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SERGIO DARA
Alcamo Judaica
Storia e documenti inediti del XV secolo,
di una comunità ebraica siciliana
Trapani, 2002
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Gli Ebrei, chiamati anche Giudei, perchè discendenti dalla tribù di
Giuda, abitarono per parecchi secoli in varie città della Sicilia e, tra le
tante altre, anche ad Alcamo dove si stabilirono, molto probabilmente,
in seguito alla conquista araba.
Con la venuta dei Normanni gli Ebrei, che erano stati politicamente e
socialmente in condizioni subalterne agli Arabi, divennero subalterni ai
Cristiani ed infatti nei secoli XIV e XV, quali servi della Regia Camera,
erano sottoposti a versare all’erario una speciale tassa denominata
“gisia”.
Una politica davvero restrittiva nei loro confronti fu instaurata nel
1310 dal re Federico III d’Aragona, che impose loro di farsi riconoscere
apponendo la “rotella rossa” che consisteva in un drappeggio di colore
rosso, delle dimensioni di un sigillo regio di prima grandezza, tanto sui
vestiti che sulle botteghe e vietò loro di familiarizzare con i Cristiani, di
esercitare la medicina e di ricoprire pubblici uffici.
Nei Capitoli sanzionati il 2 aprile 1451 da re Alfonso invece, i diritti
dei Cristiani furono estesi anche agli Ebrei; venne sancito il diritto ad
essere giudicati sia civilmente che penalmente dai secreti locali per i
reati minori e dal Mastro Secreto del Regno per quelli maggiori; venne
confermata la libertà di culto e confermata la facoltà di risiedere e
possedere beni in ogni parte della Sicilia.
Addirittura un atteggiamento di ulteriore apertura verso gli Ebrei si
ebbe con re Giovanni che nel 1466 concesse loro la facoltà (che non
venne però esercitata) di aprire uno Studio Culturale ebraico, con la
medesima funzione dell’Università degli Studi delle comunità cristiane.
Nella seconda metà del XV secolo vi furono numerose manifestazioni
di antigiudaismo, talvolta violente, che indussero, insieme ad altri
motivi di ordine religioso, politico e culturale, Ferdinando d’Aragona
ed Isabella di Castiglia a firmare, nel 1492, l’editto di espulsione degli
Ebrei da tutti i loro domini ponendo fine alla più che millenaria
presenza ebraica in Sicilia.
Si può affermare che circa un terzo delle Terre o Città siciliane, nel
tardo medioevo, ospitò una comunità ebraica che, specie in taluni centri
costieri della Sicilia Occidentale, era numericamente assai consistente.
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Le comunità ebraiche siciliane
Ogni comunità ebraica era chiamata “Aliama” o semplicemente
“Giudaica” che godeva di una propria autonomia politica,
amministrativa, giudiziaria e patrimoniale.
L’organo deliberativo della Giudaica era il Consiglio Generale cui
spettava l’elezione per scrutinio dei Proti e del Comitato delle imposte.
I Proti costituivano un organo meramente esecutivo ed il loro numero
variava da 4 a 16 in proporzione alla consistenza demografica della
Giudaica stessa. Il Comitato delle imposte era, invece, formato da 6 o 9
elementi eletti in numero uguale fra i ricchi, i “mediocri” ed i poveri.
Ruoli minori ma non per questo meno importanti, venivano svolti
dall' “hazan” che provvedeva al macello e dal “mohel” che praticava la
circoncisione e dai sacrestani che accudivano alla Sinagoga chiamata
anche “Meschita”.
Un tentativo di centralizzare il governo di tutte le Giudecche della
Sicilia fu fatto da re Martino nel 1396 il quale nominò un Giudice
universale Ebreo chiamato il “Dienchelele” che aveva il compito di
nominare i Proti di tutte le comunità ebraiche siciliane: tale carica fu
soppressa nel 1447 e, poco dopo, la competenza giurisdizionale sugli
Ebrei fu attribuita al Maestro Secreto.
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Le feste religiose
Come afferma il Di Giovanni “quello che osservarono i Gentili per
istinto di natura e per precetto della legge scritta, chiamata mosaica
perché istituita da Mosè quando scese dal monte Sinai (Levitico,
XIX,30), lo osservarono pure gli Ebrei di Sicilia”.
Questi godevano una piena libertà di osservare la legge mosaica
potendone praticare le cerimonie senza entrare in conflitto con i
Cristiani. Ciò in virtù di una Bolla Pontificia di Papa Nicolò III del 2
agosto 1278 e di un diploma emanato a Palermo da re Martino I il 28
giugno del 1392.
La più antica e rispettata legge era quella del Sabato, giorno in cui gli
Ebrei si astenevano da qualsiasi attività lavorativa, per pregare.
Secondo la lingua ebraica infatti, “Shabbath” significa riposo, in
quanto Dio, dopo la creazione dell’Universo, in quel giorno si riposò.
I cibi dovevano essere acquistati, preparati e cotti prima dell’inizio e
venivano accesi i lumi. Quest’atto aveva una particolare importanza e
solennità: l’accensione dei lumi, che era affidata alle donne di casa,
segnava la fine della settimana di lavoro e l’inizio del riposo:
simbolicamente rappresentava la pace e la santità della famiglia.
Il pasto del venerdì sera, cioè l’inizio del sabato, e quello del sabato a
mezzogiorno, cominciavano con la benedizione del vino contenuto in
un calice chiamato “kiddush”, che vuol dire consacrazione. Il
capofamiglia quindi riempiva il bicchiere di vino e recitava le
benedizioni che consacravano la giornata.
La cerimonia della “havdalah”, che vuol dire separazione tra lo
“shabbattah” e il resto della settimana , segnava la fine del sabato. Il
capofamiglia recitava quattro benedizioni, riempiva il bicchiere di vino,
prendeva un ramo odoroso e, con una candela accesa metteva in risalto
il contrasto tra la luce e le tenebre e, simbolicamente, il sabato rispetto
agli altri giorni.
Veniva festeggiato anche il “Rosh ha shanà” ovvero Capodanno che
era una festa solenne e celebrata con un pasto simbolico come il
mangiare pane con il miele in segno di augurio di un anno dolce e
felice.
Così come gli Ebrei avevano un giorno sacro alla settimana, così ne
avevano un altro al mese: quello delle Calende ossia inizio del mese e
poiché i loro mesi erano lunari, cominciando dal novilunio, lo
chiamavano col nome greco Neomenia; fra queste la più solenne era
quella che ricorreva nel plenilunio di settembre, chiamato in ebraico
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“Tizri” e poiché veniva solennizzata con il suono delle trombe del
tempio, era denominata Festa delle Trombe.
Oltre al Sabato e alla Neomenia, gli Ebrei osservavano altre quattro
feste una sola volta all’anno.
La prima era quella dei “Sette giorni degli Azimi” ovvero della
Pasqua istituita nel quindicesimo giorno del primo mese dell’anno
sacro, chiamato Nifan, che iniziava dal plenilunio di marzo, in memoria
dell’Angelo sterminatore che fece morire tutti i primogeniti degli
Egiziani mantenendo in vita i primogeniti degli Israeliti.
Durava sette giorni, otto nella Diaspora, durante i quali non
bisognava consumare o avere in casa cibi lievitati: si mangiava infatti
solo pane azzimo non lievitato.
La seconda festa era quella della Pentecoste o “Shavuot” che veniva
celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua in memoria della legge data
da Dio a Mosè sul monte Sinai.
La terza festa era quella dell’Espiazione che si celebrava nel decimo
giorno del settimo mese sacro che corrispondeva al settimo giorno del
primo mese dell’anno civile.
Quest'ultima era una festa comandata con la prescrizione della pena di
morte per chi non l’avesse solennizzata.
Si espiavano con questa festa i peccati del popolo e venivano offerti in
sacrificio due caproni: uno veniva bruciato fuori dal campo, l’altro era
lasciato libero e veniva soprannominato il “caprone emissario”.
La quarta festa era quella “Dei sette giorni delle tende” ovvero dei
“Tabernacoli”, comandata da Dio nel libro del Levitico per ringraziarlo
dei beni ricevuti e in memoria delle tende nelle quali abitarono gli Ebrei
nel deserto dopo l’esodo dall’Egitto.
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Le Magistrature
La figura principale fra tutti i magistrati degli antichi Ebrei era quella
del Dienchelele (ossia Giudice Universale), istituita da re Martino I
nell’anno 1405 e sovrastava su tutti gli Ebrei della Sicilia con la facoltà
di nominare in ogni comunità un suo vicario o sostituto, così come a
Trapani venne nominato nel 1406 Samuele Sala.
Nel 1447, per ordine di re Alfonso, fu abolita la carica del Dienchelele
ma gli Ebrei insieme ad un’offerta di seicento onze, presentarono allo
stesso re una supplica affinché i poteri del soppresso Dienchelele
passassero ai Proti e agli altri Ufficiali delle comunità ebraiche: il re
accolse tale supplica il 14 agosto del 1447.
In tutte le comunità ebraiche della Sicilia esisteva il Protato, ossia il
consiglio di dodici persone (chiamate Proti) che godevano di ottima
reputazione all’interno della comunità e venivano nominati da quattro
persone, scelte dall’assemblea dell’intera giudecca per la loro saggezza
ed onestà.
Soltanto tre Proti, a turno, governavano la comunità per un periodo di
tre mesi e duravano in carica per un anno. Oltre al Dienchelele e ai Proti
vi erano altri Magistrati che si occupavano di affari secolari e forensi ed
erano: gli Auditori dei Conti; i Dodici Eletti; i Maggiorenti; i
Conservatori degli Atti; i Nove soggetti; i Sindachi; i Balj; i Governatori;
i Capitani e i Percettori.
Gli Auditori dei Conti esaminavano e rivedevano i libri degli introiti
ed esiti della comunità. I Dodici eletti o altrimenti chiamati “Seniori”
venivano scelti tra gli uomini più vecchi e più saggi, senza il cui
consenso non potevano prendere alcuna decisione i Proti della
comunità.
Il Magistrato dei Dodici eletti era considerato come il Consiglio della
nazione e spesso veniva chiamato “Aliama”, tant’è che alla fine delle
determinazioni di questo organo veniva aggiunta la clausola:
“conciliariter, seu aliamaliter obligati”. Organo simile ai Dodici Eletti
era quello dei Majorenti.
I Conservatori degli Atti erano quei Rabbini di credito che
conservavano le carte e le scritture di ciascuna Judaica: fu abolito da re
Alfonso nel 1422.
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Il Magistrato dei Nove soggetti veniva istituito solo quando si
imponevano o si dovevano riscuotere nuove imposte o dazi.
Era composto da nove membri scelti dai tre ceti sociali: tre da quello
principale, tre da quello mediocre e tre da quello dei poveri: ciò affinché
tutto si facesse con equità e giustizia tra le classi sociali.
Altro organo importante era quello dei “Sindachi”, che era deputato a
fare l’avvocato dei poveri e il difensore della comunità tant’è che spesso
si recavano dal re o dal Viceré per esporre le sigenze della comunità
stessa.
Il Balio, che era in uso anche presso i Cristiani, amministrava (insieme
ad uno o più assessori e con i Giudici) la giustizia, assolvendo gli
innocenti e condannando duramente i colpevoli.
L’organo del Balio o Bajulo non veniva chiamato così in tutte le
comunità ebraiche della Sicilia: in alcune comunità si chiamava
Governatore, in altre Capitano, ma le funzioni erano identiche per tutti.
I Percettori erano, infine, quei magistrati ai quali competeva la
riscossione delle somme di denaro dovute dalle comunità del Regno
alla Regia Corte in virtù di lettere viceregie del 27 settembre 1489.
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Usi e costumi degli Ebrei
Nel vestiario, nell’alimentazione, nella vita di coppia, nell’educare i
figli, anche nell’arredare la propria abitazione, gli Ebrei erano
totalmente diversi dai Cristiani.
I comandamenti che l’Ebreo era tenuto a rispettare non erano solo di
natura etica, ma anche rituale.
L’Ebreo osservante si riconosceva dai boccoli rituali chiamati “peot”,
ossia dalla frangia che ornava le estremità dei suoi abiti e dello scialle da
preghiera detto “tallit” che, secondo gli usi ebraici, veniva tenuto in mano
durante i giuramenti; dai “filatteri” detti in ebraico “tefillin”, che
consistevano in due piccoli astucci di pelle che contenevano brani della
“Torah”- il Pentateuco - ossia i primi cinque libri del Vecchio Testamento,
che sono: il Bereshit (Genesi); lo Shemot (Esodo ); il Vaykrà (Levitico); il
Bamidbar (Numeri); il Devarim (Deuteronomio) che ogni mattina tranne il
sabato, venivano legati al braccio e alla testa, a testimonianza
dell’osservanza delle sacre scritture con la mente e con il cuore.
Frammento di rotolo di “Sefer-Torah” in scrittura sefardita del XV sec. contenente
passi del “Bamidbar” (Libro dei Numeri). ASTp – Misc. Arch. n. 47
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Allo stesso modo veniva inchiodato nella parte superiore dello stipite
destro di ogni porta d’ingresso, un tubicino di legno chiamato
“mezuzah” contenente una parte del Deuteronomio (ossia il quinto
libro del Vecchio Testamento).
Nella Sinagoga si pregava tre volte al giorno: al mattino, al pomeriggio
e alla sera (berakhot). Il sabato era dedicato al riposo ed era vietata ogni
attività lavorativa, compresa l’accensione del fuoco.
In ogni casa la sera del venerdì, le donne avevano il compito di
accendere due luci; dopo la funzione nella sinagoga, il capofamiglia
recitava una particolare preghiera davanti ad un calice di vino e a due
pani in ricordo della manna nel deserto.
Le prescrizioni ebraiche in materia alimentare derivavano dalle
norme dettate nel libro dei Leviti: il cibo conforme alle prescrizioni era
chiamato “kasher” mentre quello non conforme era detto “terefah”.
Era consentito mangiare solo carne di ruminanti con lo zoccolo fesso
(pecore, capre, bovini) così come anche quella di piccione, pollo, anatra
ed oca, mentre era “terefah” ossia non consentita la carne di cavallo,
asino, cammello e maiale. Particolari norme venivano seguite per la
macellazione affidata ad un componente la Giudecca designato a tal
uopo dai Proti, così come venivano osservate particolari norme per la
produzione del formaggio e del vino.
All’uomo e alla donna venivano assegnati ruoli diversi.
Il neonato maschio, compiuti gli otto giorni, veniva sottoposto alla
circoncisione per testimoniare il suo ingresso nel patto d’alleanza tra
Dio e Mosé.
Il matrimonio era per gli Ebrei maschi come un vero e proprio
comandamento e aveva l’obbligo della generazione fino a quando non
fossero nati almeno due figli.
La donna era dichiarata emancipata, cioè in grado di contrarre
matrimonio già all’età di dodici anni e mezzo.
Oltre al divorzio e alla poligamia (che però era rara) importanti istituti
degli ebrei erano il “levirato” e il “sororato”, che prevedevano che in
caso di morte di uno dei coniugi senza figli, la vedova o il vedovo
contraesse nuovo matrimonio rispettivamente con il cognato o la
cognata per assicurare una progenie al defunto.
Anche nell’ebraismo la donna rivestiva un ruolo subalterno rispetto
all’uomo, ma era molto più garantita rispetto a quella della donna
cristiana.
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Era consentito, per esempio, testimoniare nei processi od ottenere il
divorzio “per incompatibilità del coniuge o insoddisfazione sessuale”.
Durante le mestruazioni e per un periodo dopo il parto, (sette
settimane nel caso di un figlio maschio e tre nel caso di una femmina),
la donna doveva astenersi dall’avvicinarsi al marito anche solo per
conversare o mangiare.
La coppia poteva avere rapporti sessuali solo dopo 12 giorni dall’inizio
del ciclo mestruale.
L’ebreo defunto, appena dopo l’evento, veniva sottoposto ad un
rituale lavaggio, quindi veniva inumato e avvolto in un lenzuolo.
Nella prima settimana di lutto i parenti non lavoravano, non
studiavano, non uscivano da casa e per trenta giorni gli uomini non si
radevano, né si tagliavano i capelli (usanza perpetuata dagli alcamesi
fino al primo trentennio del '900)!
Gli Ebrei siciliani potevano possedere qualsiasi genere di beni mobili,
potevano tenere servitori per coltivare i loro terreni, ma non potevano
fare i Giudici né tantomeno testimoniare nei confronti dei Cristiani.
In sostanza, il Cristiano poteva testimoniare contro l’Ebreo mentre
questi non lo poteva fare contro i Cristiani.
Parimente gli Ebrei non potevano esercitare, fino al 1450, la
professione di medico nei confronti dei Cristiani, ma solamente nei
confronti degli stessi Ebrei.
Ciononostante alcuni medici Ebrei, molto valenti ed esperti, furono
dispensati con Real permesso.
Nel 1450, re Alfonso con proprio decreto concesse agli Ebrei siciliani
di esercitare anche presso i Cristiani la professione di medico, così come
del resto avveniva in Spagna dove quasi tutti i medici erano Ebrei.
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Description:qualunca etati sianu poza stari ne starra in parti alcuna di li nostri regni et dominacioni nostri ne pozanu tornari a quilli per stari ne passari per quilli oi.