a cena". Andammo. Il cardinale
era un pretone alto, solido e prestante di cinquantasette anni. Pelle
chiara con segni forti stampati sul viso, scarpe grosse, voce
baritonale. Mangiammo in cinque (Wojtyla era accompagnato da un
giovane segretario, don Stanislaw Dziwisz, che sarebbe stato poi il
suo inseparabile collaboratore in Vaticano) gli affettati e il
parmigiano offerti da Bogumil Lewandowski, portavoce della conferenza
episcopale polacca. Al momento del whisky, il cardinale ingaggiò una
gagliarda competizione con il mio amico che aveva studiato dai
gesuiti e sosteneva che i preti non dovessero gestire scuole. Wojtyla
si scaldò: "Non riuscite a capire la diversità di situazioni. In un
paese come il vostro, la scuola cattolica deve essere integrativa di
quella pubblica. Ma in paesi come il mio, senza la scuola privata, il
cattolicesimo verrebbe cancellato".
Varvesi restò impressionato dai suoi pugni serrati. Le mani rosse e
le nocche bianche. "Sembrava una scultura di Rodin" commentò.
Saputo del mio viaggio in Polonia, il cardinale mi invitò a
Cracovia. Andai a trovarlo. Il regime, che doveva la precaria
convivenza con la maggioranza cattolica al carisma e all'equilibrio
del primate Stefan Wyszynski, detestava Wojtyla. La polizia politica
mi aveva seguito a Praga nei fortunosi incontri [p. 8] con i
dissidenti Michnik e Kuron e non mi mollò nemmeno sotto l'abitazione
del cardinale. Il governo polacco mi aveva fatto chiedere (invano)
dal nostro ambasciatore la pellicola con le interviste "proibite".
Non poteva sequestrarla perché il leader polacco Gierek stava per
venire in visita ufficiale in Italia, ma non gradì affatto che io
completassi il mio giro con Wojtyla. Seppi perfino di fortunate
pressioni sulla Segreteria di Stato vaticana perché alla morte di
Wyszynski (che sarebbe avvenuta quattro anni dopo), il cardinale di
Cracovia non diventasse primate di Polonia. Lo Spirito Santo avrebbe
punito quell'accordo, ma alla fine del '77 - con Bre¬znev trionfante
al Cremlino - la "cortina" era davvero di ferro.
Frequentando Wojtyla e il suo mondo per qualche giorno credetti di
capire le ragioni di tanto odio. L'uomo che avrebbe rivendicato la
difesa dei diritti umani davanti a Pinochet e a Fidel Castro
facendoli inginocchiare entrambi, l'uomo che avrebbe ignorato ogni
scomunica internazionale contro il demone Saddam Hussein non aveva
paura di niente.
Non a caso avrebbe incominciato il suo pontificato, il 22 ottobre
del 1978, gridando agli uomini: "Non abbiate paura!". "Lo avrebbe
ripetuto in Polonia nel suo primo viaggio" mi ricorda un suo
strettissimo collaboratore. "E fu una scelta rivoluzionaria. I regimi
comunisti giocavano tutto sull'intimidazione, sulla paura. Nessuno
pensava che sarebbe arrivato un papa slavo a gridare di non averne..."
Fin da quando era cardinale, Wojtyla sosteneva che non è compito
della Chiesa impartire lezioni ai non credenti, né avere il monopolio
della morale. Ma non accettava in alcun modo la discriminazione
contraria. A Paolo VI, il papa che dieci anni prima l'aveva fatto
cardinale, era proibito visitare la Polonia. Nella sede del giornale
dei cattolici "Settimanale universale", che avrebbe certo venduto più
dell'organo di partito "Trybuna Ludu", mi dissero che il regime
faceva mancare la carta e mi mostrarono i buchi che segnalavano gli
interventi della censura. (In compenso venivano pubblicate ogni tanto
poesie inviate dal cardinale.) Lo stesso Wojtyla mi [p. 9] parlò
dell'odissea per avere il permesso di costruire ogni nuova chiesa e
riprese il discorso di Roma sull'educazione giovanile: "Dobbiamo
lottare perché la scuola non diventi luogo di ateizzazione".
Aggiunse: "I posti più importanti nell'amministrazione e
nell'industria, i posti da direttore sono quasi tutti riservati ai
membri del partito. Un credente che viva la fede coerentemente non può
essere membro di un partito fondato sull'ateismo e sul materialismo.
Come vede, ancora una volta è in gioco la libertà religiosa".
(Avrei ripensato a quelle parole quando in Italia le polemiche
avrebbero sfiorato il pontefice sui temi dell'unità politica dei
cattolici e sulla parità scolastica. Il 26 giugno 1993 e il 10
gennaio 1994, Giovanni Paolo II pronunciò due discorsi che ne fecero
capire l'apprezzamento per l'unità dei cattolici, prossima a
frantumarsi sugli scogli della crisi democristiana. Chi conosce il
papa sa che sue interferenze nella vita politica italiana sono
impensabili. Ma alla luce dell'esperienza polacca si può capirne la
sorpresa per la diaspora dei credenti che in Polonia potevano
ottenere risultati, sia pur modesti, solo dando prova di grandissima
unità. Mi racconta oggi Andreotti: "Ogni tanto qualcuno andava dal
papa per lamentarsi della Dc. Lui rispondeva: esiste un'alternativa?
Se non esiste, cercate di dare una mano a quel che c'è".)
"Che ne direbbe
di un papa polacco?"
Una qualunque domenica di fine novembre, quando non c'erano
speciali festività da celebrare, andammo a filmare la messa del
cardinale Wojtyla nella chiesa di Sant'Anna. Non avevo mai visto - né
avrei più visto - tanta gente pregare insieme. Arrivai tardi per via
di un appuntamento precedente e sapevo che la troupe mi aspettava
vicino all'altare. Ma dovetti fermarmi davanti a un muro umano
invalicabile. Un signore si girò, gli spiegai il mio problema e lui
senza dire una parola mi prese in braccio e mi passò alla persona che
gli stava davanti. Così, come la statua di un santo portata in [p. 10]
processione da persone ferme che se la passano l'un l'altra, arrivai
vicino a Wojtyla. Il cardinale aveva gli occhi socchiusi, pregava in
quel modo ineguagliabile che il mondo avrebbe presto conosciuto. La
città cattolica era schierata davanti a lui. Migliaia di occhi
guardavano i suoi, migliaia di bocche rispondevano alle sue parole.
Decine di giovani suonavano e cantavano, pur sapendo che così non
sarebbero mai diventati "direttori". Quella gente non lo amava
soltanto come un credente può amare il suo vescovo. Lo amava e lo
seguiva come il leader delle proprie battaglie sociali e civili.
Fu per questo che la sera stessa, quando andai a casa sua per
intervistarlo, dopo gli abbracci e i saluti sulla porta gli chiesi:
Eminenza, non le pare arrivato il momento di avere un papa polacco?
Lui non obiettò che da cinque secoli avevamo papi italiani e non
c'era nessuna ragione per cambiare. Sorrise, mi appoggiò la mano
sulla spalla e disse: "E' ancora un po' presto". Un poco, soltanto un
poco.
Manifestazioni
a Berlino Est
Il 9 novembre 1989 nell'Europa centrale era un freddo giovedì
qualunque. Molti giornali pubblicavano in prima pagina la foto di un
gruppo di giovani della Germania orientale che erano andati senza
difficoltà in Cecoslovacchia, "paese fratello" del blocco comunista.
Da lì avevano raggiunto in treno la località di Cheb Pomezi, al
confine con la Germania occidentale, ed erano stati ripresi da un
reporter dell'Associated Press mentre marciavano a piedi verso la
libertà. Per andare dall'Est all'Ovest la strada più breve per quei
ragazzi sarebbe stata attraversare a Berlino il Check-point Charlie
facendo marameo ai Vopos comunisti di guardia. Ma questo dal '61 non
era possibile. Avrebbero allora potuto attraversare un punto
qualunque della sterminata frontiera che tagliava la Germania da
Amburgo a Francoforte. Ma questo era impensabile. E allora da qualche
settimana potevano ottenere lo straordinario risultato [p. 11]
entrando in Cecoslovacchia, prendendo un treno per Cheb e proseguendo
a piedi per Arzberg, oscuro paese della Germania centrale, non
lontano dalla Bayreuth di Richard Wagner.
Questo ipocrita minuetto aveva la sua premessa in uno storico
avvenimento. Il 7 ottobre, quarantesimo anniversario della nascita
della Repubblica democratica tedesca, si erano svolte a Berlino Est
manifestazioni di piazza senza precedenti contro il regime. Undici
giorni più tardi s'era dovuto dimettere Erich Honecker, padrone della
Sed (il Partito socialista unitario) dal '71, quando aveva sostituito
Walter Ulbricht, che ne era stato il titolare per conto di Mosca dal
'46. La Germania Est aveva avuto, dunque, due soli principi in
quarant'anni. L'ultimo era stato sostituito a furor di popolo. Il
successore, naturalmente, era un altro funzionario di partito, Egon
Krenz. Appena nominato capo dello Stato e delle forze armate (cariche
che facevano un tutt'uno con quella di leader della Sed), dette
ordine di rendere liberi i cinquemilaseicento suoi compatrioti che si
erano rifugiati a Praga, sotto la protezione fisica dell'ambasciata
della Germania occidentale. Erano cominciati così quei tortuosi
viaggi verso la libertà ai quali abbiamo accennato poco fa.
Rispetto al vecchio tiranno Honecker, Krenz era un liberatore. Ma,
ormai, i tedeschi dell'Est avevano imparato a giocare al rialzo e
volevano a capo dello Stato, del partito e di tutto il resto Hans
Modrow, già battezzato il "Gorbaciov tedesco". Per parare il colpo,
l'8 novembre Krenz aveva nominato Modrow primo ministro. Ma
evidentemente non bastava.
Nel mese intercorso tra la cacciata di Honecker - che prudentemente
se n'era andato nella casa madre sovietica - e la nomina di Modrow
per mano di Krenz, la Germania Est aveva ruggito come un vulcano
prima dell'eruzione. Nel gerontocomio comunista dove per decenni
nulla s'era mosso all'ombra del Muro, tutti si dimettevano da tutto.
[p. 12] Il telegiornale disse:
"Uscita libera"
Per salvare il salvabile, l'8 novembre Krenz aveva giocato due
carte: attaccare il suo predecessore (il che, nel mondo comunista,
era come se il papa entrante avesse sparlato di quello uscente) e
lasciar intravedere qualche ambiguo spiraglio di libertà politica. "I
nuovi gruppi politici che si muovono all'interno della Costituzione
potranno essere legalizzati." Frase oscura, visto che la stessa Carta
garantiva al Partito comunista il ruolo guida del paese. Al povero
Krenz sembrò tuttavia di aver fatto già molto e quella fredda sera
d'autunno uscì dall'ufficio e si mescolò alla folla per saggiarne la
reazione. Purtroppo per lui, fu riconosciuto e fischiato. Eppure,
nessuno pensava che la situazione sarebbe precipitata in poche ore.
Nemmeno Helmut Kohl, che pure in quei giorni aveva rilanciato
l'utopia della riunificazione tedesca. L'indomani, 9 novembre, Kohl
andò a Varsavia per complimentarsi con i dirigenti di quel paese -
non a caso lo stesso in cui era nato il papa - per i passi avanti
compiuti e chiudere una pratica sui confini aperta da Hitler.
"Quella mattina" mi racconta Giulio Andreotti, che allora era
presidente del Consiglio "erano a Roma il presidente del Parlamento
europeo Baron Crespo e i rappresentanti della Commissione europea. Ci
arrivò un prudente messaggio di Kohl. Lo stesso Gorbaciov invitava
alla prudenza, forse preoccupato per la governabilità della
transizione. Sembrava che i dirigenti della Germania Est, avendo
sacrificato i loro massimi esponenti governativi, potessero tenere in
mano la situazione. Ma ormai la frana era incontenibile e di ora in
ora si sovrapposero i dispacci di un terremoto che andava ben oltre
la Germania dell'Est..."
"Eppure" mi dice Carlo Azeglio Ciampi "ebbi la sensazione che i
dirigenti dell'Est fossero ancora convinti di farcela. L'indomani
della caduta del Muro ero a Berlino e il mio collega governatore
della Germania Est pensava che il terremoto avrebbe avuto un
assestamento, ma insomma che la casa non sarebbe crollata. Nessuno
immaginava che di lì a poco [p. 13] Kohl, contro il parere della
Bundesbank, avrebbe deciso che il marco dell'Est valeva quanto quello
dell'Ovest..."
Il 9 novembre, Krenz capì che per riuscire a reggere doveva fare
qualcosa di straordinario. Nell'ultima settimana, da quando erano
state definitivamente aperte le frontiere tra la Cecoslovacchia e la
Germania occidentale, quarantottomila tedeschi dell'Est erano
scappati all'Ovest.
L'unico modo per fermare l'emorragia era aprire i confini interni.
Così, al telegiornale della sera di quel venerdì, comparve un membro
del Politburo, Günter Schabowski, per dire che gli uffici di polizia
erano stati autorizzati a concedere il visto d'espatrio a chiunque lo
avesse chiesto. Inutile scappare, quindi, come anche quel 9 novembre
avevano fatto altri undicimila tedeschi: l'uscita era libera.
Né Schabowski, né Krenz, che l'aveva mandato davanti alle
telecamere, né alcun altro nel mondo intero potevano immaginare quel
che sarebbe accaduto di lì a poco. "Eravamo già a letto, quando
abbiamo sentito la notizia" dissero ai cronisti due ragazzine di
Berlino Est. "Ci siamo rivestite e adesso corriamo in discoteca fino
all'alba." La novità era che la discoteca si trovava a Berlino Ovest.
Fino a poco prima le due ragazze per andare a ballare all'Ovest
avrebbero dovuto fare il giro della Cecoslovacchia. Fino a un mese
prima non avevano nemmeno il diritto di sognarlo.
I poliziotti dell'Est, quella sera, si preparavano a firmare un po'
di visti di uscita. Furono travolti da una piena umana. Nella notte
stellata, per la prima volta il Muro perse l'aspetto drammatico che
aveva dalle 2,30 del 13 agosto 1961, quando migliaia di soldati e di
poliziotti si mossero insieme per dividere Berlino in due. In dodici
anni, da quando esisteva la Germania di Pankow - come si chiamava
allora -, 2.634.699 tedeschi dell'Est erano fuggiti all'Ovest.
Krusciov, che da Mosca comandava su tutta l'Europa orientale, disse
che era ora di finirla. Considerava Kennedy un debole e ordinò a
Ulbricht di procedere. Ulbricht obbedì e quella tragica notte
d'agosto del '61 andò personalmente a verificare - mattone dopo
mattone - la costruzione di quello che gli occidentali [p. 14]
chiamarono subito "il muro della vergogna". Un muro insanguinato
perché per più di vent'anni le guardie di frontiera dell'Est
spararono su chiunque vi si avvicinasse.
Pertini davanti al Muro
con gli occhi lucidi
(Vedere il Muro da vicino era un'esperienza traumatica, nonostante
la sua immagine fosse apparsa migliaia di volte in televisione. Una
volta mi capitò di andarci con Sandro Pertini, che era presidente
della Repubblica in visita di Stato in Germania. Il vecchio
socialista salì su un palco che le autorità occidentali tenevano
pronto per gli ospiti illustri. E quando vide il Muro dall'alto, gli