Table Of ContentCESARE ANGELINI
TEMI E MOTIVI
NELLA POESIA DEL PURGATORIO
In Cesare Angelini, Il commento dell’esule (noterelle dantesche),
All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1967
***
Dante Alighieri
Da un antico manoscritto
Biblioteca Nazional e Centrale, Firenze
La seconda cantica della Commedia, immensità che sempre rinnovella ogni volta che
uno torna a leggerla, è, nella geniale concezione dantesca, il mondo soprannaturale immaginato
e trasferito in condizioni ancora terrestri; sicché Dante può legare le vicende del suo viaggio alle
cose del cielo, del cielo vero, le albe, le aurore, i tramonti, le trasmutazioni della luce, e il
sospiro del vento e il respiro del mare; che è anche un amore di concretezza. E, se, come
avvertiva il De Sanctis, sarebbe ingenuo domandare se il Purgatorio sottostà o soprastà di
bellezza all’Inferno, perché sono due mondi essenzialmente diversi di fondo e di forma, non è
superfluo affermare che esso è la cantica dove le sensazioni di luce, di colori, di odori, di sapori
spiccano più abbondanti e sono trovate e assunte per rendere l’atmosfera del luogo, che è di
serenità, di ricordanze e di raccoglimenti interiori.
Sarebbe tuttavia ingiusto leggere il Purgatorio, dimenticando che Dante sta facendo un
coscienzioso viaggio di espiazione, e lo circonda di allegorie e di simboli corrispondenti alle
esperienze spirituali dalle quali i suoi versi hanno straordinaria ricchezza di significati. Ed è
proprio dall’interno di queste esperienze che la sua poesia acquista forza, e il suo divino. Sicché,
camminando con Dante pellegrino, — il vero personaggio, che interessa la favola e la storia —
seguiamo con interesse le vicende dell’anima che si va liberando dalla prigione del peccato (a
questo si son mosse anche donne del cielo), senza naturalmente rinunciare al nostro diritto di
cercare nel poeta la poesia.
Non è ancora l’alba, quando i poeti giungono all’isola del Purgatorio, alla montagna
che sorge libera e aperta nell’emisfero australe, antipodo al nostro; un luogo in mezzo
all’oceano, favolosamente lontano dal mondo. La poesia del Purgatorio è già in questo senso di
paese remoto, di montagna solitaria. Dante l’aveva intravvista da lontano, nel canto di Ulisse:
Un montagna bruna... Vista ora, da sotto, è luminosa. Il senso di lontananza fantastica sarà
insistito più tardi, in versi grandi, spazianti, quando parla delle anime che arrivano a piè del
monte, per le lontane acque, a liti sì lontani; o dei messaggi che Dante dovrà portare sulla terra:
Quando sarai di là da le larghe onde.
L’incontro col chiaro mondo è uno spettacolo riposante. Dopo tanta aura morta —
ventiquattro ore d’inferno — Dante saluta con un respiro di sollievo la vista delle stelle: le cose
belle che porta il cielo. Nell’ultimo azzurro della notte, Venere fa ridere tutto l’oriente; a
mezzogiorno, quattro stelle misteriose e straniere, non viste mai fuor ch’a la prima gente,
brillano così vive che tutto il cielo ne arde e gode. Reperibili forse nei vecchi portulani col nome
di Croce del Sud, sono le vaghe «stelle di Dante». Ma sono quattro stelle o non piuttosto le
quattro virtù cardinali? Ricompariranno nel paradiso terrestre, in figura di vaghe ninfe, a
corteggiare Beatrice: «Noi sem qui ninfe e nel ciel semo stelle». Così, nel canto 8°, le «tre
facelle» che saliranno a prendere il posto di queste, sono tre stelle o sono le tre virtù teologali?
L’una cosa è figura dell’altra. Nel Purgatorio Dante fa simboliche invocazioni alle virtù, alle
allegorie, che danno al poema risonanza profonda e universale. Ma nel poema noi riveriamo il
simbolo e cerchiamo la poesia. Dante è rapito dalla poesia del cielo: ovunque, un dolce color
d’orïental zaffiro, e l’aria è giovane, tenera come ai primi giorni della creazione. Però né qui né
altrove, mai nessuna concessione all’esornativo, all’idillico, nemmeno quando i temi sono per se
stessi idillici, come le pecorelle che escono dal chiuso, o i colombi adunati alla pastura. Se mai,
formano finissime miniature. Dice Emilio Bigi: «Qui, tutto è colore e disegno essenziale e
solenne». E già questo principio sente il paesaggio della valletta amena, ridentemente severo
(«Salve regina, in sul verde e in sui fiori...») e quello del paradiso terrestre: («Vago già di cercar
dentro e d’intorno, la divina foresta...»). La poesia del cielo accompagna tutto il viaggio, coi
suoi segni e costellazioni e mutazioni, poiché gli occhi di Dante non sanno staccarsene mai: Gli
occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, fino al supremo richiamo: Chiàmavi il cielo e intorno vi
si gira, | mostrandovi le sue bellezze eterne. Versi che in certi momenti ci fanno sentire più
grandi di noi. E il motivo, che percorre per tutta la Cantica, aiuta a stringere il senso della sua
unità.
Nella solitudine stupita, quasi per una apparizione, Dante si vede vicino un veglio solo,
| degno di tanta reverenza in vista. È Catone, il pagano giusto, il custode del luogo cristiano, da
dove ogni tanto vede anime salire al Cielo, di cui egli non potrà mai diventare cittadino, se non,
forse, alla fine dei tempi.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
Dice il Croce: «In Catone il poeta attua uno de lati del suo ideale etico: la rigida
rettitudine, l’adempimento dell’alto dovere». Saputo che i poeti viaggiano con l’aiuto d’una
donna del cielo, li lascia andare per il suo regno, anzi per i suoi sette regni o sette balze in cui è
divisa la montagna e sulle quali i penitenti sono ordinati sullo schema dei sette peccati capitali.
Poi, sparisce con le stelle: Così sparì. Ma la figura ieratica su cui s’allungano i queti raggi
stellari, sarà sempre presente nel cammino di Dante.
Silenziosi, pensosi, i poeti vanno per lo solingo piano, attenti al luogo che li ospita,
all’ora che fugge innanzi: L’alba vinceva l’ora mattutina... Non lontano, Dante conosce il
tremolar de la marina.. Veramente qui la morta poesia risorge in versi che si direbbero di gusto
descrittivo, ma come si potrebbe dirlo dei versetti della creazione biblica che, mentre
descrivono, creano, tanto son densi di virtù poetica. Sulla spiaggia deserta, dove cresce l’umile
giunco, Virgilio raccoglie con le mani la rugiada e lava il viso a Dante, ancora offuscato dalla
caligine infernale. È uno dei tanti riti del Purgatorio, che crescono fino al bagno nel Leté e
nell’Eunoé; invenzioni allegoriche — la conquista della purificazione ascetica — che si
risolvono in invenzioni poetiche.
Mentre guardano il sole salito all’orizzonte, appare un lume tenue sul mare, un lume
che vola, un fulgore che cresce e si configura. Virgilio ha capito, e invita Dante a inginocchiarsi:
è l’angelo di Dio che fa vela con l’ali bianche a un vasello snelletto e leggiero, carico d’anime
che arrivano in Purgatorio, cantando in coro l’inno della liberazione: In éxitu Isráel de
Aegypto...; un tempo, dalla servitù egiziana, ora dal peccato. Giunge e riparte veloce, lasciando
sulla spiaggia la turba delle anime. Virgilio ha ammonito:
omai vedrai di di sì fatti officiali.
Il Purgatorio è il luogo delle apparizioni angeliche: la famiglia del cielo. L’angelo
nocchiero apre la serie; e, per quell’armonia dei numeri cara a Dante, tre sono
nell’Antipurgatorio (il nocchiero e i due della valletta dei principi) e nove nel Purgatorio: uno
sulla soglia, gli altri via via sui gradini di ogni balza. Ciascuno ha un suo ufficio; e se quel della
soglia col puntone della spada descrive sette P sulla fronte di Dante, a indicare i sette peccati
capitali dai quali dovrà purgarsi, gli altri glie li cancelleranno con un colpo d’ala, al canto d’una
«beatitudine», mentre egli passa di cornice in cornice. Tutti invitano le anime a salire, e nell’aria
corre spesso l’annunzio:
Messo è che viene ad invitar ch’om saglia.
Così ciascuno ha una sua apparenza e gesti e vesti e funzioni.
Dante, che ha visto i dannati e ha udito i demoni, sente gli angeli come cose belle, e li
tratta in modo virgineo. Le loro presenze qui sono anticipate immagini del Paradiso. Sempre
discreti, parlano poco, con voce lieta; si muovono con sovrana eleganza. Non più eleganti sono
le Ore, mitologicamente rappresentate come ninfe o ancelle che danzano intorno al carro del
sole, e segnando i passi dell’agile tempo, segnano il perpetuo rinnovarsi della creazione.
Apparizioni labili, fuggitive, gli angeli sono ornamenti del paesaggio e paesaggio essi stessi:
aiutano a far dimenticare a Dante i luoghi tristi da cui è uscito da poco.
Con l’atmosfera fisica, viva e respirata, s’intona l’atmosfera spirituale tutta penetrata
di valori umani. Dico che col paesaggio sereno, pacato, già riflesso di luce celeste, mirabilmente
s’intona il mondo dei personaggi e delle anime che via via passano innanzi a Dante, in folla o
singolarmente, già tutte preparate alla festa del Paradiso. Sono i ben finiti e già spiriti eletti,
anime che si mondano per tornar belle a Colui che le fece, sicure di veder l’alto lume che è
l’unico oggetto dei loro desideri. E questo le fa naturalmente serene e liete.
Ne segue che ogni prepotenza rappresentativa si placa, e il drammatico si smorza o ha
nuova e diversa tensione. Non per questo la poesia del Purgatorio cede a quella dell’Inferno,
secondo l’opinione di chi crede che il dramma sia grecamente il vertice della poesia. Nel
Purgatorio non c’è il dramma, com’era inteso nell’Inferno, perché non ci sono più le passioni
terrene o ne resta la semplice memoria. Non c’è il dramma, ma c’è qualche cosa di più; c’è la
poesia, fattasi interiore e diventata contemplazione. Dante ne è consapevole, e man mano che,
salendo per il sacro monte della espiazione, si avvicina a Beatrice, va sempre più affinando la
sua arte:
Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.
Il Purgatorio è l’esaltazione dei sentimenti miti, degli affetti gentili, espressi in versi
che si fanno miracolosamente leggieri e estatici. Mondo d’armonia e di concordia, le anime tutte
fini, trovano modo di esprimersi finemente, con pronta cortesia, con accenti fraterni. Come l’api
di fare il miele, così esse sono prese dalla sola voglia di fare il bene, di aiutarsi reciprocamente.
Pur tra le pene, incontrandosi si fermano per baciarsi l’una l’altra, «congaudendo» contente a
breve festa, in un affabile congratularsi di penitenza progredita, di virtù cresciuta:
una parola in tutte era ed un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Il fervore di carità che le unisce, crea l’unità del loro quieto linguaggio.
Anche nel ricordo del passato, se lamento c’è per torti ricevuti, non è mai mescolato a
rancore, piuttosto a malinconia, a nostalgia. Nino Visconti parla della moglie che, passata ad
altre nozze, l’ha dimenticato; ma nessuna mala parola ha contro di lei; se mai, ne trae
un’indulgente conclusione sulla natura della donna:
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.
La Pia si duole del marito, ma si limita a fare la brevissima cronaca delle sue nozze,
«su cui mestamente brilla il fulgore d’una gemma»: Salsi colui che inanellata pria | disposata
m’avea con la sua gemma. Anche in Manfredi, nessun accento vendicativo contro gli uomini
che l’hanno trattato male lasciandone le ossa insepolte in terreno sconsacrato, sì che
Or lo bagna la pioggia e move il vento,
il gran verso che commoveva il Carducci.
Qui tutto si smorza e si fa gentile; la finezza è la qualità di queste anime. Dante le
chiama le gentili forme; l’adunanza dei principi nella valletta è l’esercito gentile.; il Visconti è
detto Giudice Nin gentil, il portinaio è il cortese portinaio. E la famosa invettiva del canto VI
contro la serva Italia, a guardarla bene, più che un’invettiva, è un grido di dolore e, come alcuno
ha detto bene, la prima delle grandi canzoni all’Italia, in cui si svolge, come in una sinfonia, il
pensiero politico più lungamente meditato da Dante: l’Italia e l’umanità si rifaranno diritte,
quando le due autorità supreme — la politica e la religiosa — avranno ripreso ciascuna il
proprio posto.
Dante accetta la dottrina cattolica secondo la quale le pene del Purgatorio sono come
quelle dell’Inferno, salvo la durata; e descrive i reali patimenti di queste anime e il fuoco che le
morde. Ma non dice le morde, dice che le affina: Poi s’ascose nel foco che le affina; e il verso
par comunicarci la gioia di quel tuffarsi nel fuoco purificatore. Una lo prega:
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo:
ma in quella voce e in tutte, senti la pena più che il lamento. Sono gli
... eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fan men duri.
Sanno che la loro sofferenza è giusta, che non è il vero male; anzi, poiché le purifica, è
qualcosa che si tramuta in bene. Il vero male è il peccato, dal quale si liberano sollevandosi,
come fanno, di grado in grado, di cornice in cornice, secondo la legge della montagna:
... Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant’uom più va su, e men fa male.
È la stessa definizione della montagna, detta anche il santo monte:
lo monte che, salendo, altrui dismala,
libera dal male. Quindi l’invito: «Correte al monte...».
Ma più ancora sanno che la loro sofferenza finirà. Consolate da questa speranza, le
anime si liberano dalla disperazione della sofferenza, e il crudo di essa scompare:
qui può esser tormento, ma non morte,
dice Virgilio, che per tutto il Purgatorio porta il malinconico turbamento di non esser
del Regno. Annegate nel desiderio del Cielo e di Dio «che del desio di sé veder ne accora», le
anime soffrono con una misteriosa allegrezza di soffrire.
La loro speranza è alimentata da un’altra grande realtà spirituale: la comunione dei
santi o l’aiuto che possono avere dalle preghiere dei vivi, che ne accorcia il tempo della pena.
Né muta per questo il giudizio divino; è la carità che nel proprio fervore può compiere in un
momento quello che i secoli varrebbero a conseguire. Perciò tutti chiedono a Dante d’esser
ricordati ai parenti, ai conoscenti, che preghino per loro. Nino Visconti che vuol esser ricordato
alla figlia:
quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
ìà dove a li ’nnocenti si risponde.
Manfredi vuol essere ricordato alla sua buona Costanza («Dì a mia figlia bella...») e
incalza con un verso che pare una definizione dogmatica: «ché qui per quei di là molto
s’avanza». Papa Adriano 5° pensa a chi in terra lo può aiutare: «Nepote ho io di là che ha nome
Alagia...». Anche Arnaldo trovatore si raccomanda a Dante nel suo bel provenzale: «Sovenha
vos a temps de ma dolor». E la Pia, che non ha nessuno, si raccomanda a Dante: «Deh, quando
tu sarai tornato al mondo... ricorditi di me che son la Pia...».
Accade dunque che il bene che si fa sulla terra sale al Pugatorio, e il poter contare su
questo aiuto, aumenta nelle anime il senso della letizia.
La quale trova la sua espressione immediata nel canto. Nel Paradiso la letizia delle
anime si farà luce, e il fatto si spiritualizza; nel Purgatorio ha la forma più umana del canto. Il
Purgatorio è tutto un cantare. Vi si entra cantando: Quivi per canti | s’entra. Gli spiriti che ci
arrivano guidati dall’angelo nocchiero, cantano il salmo In exitu Isráel de Aegypto... Casella,
l’intonatore, consola l’anima di Dante intonando la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, e
tutte quante l’anime ne sono rapite, come a nessun toccasse altro la mente. Cori, anime sole,
salendo sui gradi delle cornici, avvallando, ovunque si canta; anche i principi cantano nella
valletta variopinta.
«Salve regina» in sul verde e ’n su’ fiori,
quivi seder cantando anime vidi...
Il canto segna i momenti della loro redenzione: quando un’anima è ammessa al Regno,
tutte le altre cantano l’inno del ringraziamento: Te Deum laudamus... e fa riscontro al canto del
Gloria in excelsis Deo, che le anime cantano in coro quando una di esse, compiuta la
purificazione, sale al paradiso.
Talvolta è canto nel pianto:
Ed ecco piangere e cantar s’udia
più per il ricordo d’aver offeso Dio che per il pentimento o la pena. E altrove:
Tutta esta gente che piangendo canta...
Più suggestivo, se viene da lontano:
Guidavaci una voce che cantava
di là...
Soavissimo se la voce è di donna, di donna innamorata. Questa è Lia:
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea...
E questa è Matelda:
una donna soletta che si gìa
cantando ed iscegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
Donna sola, sulla riviera, che canta e sceglie fiori ed è piena d’amore e di bellezza.
Dante ne è preso, e la mira e la chiama:
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’io vo credere ai sembianti
che soglion esser testimon del core,
végnati voglia di trárreti avanti
— diss’io a lei — verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti...»
Ella acconsente al desiderio dell’amante; si volta come nel ballo con le piante strette a
terra e tra sé, e s’avvicina. Dante la guarda estatico:
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere...
La diremmo la «glossa» d’un poeta greco, se ne trovassimo uno all’altezza di Dante.
Personaggi storici o inventati, realtà o simboli (ma simboli o realtà, hanno qui una
perfetta fusione poetica), queste donne portano nel Purgatorio una bellezza infinita. E vicino ad
esse e per esse si crea il linguaggio della poesia, perennis ac fragrans. Le più belle trasparenze
del Canzoniere petrarchesco, la gémmea grazia del Poliziano nascono da qui, sono già qui. E qui
è già il miracolo delle Grazie foscoliane e il loro aroma e la consolazione.
Ma tutto il Purgatorio è insoavito da presenze femminili che, attuando l’ideale del
dolce stil nuovo, aiutano la purificazione e ascensione spirituale di Dante. Catone non è l’uomo
da credere a lusinghe, ma gli è ancora dolce ricordare la sua Marzia e i suoi occhi casti:
Marzïa piacque tanto a li occhi miei...
La dieresi crea il lungo assaporamento del nome, Marzïa.
L’accenno a «una donna del cielo» fa dir subito all’angelo della soglia:
Ed ella i passi vostri in bene avanzi...
Un’altra «donna del cielo» scende presso Dante mentre riposa nella valletta:
venne una donna, e disse: I’ son Lucia:
lasciatemi pigliar costui che dorme,
sì l’agevolerò per la sua via.
Anche Maria è presente, ad aumentare la regalità dell’eterno femminino, nei due
angeli verdi scesi contro la tentazione del serpente:
Ambo vegnon del grembo di Maria...
Non si dimentica più la voce della Pia, e la sua preghiera:
ricorditi di me...
e quella, pentita e meditativa, di Sapia. Piccarda è in Paradiso, ma è pur qui, presente e
viva, attraverso il richiamo di Forese:
La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più...
Poi tutta la presenza spirituale di Beatrice, come blandimento e sprone al duro
cammino di Dante. Solo che uno ne dica il nome o baleni speranza d’un incontro, Dante è
trasmutato e rapito:
... io dico di Beatrice:
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice.
E ancora:
Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Gli occhi di Beatrice, «occhi ridenti» «occhi santi» «occhi benedetti», che dànno
speranza, vita; gli occhi più maravigliosi che abbiano illuminato la poesia italiana (a parte gli
occhi della Lucia manzoniana...).
Poi, sapete come ne prepara la discesa nel Paradiso terrestre, quando, andandosene
Virgilio, ella prenderà il posto di guida. È il paradiso che cala sulla terra: nuvole di fiori, ventilar
d’ali d’angeli, incantamento dell’ora:
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno adorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che, per temperanza di vapori,
l’occhio la sostenea lunga fïata,
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fòri,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
Il Purgatorio è anche questo grato splendore di donne. Che aumenta con la presenza di
poeti e artisti d’ogni arte: Casella, il liutaio Belacqua, Sordello, Oderisi da Gubbio, e Franco
bolognese, la lunga presenza di Stazio, Bonagiunta da Lucca, Forese Donati, Guido Guinicelli,
il provenzale Arnaldo Daniello, e lo stesso Dante. L’effetto che fanno tutti questi nomi! Quasi
d’un Parnaso cristiano in cui Virgilio è di casa. Aggiungete la celebrazione della scultura sulle
pareti della prima cornice: figure di marmo in basso rilievo e di tal perfezione che nemmeno il
più greco dei greci non avrebbe mai raggiunta: pittura viva, vera, opera di Dio:
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare...
Con gli artisti, vi sono celebrati i concetti dell’arte, quasi un’estetica. Vi è affermata la
legge del progresso:
Credette Cimabue ne la pintura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido...
confermata da Oderisi, parlando del suo discepolo: