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T OMMY HA DA POCO COMPIUTO SEDICI ANNI. VIVE L’ETÀ IN CUI
tutti gli adolescenti cominciano a fare progetti sul futuro e i genitori si
preparano a lasciarli camminare da soli. Ma Tommy è un adolescente
speciale: certo, è bravissimo a risolvere il cubo di Rubik, sa alzarsi perfettamente in
equilibrio dopo aver girato per mezz’ora, in posizione yoga, come una trottola sulla
sedia d’ufficio del padre, però il suo sguardo fatica a incrociare il tuo e il suo
vocabolario è fatto di una manciata di parole. Perché Tommy è autistico, un
dolcissimo, solitario ragazzone che senza l’aiuto di qualcuno difficilmente potrà
percorrere le strade della vita.
¶ Tommy «frequenta» il liceo artistico, ma non conosce l’ambizione di un diploma
o di una laurea. Il vero traguardo di quelli come lui è l’autonomia nelle piccole azioni di
tutti i giorni: sapersi lavare e vestire, allacciarsi le scarpe, affettare le zucchine per un
piatto di pasta da cucinare sotto lo sguardo attento di un adulto.
¶ E se fino a un anno fa la sua gestione quotidiana – già tutt’altro che semplice –
era pur sempre l’unico problema dei genitori, per loro è ora arrivato il momento di
affrontare nuovi angoscianti quesiti: che ne sarà di Tommy domani? Chi se ne
occuperà quando il padre e la madre non avranno più le energie per camminargli
accanto? Chi potrà arginare le ansie, le crisi di quell’«omaccione-bambino» dalla forza
incontrollabile?
¶ Con la lucidità, insieme disincantata e ironica, e la visionarietà che gli
riconosciamo, Gianluca Nicoletti ci racconta (e si racconta) cosa succede «dopo»,
quando al tuo bambino incapace di comunicare e giocare inizia a spuntare la barba e
tu, oltre alle difficoltà del presente, devi fare i conti con il suo futuro.
¶ Con la fine della scuola superiore, il sogno dell’inclusione totale naufraga
miseramente, per molti ragazzi autistici si aprono le porte dei centri per handicappati
gravi, per tanti altri non c’è alternativa alla reclusione fra le mura domestiche. Aumenta
il deserto intorno a loro. E ai loro genitori. I quali, mossi da un «miraggio di
immortalità», si vedono costretti a trovare una soluzione in proprio: per questa ragione
pullulano le associazioni, le onlus, i siti, i blog. Perché l’attivismo è il miglior modo
«per dare un senso al quotidiano», e soprattutto per combattere il pensiero angoscioso
che, quando non ci saranno più, quel figlio «strampalato» venga trattato dalla società
come «materiale da discarica di esseri umani».
¶ Alla fine qualcosa ci inventeremo è un libro provocatorio e arrabbiato, ma –
proprio come Una notte ho sognato che parlavi, di cui è il naturale seguito – struggente
e pieno d’amore. Alternando il racconto di episodi vergognosi e buffi, imbarazzanti e
commoventi, fa luce su una realtà che troppo spesso si preferisce tenere nascosta dietro
le finestre di casa e soffocare nel silenzio.
L’autore
Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della
radio italiana, conduce la trasmissione Melog-Cronache
meridiane (Radio 24) e collabora alla «Stampa». È autore di:
Ectoplasmi, Golem, Perché la tecnologia ci rende umani, Libro
infame e, da Mondadori, Amen, Le vostre miserie, il mio splendore
e il bestseller Una notte ho sognato che parlavi.
http://www.miofiglioautistico.it
Gianluca Nicoletti
ALLA FINE QUALCOSA
CI INVENTEREMO
Che ne sarà di mio figlio autistico
quando non sarò più al suo fianco
Alla fine qualcosa ci inventeremo
Ci siamo tolti la maschera
per non essere riconosciuti
nella follia che affolla
il nostro muto pensare
I
Effetto Stigler
Il 17 gennaio nell’anno 2014 è caduto di venerdì. Quel funesto incrocio di
venerdì e di 17 è per me iniziato alle otto di mattina, con l’ascensore
schiantato proprio mentre io ero dentro e risalivo verso casa.
Il nostro palazzo è servito da un vecchio ascensore Stigler a gabbia degli
anni Venti, progettato all’origine per andare su e giù per sei piani
provvedendo alle ordinarie transumanze familiari dell’epoca. Le sue salite e
discese attaccato a cavi d’acciaio a vista erano state valutate per sostenere
mediamente due uscite quotidiane per gli inquilini uomini e una per le
donne. Al massimo il raddoppio di saliscendi era previsto anche per le
signore se, oltre alla spesa, avevano l’impegno della novena.
Sapevo di rischiare ogni giorno con un ascensore pensato per altri tempi,
soprattutto perché oggi il palazzo è occupato quasi esclusivamente da uffici. Il
viavai di persone che vanno e vengono non è sopportabile per il vecchio
trabiccolo di legno e vetrinette che, per lo stress eccessivo, spesso cede.
Così, quel venerdì 17 gennaio, l’ascensore ha cominciato a tremare, poi ha
fatto un salto in basso, strattonato all’istante dal freno di sicurezza. Mentre
pensavo che sarei morto sfrittellato, ho fatto giusto in tempo a considerare
che fortuna fosse stata quella di ritrovarmi lì da solo (mia moglie era allettata
con la febbre) venti secondi dopo aver consegnato mio figlio Tommy ad
Alessandro, il ragazzo che lo aspetta sul marciapiede davanti al portone per
portarlo a scuola con il pulmino del comune.
Quando ho capito che non sarei morto, con un’ardita peripezia sono
riuscito a svicolare nella fessura di trenta centimetri scarsi tra il muro e il
cancelletto dell’ascensore, bloccato tra due pianerottoli, continuando a
pensare che mi sarebbe stato impossibile, se Tommy fosse stato dentro con
me, issare gli oltre novanta chili del mio ragazzone balzano per quel pertugio
dove a stento passavo io; di sicuro, il suo testone riccioluto sarebbe rimasto
incastrato.
Risalendo a piedi le scale per prendere giacca e valigia, mi faceva male la
schiena per il colpo di frusta, ma sono poi partito abbastanza leggero verso la
Puglia, dove avevo una presentazione del libro in cui ho raccontato della mia
vita con Tommy.
Lo stesso giorno, però, lo scuolabus giallo ha pensato di non riportare a
casa il mio Capoccione strampalato: qualche funzionario preposto al servizio
aveva deciso che il trasporto per Tommy andasse cambiato. L’ha fatto di sua
iniziativa, forse per ottimizzare le spese, o forse per favorire un’altra famiglia
che aveva battuto i piedi. Quel signore sconosciuto non si è posto il problema
di quale tragedia potesse significare per un autistico l’interruzione di una
routine. Da zelante «efficientatore» ha deciso d’intervenire senza consultarsi
con gli educatori e senza preoccuparsi di avvertire la famiglia né tantomeno la
scuola.
Così a mezzogiorno Tommy è uscito di classe e ha cominciato ad
aspettare il suo pulmino per completare quell’insieme mentale «scuola-casa»
che rappresenta un anello importante della consuetudine quotidiana,
aiutandolo ad allontanare l’ansia continua che il mondo possa all’improvviso
finire.
Più ancora di lui si è agitata sua madre, che oramai fibrilla per un
nonnulla che le faccia immaginare una crisi di Tommy e che, dopo un’ora di
telefonate senza senso, ha infine spedito in taxi la nostra cara Nelly per
riportare Tommy alla base.
Io, per fortuna, ho saputo dell’accaduto quando tutto era risolto, mentre,
in viaggio sul Frecciargento verso Bari, cercavo di fendere la barriera umana
di pendolari seduti per terra per andare a prendermi un panino al bar, nella
quarta carrozza. Già prigioniero di una furiosa incazzatura che sarebbe
scemata solo a Caserta, dove il treno si è miracolosamente vuotato, per il
restante tratto di ferrovia (coperto straordinariamente in cinque ore di
viaggio per problemi tecnici) ho postato la storia su tutti i miei social
network, chiedendo: «Perché i disabili sono considerati come pacchi dai
nostri amministratori?».
In rete sono molto più ascoltato che nella vita concreta, perciò qualche
collega ha cominciato a chiamarmi, moltissimi hanno rilanciato il post dai
loro account, la vicenda è diventata pubblica in un’ora e le solerti signore
degli uffici stampa dei vari assessorati in Campidoglio si sono subito
allarmate. Sono iniziate le telefonate imbarazzate, le scuse, le giustificazioni, le
rassicurazioni. E il giorno dopo, grazie anche ad alcuni pezzi sui giornali,
sono arrivati sms contriti… Insomma, non ho difficoltà a immaginare che la
prossima volta ci penseranno bene prima di fare una stronzata simile.
Tommy, in fondo, è fortunato: alla fine subirà soprusi gravi e diretti solo
quando io non avrò più modo di scrivere di lui. Per ora è coperto dal mio
reagire sempre violento con gli strumenti della scrittura e della parola: sono la
sua barriera protettiva, proprio come il farmaco antiepilettico che lo copre
dalle convulsioni.
Ma verrà un giorno in cui nessuno mi chiederà più di scrivere libri,
nessuno mi offrirà un microfono o uno spazio su un giornale. Quel giorno
Tommy sarà esposto alle intemperie dell’indifferenza umana come la maggior
parte dei suoi colleghi poco loquaci.
Ci penso spesso a Tommy senza di me, sempre più di frequente da
quando mi guardo allo specchio e ammetto di essere vicino a quella
rappresentazione di un uomo che ho sempre attribuito alla vecchiaia. Non ho
molto tempo; devo sbrigarmi a rendere concreta ogni mia immaginazione su
un suo futuro dopo di me. Chissà, mi chiedo, come gli verrà spiegato che io
sono morto.
Forse per viltà, «morte» è una parola che con lui non ho mai pronunciato.
Come gli posso far allucinare l’idea di uno stato che nemmeno io conosco
come esperienza? In che modo posso comunicargli qualcosa che terrorizza
chiunque? Proprio a lui, cui basta vedere la copertina del dvd di Biancaneve
per chiudersi le orecchie, quasi avesse paura che il cervello possa schizzargli
fuori.
Ultimamente Tommy è cresciuto a dismisura. Mi sento un fuscello
accanto a lui, eppure solo un anno fa riuscivo a tenergli testa fisicamente
quando provava a menarmi. Lo immobilizzavo, anche se a fatica; schivavo le
sue manone e lo incravattavo con le gambe fino a che non si calmava come un
puledro rassegnato sotto al suo domatore. Temo di cominciare ad
assomigliare, in quanto a usura, a quell’antiquato ascensore, uscito nel 1920
dalle officine meccaniche Stigler di Milano, un gioiello della tecnica