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C
ome è nata la vita sulla Terra? Come si sono formati gli organismi viventi a partire
da materia inerte? Qual è il segreto del meccanismo riproduttivo che assicura una
sostanziale identità tra gli individui della stessa linea generativa? E, infine, dove si
colloca la specie umana in questo strabiliante anche se sempre meno misterioso processo?
Per rispondere nel modo più semplice a domande così complicate un matematico-
informatico, Vincenzo Manca, e un letterato-scrittore, Marco Santagata, hanno scelto di
raccontare la nascita e l’evoluzione della vita sul nostro pianeta, a partire dal Big Bang,
come la sceneggiatura di un film, descrivendo con la giusta tensione narrativa ambienti,
personaggi, azioni, sequenza cronologica e i passaggi indispensabili per seguirne la trama.
Così, pagina dopo pagina, incontriamo tutti i principali protagonisti – atomi, molecole,
monomeri, polimeri, membrane, cellule, cromosomi, organismi e specie – e le svolte
epocali di quella grandiosa e meravigliosa avventura iniziata 3 miliardi e 800 milioni di
anni fa con la comparsa della protocellula LUCA, un aggregato di molecole in grado di
generare copie di sé capaci di generarne altre, dalla quale provengono tutti gli esseri
viventi.
Rinunciando volutamente a formule chimiche ed equazioni matematiche, essenziali
nell’elaborazione e comunicazione scientifica ma spesso barriere insormontabili per i non
specialisti, gli autori sono riusciti – anche grazie agli illuminanti disegni di Guido
Scarabottolo che corredano l’esposizione – nell’ardua impresa di illustrare in modo chiaro
e senza mai scadere nella banalizzazione processi biochimici complessi come la
replicazione, la generazione, la memorizzazione e la riproduzione, che sono i fili con cui
l’«accidente» e la «regola» hanno tessuto l’ordito della nostra storia e identità biologica.
Un lunghissimo cammino che, nonostante gli enormi progressi compiuti nella conoscenza
delle sue leggi e della sua dinamica, lascia ancora aperti molti interrogativi cruciali.
Frutto dell’incontro culturale tra due mondi e del contagio creativo di schemi mentali e
linguaggi diversi, Un meraviglioso accidente premia l’ambizioso sforzo degli autori di
voler trasmettere, con una narrazione piana, le idee di base sulla vita in forma non
«scientificamente confezionata».
Gli autori
Vincenzo Manca è docente di informatica all’Università di Verona. I suoi interessi di
ricerca spaziano dalla logica matematica e informatica teorica alla genomica
computazionale e al calcolo naturale. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di
sette libri, l’ultimo dei quali è Infobiotics (2013). Nel 2006 ha fondato a Verona il corso di
laurea in bioinformatica e nel 2016, come prosecuzione, il corso di laurea magistrale in
«Medical Bioinformatics». Nella stessa università dirige il CBMC (Center for BioMedical
Computing).
MARCO SANTAGATA è uno dei maggiori italianisti e studiosi italiani di Dante e Petrarca:
nei Meridiani Mondadori, di Petrarca ha commentato il Canzoniere e di Dante ha diretto
l’edizione delle Opere. Già docente di letteratura italiana all’Università di Pisa e autore di
numerose pubblicazioni di storia e critica letteraria, da Mondadori ha pubblicato: Dante. Il
romanzo della sua vita (2012), L’amoroso pensiero. Petrarca e il romanzo di Laura
(2014), Il racconto della Commedia. Guida al poema di Dante (2017). All’attività di
critico affianca quella di narratore: con il romanzo Il Maestro dei santi pallidi ha vinto il
Supercampiello 2003 e con Come donna innamorata è stato finalista al Premio Strega
2015.
GUIDO SCARABOTTOLO, grafico e illustratore, collabora con i più importanti editori
italiani. Autore di diversi libri, insegna illustrazione all’ISIA di Urbino. Suoi lavori sono
oggetto di numerose mostre, in Italia e all’estero.
Vincenzo Manca
Marco Santagata
UN MERAVIGLIOSO ACCIDENTE
La nascita della vita
Disegni di Guido Scarabottolo
UN MERAVIGLIOSO ACCIDENTE
Per Elena
PROLOGO IN CIELO
Noi uomini, e con noi l’universo tutto, viviamo dentro un’esplosione.
Un’immane, indescrivibile, inimmaginabile deflagrazione avvenuta circa
quattordici miliardi di anni fa: il Big Bang. In un attimo, dal punto centrale del
nostro universo si sprigionò un gigantesco fascio di energia che si espanse nel
vuoto formando un’enorme bolla di materia che, nanosecondo dopo
nanosecondo, istante dopo istante, si dilatò aumentando sempre più la sua
velocità di espansione. In quell’attimo si sono formati tutta la materia di cui il
nostro universo si compone, lo spazio e il tempo.
L’universo, dunque, è finito: la quantità di materia che lo costituisce è data
una volta per tutte. È finito, ma illimitato. Ancor oggi, dopo quattordici miliardi
di anni, continua a dilatarsi, a spostare i confini, a creare altro spazio. Le ipotesi
se questo processo abbia una fine e di quale fine possa trattarsi esulano da ogni
possibilità di verifica: sappiamo solo che una gigantesca sfera di materia
continua a espandersi a dismisura nel vuoto circostante. Il buon senso porterebbe
a dire che se una cosa ha una data di nascita, inevitabilmente ne avrà anche una
di morte; ma questo, per l’appunto, è buon senso, mentre la fisica moderna
stravolge ogni affermazione basata sul senso comune.
A noi, che, salvo rare eccezioni, di anni non ne viviamo più di cento,
quattordici miliardi appaiono un lasso di tempo da capogiro, e indubbiamente, se
misurati sulla nostra scala, lo sono. Se però li valutiamo sul piano unicamente
numerico, quattordici miliardi non sono una cifra fuori scala: nel mondo fisico e
biologico i numeri in ballo, nelle macro-e nelle microdimensioni, sono tutti di
grandezza spropositata. È vero che, se misuriamo l’età dell’universo in secondi,
otteniamo un numero superiore a 1017 – un 1 seguito da 17 zeri –, un numero,
dunque, che fa impressione, ma, tanto per fare un esempio e per dare un’idea
delle grandezze in questione, si tenga presente che in un grammo d’acqua ci
sono più di 1022 molecole. Verrebbe da dire, allora, che il nostro universo non è
poi così vecchio. Dall’altra parte, è certo che fra quattro o cinque miliardi di anni
il sistema solare non esisterà più: la fine del mondo, dunque, non è poi così
lontana. La fine del nostro mondo, beninteso, non quella dell’universo, e
neppure la fine della vita, perché è altamente probabile che in pianeti collocati in
altri sistemi solari o in altre galassie esistano altre forme di vita. E poi chi ci
assicura che il nostro sia l’unico universo esistente?
Che cosa è esploso quattordici miliardi di anni fa? E perché è esploso? A chi
non piacerebbe sapere da dove nasce il nostro universo e quale impulso lo ha
generato? Ma queste sono domande destinate a restare senza risposta, perlomeno
senza una risposta scientifica. La scienza ripercorre a ritroso la storia
dell’evoluzione dell’universo: nel viaggio tra oggi e quel fatidico istante in cui
tutto è nato ha scoperto molti dei suoi segreti, ha decifrato almeno una parte dei
suoi linguaggi matematici, ha ricostruito molte delle tappe attraverso le quali noi
e ciò che ci circonda ci siamo formati. Anche se le nostre attuali conoscenze
scientifiche illuminano solo una piccolissima parte rispetto a ciò che ancora ci
resta da scoprire, nel complesso la scienza ha tracciato un’immagine coerente
della storia e del funzionamento dell’universo. Tuttavia, il suo viaggio a ritroso
verso le origini si arresta proprio un attimo prima della grande esplosione,
quando con la materia sono nati lo spazio e il tempo. Si arresta perché noi
uomini, imprigionati dentro le categorie spazio-temporali, non siamo in grado di
elaborare ipotesi razionali e verificabili su ciò che poteva esserci in una
dimensione senza spazio e senza tempo. Eppure, a quelle domande gli uomini
hanno sempre cercato di dare una risposta. Ci hanno provato i grandi miti
cosmogonici dell’antichità, ci provano le grandi religioni: In principio erat
Verbum, dove nel Verbum, o Logos, sarebbe implicita un’istanza progettuale. Le
ipotesi possono essere le più varie e le più ardite, ma nessuna è confermabile o
falsificabile. Siamo nell’ambito della metafisica. Niente, però, ci impedisce di
ragionare per analogia con ciò che sappiamo dei fenomeni fisici.
La deflagrazione non è avvenuta in un punto dello spazio perché, prima
dell’esplosione, lo spazio non esisteva. Secondo i nostri parametri o, se si vuole,
secondo il senso comune, potrebbe allora essere avvenuta nel vuoto. In ogni
caso, questo vuoto non sarebbe lo spazio privo di materia così come è
sperimentato dalla fisica, ma nemmeno sarebbe il nulla. Il nulla, infatti, non è
modificabile né tantomeno reversibile, mentre il vuoto ha insita in sé perlomeno
la potenzialità di essere riempito. E poi, quel vuoto cosmico potrebbe essere una
condizione diversa da quella che noi siamo in grado di concepire. Ora,
ragionando per analogia, un’ipotesi vaga ma non fantasiosa potrebbe essere che
quello stato primordiale a noi ignoto, qualunque cosa esso fosse – per esempio,
una sorta di energia primigenia che raggruppasse in un unico principio le varie
forme di energia che agiscono nel nostro universo –, si trovasse in perfetto
equilibrio, godesse di una totale simmetria. Qualcosa, allora, potrebbe aver rotto
l’equilibrio e l’improvvisa asimmetria fatto collassare l’insieme, innescando la
catastrofe.
In un tempo infinitesimale un’immane bolla di energia si espanse nel vuoto a
velocità e temperature inimmaginabili formando la materia.
E già questi primi istanti genetici sfidano il senso comune in almeno due
punti fondamentali. Per noi è quasi istintivo associare l’idea di materia a quella
di massa, cioè a qualcosa che ha un volume, occupa uno spazio, una cosa che, se
non possiamo sempre toccare, almeno possiamo vedere, magari con strumenti
sofisticati. Pertanto, secondo il senso comune l’energia è diversa dalla materia.
Ma Albert Einstein ha dimostrato che energia e materia sono equivalenti: quella
bolla di energia in espansione, dunque, è una bolla di materia, è la bolla che
contiene tutta la materia dell’universo.
Ancora. Siamo abituati a percepire l’energia come un continuum: un raggio di
luce come una linea ininterrotta, la caduta di un grave come un processo non
parcellizzato e così via. Ebbene, la fisica moderna ha dimostrato che ogni
energia è, per così dire, suddivisa in singoli pacchetti (i quanti). Tutto
nell’universo è suddiviso in quanti. Esso, dunque, ha una struttura granulare in
ogni sua componente, spazio compreso. Struttura granulare che si mantiene per
quanto compatte e complesse siano le formazioni nelle quali quei singoli
infinitesimali granelli di materia si aggregano. Naturalmente, tutto è molto più
complicato di così. Anche l’immagine dei grani può essere fuorviante: in effetti,
ai livelli più profondi della materia gli elementi non tollerano nessuna
rappresentazione fisica tradizionale. E poi, l’immagine della rete granulare non
dà conto del fatto che essa è costantemente in movimento, in un gioco infinito di
interazioni nel quale le entità quantistiche scompaiono e si riformano senza
sosta. Basti però aver suggerito l’idea che l’universo non solo è finito, è anche
discreto.
Una bolla di energia allo stato puro è quasi inconcepibile. E, in effetti, la bolla
primordiale rimase energia allo stato puro per un tempo infinitesimale.
L’abbassarsi delle temperature originarie innescò subito un processo di
aggregazione: l’energia cominciò a rapprendersi in grumi minuscoli, molto più
piccoli di un atomo, le particelle subatomiche, che un’enorme energia
distruggeva quasi subito. In un caos immane, miliardi di miliardi di minuscoli
grumi si agitavano in un ciclo continuo di nascita e morte. Impossibile anche
solo ipotizzare la quantità di collisioni, di scambi, di interferenze che avvenivano
in frazioni di tempo talmente piccole da riuscire inconcepibili anch’esse.
In quel disordine caotico accadde però che, continuando a diminuire la
temperatura, alcune di quelle particelle, casualmente, si accoppiarono con altre.
Questo fenomeno si verificò un numero altissimo di volte, tanto che, sempre in
un lasso di tempo brevissimo, un principio di stabilità cominciò a contrastare il
caos energetico. Dal caos primordiale iniziò così a prendere forma un primo
ordine caratterizzato da aggregazione e stabilità. Una forza aggregante in grado
di contrastare quelle disgregatrici fece sì che alcune particelle si collegassero fra
loro. Insomma, si formarono particelle per così dire composite che, a loro volta,
si aggregarono con altre formando i primi «nuclei» atomici.
Le particelle costitutive del nucleo, «protoni» e «neutroni», sono collegate da
particelle di interazione, i «gluoni», che esercitano una forza di coesione
potentissima, ma con un campo d’azione molto ristretto. Questa struttura, però,
era ancora fragile. A renderla più solida intervenne un secondo fenomeno:
l’abbassarsi della temperatura consentì al nucleo di strutturarsi in un’ulteriore
entità. Essendo dotati di carica elettrica positiva, i protoni attrassero particelle
dotate di carica negativa, gli «elettroni», e queste cominciarono a orbitare
intorno al nucleo. E così si formò l’«atomo», costituito da un nucleo di protoni e
neutroni intorno al quale ruotano gli elettroni. Gli atomi sono i più piccoli
aggregati di particelle forniti, grazie a un’enorme forza di coesione interna, di
struttura stabile: dalle loro varie combinazioni si genera tutta la materia.
Il rapido sguardo che abbiamo gettato sul complesso mondo delle particelle
elementari e degli atomi ha individuato una delle tendenze più costanti e
significative dello sviluppo dell’universo, quella all’aggregazione. Essa è
riscontrabile a tutti i livelli, da quelli infinitamente piccoli delle strutture
subatomiche fino ai grandi corpi celesti, e in ogni ambito, da quello inorganico a
quello della materia vivente. Si sviluppa lungo due direttrici fondamentali: dal
semplice al complesso e dall’instabile allo stabile. Attenzione, però: i due
percorsi possono procedere in maniera solidale solo fino a un certo punto, cioè
fino al punto in cui l’accresciuta complessità diventa tale da trasformarsi in
fattore di instabilità. Fattore che si manifesta in modi diversi nei due grandi
domini (organico e inorganico) nei quali si organizza la materia.
Ma cosa differenzia ciò che chiamiamo organico da ciò che chiamiamo
inorganico? Il termine greco órganon designa un «complesso organizzato», e
perciò la domanda è: quale genere di complessità organizzata distingue i due
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