Table Of ContentFederico Rampini
Alla mia Sinistra
Mondadori
«Avevo il dovere di scrivere questo libro .
Perché ho due figli ventenni che affrontano, come tutti i loro coetanei, il mercato del lavoro
più difficile dai tempi della Grande Depressione .
Perché devo rispondere delle mie responsabilità: appartengo a una certa generazione della
sinistra occidentale che ha creduto di poter migliorare la società usando il mercato e la
globalizzazione. Oggi so che la sinistra ha commesso errori fatali, di cui sono stato partecipe.
Il mercato e la globalizzazione sono stati al centro di un grande disegno egemonico, nato nel
cuore della destra americana e dei grandi centri del potere capitalistico, che hanno smantellato
senza pietà diritti e tutele dei lavoratori, rendendoci tutti più isolati e più deboli. Ho voluto
sfogliare il mio album di famiglia, la storia che ho vissuto con un pezzo della sinistra italiana,
europea, americana dagli anni Settanta a oggi, con cui ho condiviso utopie, lotte, abbagli,
sbandate e illusioni, per capire le ragioni delle nostre sconfitte, quindi aprire una pagina nuova.
Dalla deformazione dell’idea socialista in Cina alle enormi aspettative suscitate, e poi tradite,
da Barack Obama negli Stati Uniti, fino all’impasse dell’integrazione europea: è urgente dare
un senso al periodo storico che stiamo attraversando .
Non usciremo dalla Grande Contrazione, questo terremoto finanziario, economico e sociale
che ci ha investito, se non ricostruiamo nelle nostre società elementi di eguaglianza e di
giustizia. Come negli anni Trenta, se non interviene un nuovo progetto riformatore il
capitalismo rischia di distruggere la democrazia e il benessere collettivo .
Plutocrazia, tecnocrazia, populismo, autoritarismo sono i mali che minacciano le nostre
democrazie. L’Italia è un piccolo laboratorio mostruoso di queste patologie. Avendo vissuto
un’esperienza pluridecennale da nomade della globalizzazione – in Europa, in America, in Asia
– ho il dovere di dire ciò che è accaduto all’immagine del nostro paese nel mondo. Devo
raccontare dal mio osservatorio attuale nell’“Estremo Occidente” quali sono i costi dell’era
Berlusconi, e anche le radici profonde del berlusconismo, che gli sopravvivranno, i vizi di
un’Italia “volgare e gaudente” con cui dovremo fare i conti anche dopo .
Che cosa farà questa Italia “da grande”? C’è ancora speranza? Esiste una vocazione forte per
il nostro paese, in un mondo sconvolto da trasformazioni secolari? Alla sinistra, cui
appartengo dai tempi della mia formazione europea e della mia militanza nel Pci, indico le
possibili vie d’uscita attingendo alle mie esperienze nelle nazioni emergenti, dall’Asia al
Brasile: perché non possiamo farci risucchiare in una sindrome del declino tutta interna
all’Occidente. Esploro quello che si agita di nuovo nell’America di oggi, da New York alla
California. Cerco di riscoprire quel che resta di un modello europeo valido per noi .
Una cosa che mi è sempre piaciuta della sinistra è la sua idea ottimista della Storia. La Storia
siamo noi, nel senso che possiamo influire sul corso degli eventi. Riusciremo a farlo solo se
troviamo una narrazione comune che tenga insieme i bisogni e le aspirazioni non di una sola
categoria, non di una sola nazione, ma dell’umanità intera.»
Federico Rampini
L’autore
Federico Rampini, corrispondente della «Repubblica» a New York, ha esordito come
giornalista nel 1977 nella stampa del Partito comunista italiano. Già vicedirettore del «Sole-24
Ore» e capo della redazione milanese della «Repubblica», editorialista, inviato e corrispondente
a Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino, ha insegnato alle università di Berkeley e
Shanghai. Da trent’anni è un testimone privilegiato della globalizzazione come osservatore nei
grandi vertici internazionali: la Trilaterale, i G8 e G20, il World Economic Forum di Davos. È
autore di numerosi saggi tra cui San Francisco - Milano (Laterza, nuova edizione 2011), Il
secolo cinese (Mondadori, 2005), L’impero di Cindia (Mondadori, 2006), L’ombra di Mao
(Mondadori, 2006), La speranza indiana (Mondadori, 2007), Slow Economy (Mondadori,
2009), Occidente estremo (Mondadori, 2010). Ha vinto il Premio Luigi Barzini e il Premio
Saint Vincent di giornalismo .
Federico Rampini
ALLA MIA SINISTRA
Lettera aperta a tutti quelli
che vogliono sognare con me
Alla mia Sinistra
In memoria di Bruno Trentin
– Che nome ha, il giorno che nasce, come oggi, quando tutto è rovinato, tutto è distrutto,
eppure l’aria si respira, ma tutto è perduto, la città brucia, gli innocenti si uccidono tra loro,
mentre i colpevoli agonizzano, in un angolo del giorno che nasce? – Chiedilo al mendicante,
lui lo sa.
– Ha un bellissimo nome, donna Narses. Si chiama l’aurora.
JEAN GIRAUDOUX, Elettra I
Dove abbiamo sbagliato Dove abbiamo sbagliato? Questa domanda mi insegue da anni ed
è diventata più incalzante nell’estate del 2011. Mi viene imposta con forza dall’attualità in
America, dove seguo quotidianamente le difficoltà di Barack Obama. Più lo osservo, più mi
convinco di questo: l’affanno del presidente che ha fatto sognare il mondo intero ha un
significato generale. Mi costringe a fare i conti con la storia della mia generazione, con
trent’anni di errori e di sconfitte della sinistra di cui sono partecipe, e con la fine di un modello
economico e sociale. Dall’America all’Europa, all’Italia, l’impatto con la più grave crisi
economica degli ultimi ottant’anni impone con urgenza questo bilancio. Non vedo emergere
con chiarezza una via d’uscita progressista, equa, rassicurante, al nostro declino. Da nessuna
parte al mondo .
Stiamo attraversando qualcosa di più serio di un semplice «ciclo negativo» dell’economia. È
la Grande Contrazione: questo termine dà l’idea di un disastro che rimpicciolisce tutto il mondo
a cui eravamo abituati. L’unico evento storico con cui valgono i paragoni è la Grande
Depressione avvenuta negli anni Trenta del secolo scorso. A quella furono date delle risposte di
destra – Mussolini e Hitler – e delle risposte di sinistra: il New Deal di Franklin Delano
Roosevelt negli Stati Uniti, il Fronte Popolare in Francia. Oggi esiste una risposta di sinistra a
questa crisi? C’è davvero una differenza sostanziale tra l’austerità di Obama e quella di David
Cameron (conservatore) in Inghilterra o di Angela Merkel (democristiana) in Germania? E che
cosa rappresenta il «modello cinese» inventato da un partito che continua a definirsi comunista?
La questione dell’identità della sinistra va al cuore dell’interpretazione della crisi: quali ne sono
state le cause profonde? Riguarda quindi la ricetta per uscirne: se stiamo morendo di debiti, ha
ragione chi impugna la scure per fare a pezzi il Welfare State? Se invece stiamo naufragando
per troppa disoccupazione, l’unica salvezza è la vecchia politica keynesiana di aumento della
spesa pubblica? La sinistra ha qualcosa di nuovo da dire, in mezzo a questo dramma? Il
«qualcosa di nuovo» che dovrebbe distinguere i progressisti è anzitutto la «narrazione» della
crisi: le sue cause, i colpevoli. Quindi, l’agenda delle cose da fare per uscirne. Dalla sinistra ti
aspetti che indichi un percorso, al termine del quale non solo sarà finita questa lunga
depressione economica, ma ne usciremo costruendo una società più giusta e più serena di quella
in cui viviamo. Eppure, ascoltando il linguaggio dei governanti nei grandi vertici che seguo, il
G8 o il G20, l’assemblea dell’Onu e il Forum di Davos, ho l’impressione di un chiacchiericcio
indistinto, di una grande melassa che cosparge questa crisi di luoghi comuni. Roosevelt e
Mussolini formularono due analisi molto diverse tra loro, sulla crisi del 1929, ma ebbero una
cosa in comune: la capacità di mobilitare i loro popoli, almeno inizialmente, al servizio di un
grande progetto nazionale. Oggi nessun leader ha questa capacità. E dietro i leader mancano i
pensatori, le idee nuove .
Vivendo in America è inevitabile per me partire da Obama. D’altronde, mi guardo attorno e
non vedo un altro leader al governo di una grande nazione occidentale che possa dirsi di
sinistra. Parto da lui, e sono costretto a paragonare il clima in cui si apre questa campagna
presidenziale del 2012 con le immense speranze suscitate da quella del 2008. Io non dispero che
Obama venga rieletto per un secondo mandato, ma mentre scrivo queste pagine le sue chance
sembrano appese agli errori tattici della destra, alla pochezza degli avversari. Non è più l’ora
dei sogni, delle visioni, dei grandi movimenti. Altro che «audacia della speranza». L’Obama
che vincerà nel 2012 – se vincerà come spero – si sarà trasformato in un politico moderato,
pragmatico, scelto dai suoi elettori come il meno peggio rispetto a una destra radicale, cattiva,
esagerata nel suo progetto di «guerra totale» al Welfare State. Cosa è accaduto all’Obama del
2008? Era un inganno allora? Abbiamo frainteso quel che rappresentava? Oppure la
trasformazione della sua immagine è conseguenza di una sconfitta? Che cosa ci deve insegnare,
da dove possiamo ripartire con un progetto che non si esaurisca nella fiammata di una bella
campagna elettorale? Di una cosa sono certo: la disillusione rispetto al 2008 non si può
addebitare solo a Obama. Questo presidente, che ha compiuto 50 anni il 4 agosto 2011, incarna
la storia di una generazione, la mia. Non posso scindere la parabola di Obama da un bilancio
severo su di noi, la nostra storia, i nostri ideali, e soprattutto i nostri errori. L’Europa e l’Italia
hanno avuto delle sinistre diverse da quella americana, ma certi sbagli li abbiamo fatti tutti
insieme .
Ho cinque anni in più rispetto al presidente americano, eppure una cosa mi fa sentire «della
stessa generazione». È un dato anagrafico che ha una conseguenza politica, e perdonatemi
accostamenti immodesti. Come capirete, mi servono a tracciare i confini di una storia, di una
fascia di persone più o meno della mia età che ha condiviso sogni, utopie, battaglie, qualche
conversione, abbagli, sbandate e illusioni. Dunque, l’età di Obama mi ricorda che anch’io
appartengo alla fascia dei postsessantottini: nel Maggio 1968 ero un bambino. Lui iniziò come
attivista politico di quartiere nella Chicago violenta e irrequieta degli anni Ottanta; io mi sono
affacciato all’età adulta in un’Europa ancora traversata da grandi battaglie sociali, con
movimenti operai e studenteschi forti, a metà degli anni Settanta. Cresciuto a Bruxelles,
«scoprii» la mia Italia facendo l’università a Milano, mi iscrissi al Partito comunista nel 1974 e
feci in tempo a militare e lavorare per il partito quando ne era segretario Enrico Berlinguer,
condividendone la sfida: come definire un’idea di sinistra che ripudiasse il disastro del
«socialismo reale» nell’Unione Sovietica? La sinistra italiana aveva un problema in più
rispetto a quella francese, che frequentavo negli stessi anni. Quel problema era lo Stato. Quello
che avrebbe dovuto essere uno strumento per difendere i deboli, attenuare le diseguaglianze
sociali o territoriali, raddrizzare i torti, applicare il diritto. E che nell’Italia di quegli anni voleva
dire la Democrazia cristiana più i partiti-satelliti che ne condividevano il potere, cioè
clientelismo, boiardi nelle aziende pubbliche, lottizzazione degli incarichi, spesa assistenziale,
inefficienze e sprechi, corruzione. Con questi due modelli negativi di fronte – l’Urss e il
capitalismo di Stato democristiano – ci sembrò di rinascere quando, dopo la caduta del Muro di
Berlino, spuntarono all’orizzonte due leader come Bill Clinton e Tony Blair. L’idea forte che li
univa, e che ha affascinato molti progressisti della mia generazione, era quella di «usare» il
mercato per «fare cose di sinistra». Liberalizzare, diffondere la concorrenza, doveva servire a
rendere le nostre società meno ingessate, meno oligarchiche, con più opportunità alla portata di
tutti. Il liberismo di sinistra, clintoniano e blairiano, era la terza via tanto aspettata. Sarebbe
stata quella sinistra occidentale e moderna a creare l’eden del cittadino-consumatore, reso
finalmente sovrano .
La Grande Contrazione che attraversiamo, la crisi deflagrata nel 2008 e che si prolunga
dolorosamente senza che se ne veda uno sbocco, ci costringe a leggere in una chiave ben
diversa la storia di questi ultimi trent’anni. Le sinistre al potere hanno spesso continuato, a
modo loro e magari con toni più «gentili», il grande cantiere di smantellamento del sindacato e
delle regole. In America, ancora più che altrove, ogni movimento dei lavoratori è stato
contrastato fino quasi a cancellarlo. In tutto l’Occidente si è assistito a un gigantesco
spostamento della ricchezza (tra l’8 e il 10 per cento) da chi lavora a chi percepisce profitti e
rendite finanziarie. E questo avveniva mentre in tanti paesi, Italia compresa, erano al governo,
anche per lunghi periodi, le sinistre. La deregulation ha partorito nuovi monopoli privati al
posto dei monopoli di Stato; le regole sui mercati sono state indebolite, travolte, aggirate; i
controllori sono stati manipolati dalle lobby della finanza e della grande industria. L’eden del
cittadino-consumatore non si è visto, quello dei chief executive sì .
Strada facendo, anche nella sua culla storica, l’America, la democrazia è stata corrotta. Un
esempio? Per la sua rielezione Obama dovrà spendere circa un miliardo di dollari, un record
storico. Dove pensate che li raccoglierà? Tra i metalmeccanici? Gli insegnanti? Questa America
assomiglia sempre di più a una plutocrazia: i contropoteri di una volta sono stati sbaragliati,
come il sindacato oggetto di una campagna di distruzione sistematica, o indeboliti come la
stampa. Tutto ciò non è avvenuto solo quando governavano Ronald Reagan e la famiglia Bush,
ma anche durante l’amministrazione Clinton. Il suo erede di una generazione più giovane,
Obama, si muove entro rapporti di forze sempre più sfavorevoli sul terreno economico e
sociale. Li abbiamo costruiti anche noi. Sulla scena mondiale, nel ruolo di rivale dell’America,
al posto dell’Unione Sovietica c’è una Cina capitalista e con enormi diseguaglianze sociali al
suo interno; sulla scena italiana la Dc è anch’essa scomparsa da oltre vent’anni, ma quel che
resta dei sogni della mia generazione non è un bello spettacolo .
Scorro i titoli di copertina sugli ultimi numeri di «The Nation», forse la rivista più a sinistra
che ci sia in America. Nell’estate del 2011 Obama è onnipresente, e sempre in negativo:
promesse non mantenute, sogni traditi, battaglie perdute, errori strategici, ingenuità tattiche.
Welfare, ambiente, sanità, fisco, occupazione, scuola, politica estera, terrorismo, diritti umani:
in ogni numero, «The Nation» affronta un diverso aspetto, ma la conclusione è sempre la stessa.
Un altro settimanale di qualità, e progressista, «New York Magazine», dedica una copertina dal
titolo Qualcosa di marcio (sottotitolo Il peccato originale di Obama) a un lungo reportage di
Frank Rich che si conclude così: per non avere istruito un processo ai banchieri americani, per
non avere attaccato frontalmente le forze del male annidate a Wall Street, Obama si è
condannato a vivere nell’ambiguità, con «qualcosa di marcio» che resta incollato alla sua
presidenza. MoveOn, il celebre movimento di base della sinistra che ebbe un ruolo cruciale
nella sua vittoria del 2008, ha inviato milioni di email ai suoi sostenitori con l’esortazione
«impeditegli di tagliare la Social Security». Oggetto dello scandalo, le concessioni eccessive
che il presidente ha offerto alla destra sui tagli al welfare, di fronte alla crisi del debito
pubblico. I capelli bianchi da stress non sono l’unico sintomo di vecchiaia che ha
accompagnato il cinquantesimo compleanno di Obama: il suo mito è invecchiato ben più
precocemente del suo vigore fisico. Quel che sento nell’America radicale corrisponde alle
lamentele di tanti amici e lettori che incontro nei miei viaggi in Italia e in Francia. Nelle
occasioni pubbliche, in cui presento e discuto i miei libri, spesso qualcuno mi interpella così:
«Ma perché Obama ci ha tradito? Che delusione tremenda». I progressisti europei lo avevano
adottato con foga. Virtualmente lo avevamo eletto presidente del mondo intero. Oslo gli aveva
dato il Nobel per la pace. E lui ci ripaga in questo modo? Una volta, tanto tempo fa, questo lo
chiamavamo «culto della personalità». È una malattia di cui la sinistra ha sofferto fin da
bambina: Lenin, Mao, Ho Chi Minh, Che Guevara… Per generazioni la sinistra ha trasformato i
suoi leader in semidei, santi laici, eroi. Non bastava glorificare le loro idee, bisognava che
fossero dei superuomini. Forse la parola giusta è «demiurgo». Secondo Wikipedia, in Platone il
demiurgo è «una forza ordinatrice, plasmatrice, che trasforma e forma». Il dizionario Sabatini
recita invece: «Chi, in forza della propria personalità, riesce a modellare gli eventi secondo il
proprio volere» .
Dalla mia gioventù militante conservo però la memoria di una sinistra che aveva sviluppato
gli anticorpi per immunizzarsi dal culto della personalità. Non tutta la sinistra, a dire il vero.
Ricordo i primi cortei cui partecipai a Milano negli anni Settanta, col Movimento studentesco
che intonava «evviva il compagno Stalin», e mi venivano i brividi. Ma nello stesso periodo,
Berlinguer e Luciano Lama erano antieroi per eccellenza. Li stimavamo, e in nome del
centralismo democratico eravamo anche disciplinati nell’eseguire le loro strategie, ma non
erano idolatrati. Anche nella sinistra movimentista ed extraparlamentare c’era almeno un
principio valido: la diffidenza verso «la delega». Che cosa significava? Che per cambiare la
società non ci si poteva affidare solo ai propri rappresentanti; bisognava agire di persona. In
alcune frange estremiste, purtroppo, questo degenerava nella sfiducia verso la democrazia
parlamentare, l’avversione allo Stato di diritto, la tentazione della lotta armata, che fece tante
vittime negli Anni di piombo. Ma in molti di noi, radicali e pacifisti, utopisti e arrabbiati,
l’avversione alla delega era un principio sano: l’impegno politico e sociale non si può esaurire
mettendo una scheda nell’urna, la qualità del mondo in cui viviamo la si costruisce giorno per
giorno, l’ingiustizia va contrastata continuamente. C’era anche l’idea, molto cattolica e forse un
po’ ingenua, che una persona sinceramente progressista si riconosce perfino dal modo in cui
vive: nei rapporti umani, nelle scelte di consumo, nel tempo libero, nei mestieri a cui
aspiravamo, bisognava distinguersi e riconoscersi. Questo poteva sconfinare nell’integralismo,
nel fanatismo, ma non era sbagliato il concetto che idee politiche e caratura morale facessero
tutt’uno. Obama ha commesso la sua brava dose di errori, ma nella rapidità con cui si è passati
dall’adorazione del «Dio nero» alla delusione c’è il segno di una sinistra volubile, capricciosa e
pigra, in cerca di scorciatoie e in attesa di miracoli venuti dall’alto .
Quando scrivo nella stessa pagina i nomi di Berlinguer e Lama, poi quelli di Clinton e
Obama, so che alcuni lettori italiani saranno sconcertati. Nella vecchia Europa si ha la tendenza
a pensare che non esista una «vera» sinistra in America (oppure, se esiste, è troppo diversa
perché si è dovuta misurare con altri problemi, per esempio le battaglie per i diritti civili dei
neri in una nazione che conobbe lo schiavismo). Ricredetevi: «noi» e «loro» facciamo parte di
una storia sola. Negli anni Trenta, Roosevelt, quando sperimentò le politiche del New Deal per
contrastare la Grande Depressione, si circondò di collaboratori che erano attratti dal socialismo.
Clinton ha studiato in Inghilterra ed è un discreto conoscitore delle opere di Antonio Gramsci.
Obama non è affatto quell’«alieno» che sembra suggerire la sua biografia esotica (il padre
venuto dal Kenya, l’infanzia trascorsa in Indonesia); le letture formative della sua giovinezza
includono tutti gli autori antimperialisti che popolavano le biblioteche della sinistra europea. Il
suo battesimo politico, come organizzatore di quartiere a Chicago, fu una militanza a contatto
con i movimenti afroamericani, dove il marxismo aveva un’influenza notevole. Quella storia lo
ha «perseguitato» fino al 2008, quando in campagna elettorale gli venne contestata la sua
amicizia col reverendo Jeremiah Wright, un pastore nero di Chicago celebre per la sua critica
radicale della società americana e le sue invettive virulente contro l’ingiustizia di classe e di
razza. La destra ha capito benissimo da quale «album di famiglia» viene Obama, e non smette
di rinfacciarglielo. Uno dei temi favoriti dei repubblicani, anche dopo tre anni di mandato alla
Casa Bianca, è l’accusa a Obama di «fomentare l’odio contro i ricchi e la lotta di classe». Per
questo non mi piace ragionare a compartimenti stagni, come se la storia, le passioni, gli sbagli
della sinistra italiana e di quella americana appartenessero a mondi diversi. Veniamo da un
ceppo unico, siamo tutti sulla stessa barca, e le sconfitte di una parte di noi ci interpellano tutti .
I progressisti americani e quelli europei oggi affrontano una sfida terribilmente simile: come
rendere credibile un’uscita «positiva» dalla crisi che non sia un miraggio; come costruire un
futuro migliore, quando le nostre nazioni sono oberate da un debito pubblico immenso e i più
anziani tra i baby-boomers stanno andando in pensione. Questo shock demografico fa paura
perfino in una nazione ben più giovane dell’Italia e dal tasso di natalità positivo come gli Stati
Uniti. Anche gli americani devono affrontare un evento inaudito come il progressivo
pensionamento della generazione più popolosa della storia (i figli del baby-boom postbellico
nacquero tra il 1945 e il 1965; Obama è uno di loro). Siamo noi la prima generazione al mondo
che non potrà contare sui propri figli per pagarle le pensioni «promesse» negli anni delle vacche
grasse. Siamo la prima generazione, in Occidente, i cui figli sembrano doversi adattare a un
tenore di vita inferiore a quello dei genitori; il che ci risulta innaturale e ci carica di complessi
di colpa. C’è spazio per organizzare una società migliore, e avremo le energie per farlo, se la
prospettiva dei nostri paesi è quella di gestire la scarsità negli anni a venire? Queste sono le
domande che abbiamo in comune, da una parte e dall’altra dell’Atlantico (mentre hanno
problemi diversi i colossi emergenti come Cina, India, Brasile). La declinazione paurosa e
perdente di questa sfida l’abbiamo già vista. Molteplici convulsioni di crisi finanziaria
dall’America all’Eurozona hanno imposto piani di austerità calati dall’alto, rozzi e frettolosi,
senza una visione del futuro. In quel succedersi di emergenze ci siamo abituati a una sorta di
«sospensione della democrazia» a Roma, Madrid o Atene, considerandola quasi un male
minore rispetto all’apocalisse di una bancarotta nazionale. Una parte della sinistra italiana ha
vissuto con malcelato godimento lo spettacolo di Silvio Berlusconi «commissariato»
dall’estero, i diktat della Banca centrale europea avallati da Berlino, Bruxelles e Parigi, per
imporgli un’agenda di risanamento dei conti pubblici. È un’antica debolezza della nostra
sinistra – era già una debolezza dei riformisti illuminati e razionalisti, ma sempre minoritari,
come Ugo La Malfa e gli eredi del Partito d’Azione – questo fare il tifo per un «commissario
esterno» che riesca a imporre il cambiamento dove noi abbiamo fallito .
Un altro esempio inquietante di risposta della sinistra alla crisi: la battaglia americana sul
debito pubblico, che ha avvinghiato Obama e il Congresso durante l’estate del 2011. La sinistra
americana ha vissuto quella vicenda come una sconfitta grave. Gli ideali progressisti hanno
subìto una ritirata, mentre la destra è riuscita a imporre che tutto il dibattito politico avvenisse
sul suo terreno prediletto, concentrandosi in modo esclusivo, perfino ossessivo, sui tagli alla
spesa sociale, sul ridimensionamento del Welfare State. È la stessa agenda politica che
conservatori e neoconservatori perseguono con tenacia e coerenza da più di trent’anni, da
quando Reagan calcò le scene della politica americana. La sinistra è al rimorchio: Obama ha
fatto del suo meglio per ridurre la gravità dei tagli; ma di quelli si è dovuto occupare,
rinunciando a «cambiare il gioco». L’idea alternativa, cioè che l’America di oggi abbia bisogno
di più spesa sociale, più welfare, più eguaglianza, più servizi pubblici, più investimenti statali
nelle infrastrutture o nelle energie rinnovabili, è stata marginale nel discorso pubblico. Dal
punto di vista dell’egemonia culturale, del senso comune nazionalpopolare, la destra è
vittoriosa nonostante le sue faide interne. Eppure nell’opinione pubblica l’insoddisfazione è
palpabile: tra le cose che i suoi seguaci non perdonano a Obama ci sono l’avere accettato di
mettere sul tavolo dei negoziati con i repubblicani i tagli al Medicare (l’assistenza sanitaria per
gli anziani oltre i 65 anni). La sinistra che subisce un’agenda di destra non è uno spettacolo
inedito. Accadde già con Bill Clinton alla Casa Bianca: quando perse la maggioranza al
Congresso, Clinton si salvò con la cosiddetta «triangolazione». Usò la tattica di spostarsi al
centro, presentandosi più come un «terzo protagonista» fra repubblicani e democratici. Alla fine
rivinse le elezioni e ottenne un secondo mandato nel 1996. Al prezzo però di inaugurare nuovi
tagli al Welfare State, sicché divenne per certi aspetti un continuatore di Reagan. La forza della
destra risale proprio al messaggio fondamentale di Reagan: «Lo Stato non è la soluzione ai
nostri problemi, lo Stato è il problema». Quanto lo sbeffeggiammo, noi intellettuali europei, noi
amici delle élite liberal di New York o San Francisco, quel rozzo attore di Hollywood arrivato
alla Casa Bianca! Eppure, quel suo messaggio anti-Stato ha rivelato una potenza formidabile, è
ancora in mezzo a noi. Trent’anni dopo è un’ideologia che riaffiora costantemente nei
movimenti populisti, e ha sottratto tanti consensi alla sinistra tradizionale. E perché stupircene?
Questo Stato spesso fa schifo anche a noi, quando passiamo dall’entità astratta e nobile al
contatto reale con i suoi molteplici apparati e rappresentanti. Fanno parte dello Stato anche le
auto blu dei parlamentari, gli enti inutili e i carrozzoni, e tanti burocrati con cui ciascuno di noi
ha avuto esperienze disastrose. Non è molto meglio negli Stati Uniti: per i più poveri tra gli
americani, spesso «lo Stato» è un impiegato dell’assistenza pubblica che li tratta con arroganza,
come dei cittadini di serie B, mentre fanno la fila per il sussidio di disoccupazione o i buoni
pasto. Non vi consiglio di finire nelle grinfie dei «servitori dello Stato» se per caso all’arrivo in
un aeroporto americano il vostro nome finisce per sbaglio sulla lista degli stranieri sospetti. No,
purtroppo non sono «bellissime le tasse», come disse il compianto Tommaso Padoa Schioppa.
Lui sì, certamente, fu un servitore integerrimo dello Stato, ma in quella sua frase tanto
contestata tradì una visione ottimistica delle tasse come «un modo civilissimo di contribuire
tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute». Dovrebbe
essere così; e sarebbe così se i cittadini fossero soddisfatti delle scuole, dell’ordine pubblico,
della qualità dell’aria che respirano, dell’assistenza sanitaria. Ma cosa accade se invece i
cittadini sono profondamente insoddisfatti di questi servizi pubblici? Accade che perde
consensi la sinistra; i suoi ideali si appannano; la sua visione di una società più equa non è
credibile. Tanti colletti blu americani, pezzi interi di classe operaia sindacalizzata, passarono
dalla parte di Reagan negli anni Ottanta, e tuttora si riconoscono in alcuni slogan della destra
repubblicana, perché ogni volta che si trovano di fronte un impiegato pubblico incompetente o
negligente si chiedono: «È per mantenere costui, che io pago le mie tasse?» (in realtà le sue
tasse vanno soprattutto a pagare le guerre del Pentagono, i salvataggi dei banchieri di Wall
Street, gli sgravi fiscali ai petrolieri; ma per l’operaio che vota a destra lo Stato è
quell’impiegato pubblico, quel burocrate che lo tratta dall’alto in basso) .
Ricordo una stagione in cui la sinistra italiana si occupava molto di «riforma dello Stato».
Uno degli ingegni più brillanti del nostro riformismo, Giuliano Amato, è uno specialista
autorevole di questo tema, e con lui tanti altri, in varie responsabilità legislative o progettuali.
Nomi del calibro di Franco Bassanini, Sabino Cassese, Stefano Rodotà. Purtroppo non riesco a
vedere nella società italiana di oggi una traccia riconoscibile del loro passaggio nelle stanze dei
bottoni. Non vedo nell’apparato statale italiano un’eredità benefica e consistente dei tanti anni
in cui il centrosinistra ha governato. E questo non è un problema solo italiano. Nel mondo
intero la sinistra paga per la sua identificazione con lo «statalismo», perché quando ha
governato non ha migliorato sensibilmente la qualità dello Stato. O riusciamo a imprimere una
svolta su questo terreno, oppure le burocrazie di tutto il mondo saranno il nostro handicap
perpetuo, e il migliore argomento in favore delle destre. Questo Reagan lo capì perfettamente,
perfino nella scelta delle parole: lui prendeva di mira il Big Government, come la sinistra a suo
tempo aveva denunciato il Big Business. Il «grosso Stato», vorace e invadente, non piace più
del «grosso capitalismo» .
Il ricordo di Reagan mi riporta a uno dei punti di partenza nella mia piccola vicenda
personale: il mio primo viaggio in California nel 1979. Come tanti giovani europei di sinistra,
avevo già la California nel cuore e nei miei sogni: avevo letto i poeti della beat generation,
ascoltato le canzoni della Summer of Love di San Francisco, guardato i film Easy Rider,
Fragole e sangue, Il laureato. Anche se gli hippy erano ben lontani dal puritanesimo degli
eurocomunisti, tuttavia sentivamo l’attrazione irresistibile per una terra di libertà estreme. Tutto
là sembrava molto in anticipo sull’Europa: le vittoriose battaglie di Ralph Nader per la tutela
dei consumatori, l’ambientalismo e le severe normative contro l’inquinamento, la rivoluzione
sessuale, il femminismo, l’accettazione sociale dei gay, la società multietnica e multiculturale.
Era un’esperienza di liberazione anche psicologica, per me, l’approdare sulle rive del Pacifico,
respirare il clima inebriante della West Coast mentre lasciavo alle spalle per un po’ l’atmosfera
cupa che stava incombendo sull’Italia. Perché quell’Italia che avevamo considerato a lungo
come un laboratorio «avanzato» di lotte politiche e sociali si stava avvitando in una crisi
drammatica, dove erano ben visibili i segnali premonitori di un’epica sconfitta delle sinistre .
Il 17 febbraio 1977, il mio primo giorno di lavoro come giornalista per il settimanale «Città
Futura» della Fgci (Federazione giovanile comunista) aveva coinciso con la violenta
aggressione al segretario della Cgil Lama da parte degli «autonomi» dell’estrema sinistra
durante una manifestazione all’Università di Roma. Il 16 marzo 1978 il leader democristiano
Aldo Moro era stato rapito dalle Brigate rosse, lo stesso giorno in cui in Parlamento
s’inaugurava un governo con l’appoggio esterno del Pci. Nel 1979, da giornalista di «Rinascita»
(Pci), avevo seguito i primi licenziamenti alla Fiat di 61 operai accusati di fiancheggiare le
Brigate rosse. Era il preludio della grande sconfitta sindacale che sarebbe maturata nel 1980,
dopo la fallita occupazione di Mirafiori, con la «marcia dei quarantamila» (manager, quadri e
capireparto) in appoggio alla direzione dell’azienda .
California Dreamin’, dunque, era un sogno fattosi realtà: un tuffo nella West Coast apriva
orizzonti infiniti, faceva immaginare nuove strade per organizzare il cambiamento, adeguate a
una società postindustriale. E davvero tutti i valori di una sinistra proiettata nel XXI secolo
erano già ben presenti lì: gli investimenti lungimiranti nell’università e nella ricerca, l’ecologia,
una politica intelligente d’integrazione degli immigrati, il rispetto di tutte le diversità in nome di
una «contaminazione» feconda. E se il 1979 era l’anno in cui a Pechino un certo Deng
Xiaoping stava muovendo i primi passi (prudenti e graduali) per traghettare la Cina verso
l’economia di mercato, era già acuta in California l’attenzione verso l’altra sponda del Pacifico,
la previsione di un cambiamento nelle gerarchie e nei rapporti di forza, la necessità di occuparsi
dell’Asia (che allora era soprattutto il Giappone). Sempre da quelle parti, un certo Bill Gates
cominciava ad accarezzare l’idea di una rivoluzione tecnologica dalla valenza potenzialmente
democratica, sognando di portare un computer in ogni casa e su ogni scrivania. Lui poi avrebbe
imboccato la strada del capitalismo classico, sarebbe diventato l’uomo più ricco d’America
creando un colosso dagli appetiti egemonici, ma nella sua aspirazione iniziale c’era in germe
tutta la cultura dell’informatica diffusa che avrebbe partorito il software «socialista» di Linux, il
«sapere gratuito» di Wikipedia, l’attacco ai segreti di Stato di WikiLeaks .
Nel periodo del mio primo viaggio californiano, però, lì si delineava una storia divergente,
destinata a segnare con prepotenza il futuro del mondo. L’anno precedente, nel 1978, un
movimento antitasse partito dalla California (l’antenato del Tea Party odierno) aveva ottenuto
una vittoria cruciale: la maggioranza degli elettori aveva approvato la Proposition 13, un
referendum che imponeva nella Costituzione californiana un limite stringente alle tasse sui
patrimoni immobiliari. E proprio nel 1979 Reagan, che era stato governatore della California, si
accingeva a dare la scalata al Partito repubblicano per poi candidarsi alla Casa Bianca. La sua
elezione alla presidenza degli Stati Uniti nel 1980 doveva coronare un lungo lavoro
preparatorio: la restaurazione conservatrice negli Stati Uniti era un’operazione programmata da
tempo, sul fronte economico, politico, culturale. Era un progetto di lunga lena portato avanti
con pazienza per molti decenni. I pionieri e i promotori avevano studiato forse meglio di noi
Gramsci e il suo concetto di egemonia culturale. Mentre la California che io esploravo nel 1979
era ancora all’apparenza un giardino dell’eden di tutte le forze progressiste, anticonformiste e
perfino rivoluzionarie, lì in mezzo si agitava qualcosa di profondamente diverso, antitetico.
L’aspetto fiscale era importante perché, privando lo Stato della potestà di modificare il prelievo
sui patrimoni, si creava un ostacolo permanente agli investimenti pubblici. Anche se non era
visibile allora, cominciava così quell’impoverimento della scuola pubblica e di tanti servizi
sociali che ha segnato profondamente la società americana .
E non c’era solo la Proposition 13: spostando il suo baricentro dai vecchi Stati industriali del
Midwest (la cosiddetta Rust Belt, la «fascia della ruggine») verso la West Coast e il Sud (la Sun
Belt, la «fascia del sole»), il capitalismo americano stava effettuando una delocalizzazione
interna dalle conseguenze sconvolgenti. Cominciava allora il grande svuotamento di quei settori
industriali dove lavorava una classe operaia sindacalizzata, per sviluppare nuove attività in aree
del paese con poca organizzazione sindacale. Tutte le grandi imprese innovative germinate in
California, che hanno rivoluzionato il mondo intero e che hanno plasmato la nostra vita
quotidiana – da Microsoft a Google, da Apple a Facebook –, sono nate in un’assenza totale di
organizzazione collettiva dei lavoratori. Nel frattempo, ogni occasione veniva sfruttata dalla
destra americana per ostracizzare il sindacato dai luoghi di lavoro più tradizionali. Un’offensiva
a tenaglia: da una parte, sulla West Coast, l’emergere di un nuovo ceto professionale legato al
primo boom delle «industrie della conoscenza» sembrava sposarsi perfettamente con
l’iperindividualismo e l’allergia alle lotte collettive; dall’altra parte, il sindacato stesso veniva
messo fuori legge anche nei supermercati Wal-mart o nelle fabbriche automobilistiche degli
Stati poveri del Sud (Alabama, Mississippi). Libertaria e liberista, la California offriva il
terreno ideale per dissimulare la natura della nuova destra e affascinare anche noi progressisti
europei. A San Francisco vedevamo realizzati tanti ideali del Sessantotto: una società
antiautoritaria, laica, tollerante, aperta a tutti gli esperimenti. Il giardino dell’eden per la Me
Generation, la Generazione dell’Io. Era quella che lo storico Christopher Lasch definiva nel
1979 «l’età del narcisismo». Mentre in quella California degli anni Settanta ci seduceva la
promessa di affrancarci dalle gerarchie, dalle tradizioni, dal peso del passato, non vedevamo