Table Of ContentIan McEwan 
 
L’amore fatale 
 
 
 
 
 
Traduzione di Susanna Basso 
 
 
Titolo originale: Enduring Love
Capitolo primo 
 
 
 
L’inizio  è  facile  da  individuare.  Eravamo  al  sole,  vicino  a  un  cerro  che  ci 
proteggeva in parte da forti raffiche di vento. Io stavo inginocchiato sull’erba con 
un cavatappi in mano, e Clarissa mi porgeva la bottiglia - un Daumas Gassac del 
1987. L’istante fu quello, quella la bandierina sulla mappa del tempo: tesi la 
mano e, nel momento in cui il collo freddo e la stagnola nera mi sfioravano la 
pelle, udimmo le grida di un uomo. Ci voltammo a guardare dall’altra parte del 
prato, e intuimmo il pericolo. L’attimo dopo, correvo in quella direzione. Si trattò 
di un rivolgimento assoluto: non ricordo di aver lasciato cadere il cavatappi, né di 
essermi alzato, di aver preso una decisione, né di aver sentito la raccomandazione 
che  Clarissa  mi  rivolse.  Che  idiozia,  lanciarmi  dentro  questa  storia  e  i  suoi 
labirinti,  allontanandomi  di  volata  dalla  nostra  felicità,  tra  l’erba  tenera  di 
primavera accanto al cerro. Un altro grido e l’urlo del bambino, affievolito dal 
vento che spazzava le chiome alte degli alberi lungo le siepi. Accelerai la mia 
corsa.  A  quel  punto,  improvvisamente,  da  angolazioni  diverse  del  prato,  altri 
quattro uomini stavano convergendo sul luogo dell’incidente, correndo come me. 
È come se assistessi alla scena da un’altezza di cinquanta metri, con gli occhi 
della  poiana  che  poco  prima  avevamo  osservato  volteggiare  ad  ali  spiegate  e 
tuffarsi nel tumulto delle correnti: cinque uomini in corsa silenziosa diretti al 
centro di un prato di una quarantina di ettari. Io arrivavo da sud- est, con il 
vento a favore. Circa duecento metri alla mia sinistra correvano affiancati due 
individui. Erano Joseph Lacey e  Toby Greene, braccianti agricoli che stavano 
riparando il lato meridionale dello steccato, là dove costeggia la strada. Più o 
meno  alla  stessa  distanza  da  loro,  veniva  John  Logan  la  cui  vettura  era 
parcheggiata  ai  margini  del  prato  con  la  portiera,  o  le  portiere,  spalancate. 
Sapendo ciò che so ora, è curioso ricordare la figura di Jed Parry dritta di fronte a 
me: è uscito da un filare di faggi e avanza contro vento dal lato opposto del prato 
a una distanza di cinquecento metri. Agli occhi della poiana, Parry e io eravamo 
due sagome minuscole; con le nostre camicie bianchissime sullo sfondo verde, ci 
correvamo incontro come due amanti, ignari della sofferenza che da quel groviglio 
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sarebbe nata. Mi precipitavo verso un essere fuori del comune ma anche adesso, 
dopo tutto quel che è accaduto, sono certo che in quel momento, prima cioè che 
le  complicate  coincidenze  responsabili  del  nostro  incontro  su  quel  prato  si 
allineassero per darsi forma compiuta, la straordinarietà ancora non esisteva. Il 
caso  che  avrebbe  scardinato  le  nostre  vite  era  a  pochi  minuti  da  noi.  A 
mascherarne l’enormità contribuiva non solo la barriera del tempo, ma anche il 
colosso al centro del prato con la sua fenomenale forza d’attrazione in grado di 
scuotere le resistenze meschine dell’uomo. 
Cosa faceva Clarissa intanto? Raccontò  poi che camminava spedita verso il 
centro del prato. Non so come riuscisse a resistere all’impulso di correre. Quando 
si verificò l’evento che sto per descrivere - la caduta - ci aveva quasi raggiunti e 
occupava un ottimo punto di osservazione, libera da un diretto coinvolgimento, 
come  da  corde  e  urla,  e  dalla  nostra  fatale  assenza  di  cooperazione.  Quanto 
descrivo  risente  di  ciò  che  vide  la  stessa  Clarissa,  di  ciò  che  ci  ripetemmo 
nell’ossessiva analisi a posteriori. L’erba del prato avrebbe subito un primo taglio 
nel mese di maggio, e la fienagione doveva favorire la nuova crescita, preparare al 
secondo  taglio,  come  l’evento  che  avrebbe  avuto  su  di  noi  conseguenze  di 
irrevocabile crescita. 
Divago, rimando l’informazione. Mi attardo nell’attimo precedente perché fino a 
quel punto erano ancora possibili esiti differenti; il convergere di sei persone su 
una distesa di verde conserva una geometria confortante dalla prospettiva di una 
poiana;  ha  la  riconoscibile  limitatezza  di  un  tavolo  da  biliardo.  Le  condizioni 
iniziali, la forza e la sua direzione, bastano a definire ogni traiettoria, ogni angolo 
di collisione e ritorno, mentre una luce gloriosa sovrasta l’intero prato, il tappeto 
verde  e  i  corpi  in  movimento,  ammantandoli  di  una  chiarezza  rassicurante. 
Mentre ci correvamo incontro, prima del contatto, credo ci trovassimo in una 
sorta  di  grazia  matematica.  Indugio  sulla  nostra  disposizione  spaziale,  sulle 
distanze  relative,  sui  punti  cardinali  di  provenienza,  perché  rispetto  ai  fatti 
accaduti, quello fu l’ultimo istante in cui compresi qualcosa chiaramente. 
Verso che cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino 
in fondo. A livello superficiale tuttavia la risposta c’è; correvamo verso un pallone 
aerostatico. Non di quelli che sfruttano le semplici proprietà del  calore, però, 
questo era un pallone enorme pieno di elio, gas elementare forgiato dall’idrogeno 
nella  fornace  nucleare  delle  stelle,  il  primo  passo  nella  generazione  della 
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molteplicità  e  varietà  della  materia  nell’universo,  compresi  noi  stessi  e  tutti  i 
nostri pensieri. 
Correvamo incontro a una catastrofe, a sua volta una specie di fornace, nel cui 
calore identità e destini si sarebbero combinati in forme diverse. Alla base del 
pallone stava una cesta con dentro un bambino, mentre lì accanto, aggrappato a 
una corda, era un uomo in disperato bisogno di aiuto. 
 
Pallone a parte, quella giornata si sarebbe comunque impressa nella memoria, 
sebbene nel più piacevole dei modi, giacché ci ritrovavamo dopo una separazione 
di sei settimane, la più lunga nei sette anni di vita con Clarissa. Sulla strada per 
Heathrow  feci  una  deviazione  a  Covent  Garden  e  trovai  uh  parcheggio  quasi 
regolare proprio davanti a Carluccio’s. Entrai e misi insieme un picnic il cui pezzo 
forte sarebbe stato una gran mozzarella che la commessa pescò in un recipiente 
di terracotta servendosi di una pinza di legno. Comprai anche olive nere, insalata 
mista e focaccia. Poi mi precipitai su Long Acre, da Bertram Rota, per ritirare il 
regalo di compleanno di Clarissa. Se si escludono l’appartamento e la nostra 
automobile, era l’oggetto in assoluto più costoso che avessi mai acquistato. La 
rarità di quel libriccino pareva irradiare un calore che percepivo anche attraverso 
la spessa carta marrone del pacco, mentre tornavo sui miei passi alla macchina. 
Quaranta minuti più tardi passavo in rassegna gli schermi dei voli in arrivo. 
L’aereo da Boston era appena atterrato e calcolai che avrei avuto una mezz’ora 
d’attesa.  Se  mai  qualcuno  volesse  conferma  dell’assunto  darwiniano  riguardo 
all’universalità espressiva dell’emozione, scritta nel codice genetico degli esseri 
umani, allora dovrebbero bastargli pochi minuti al terminal quattro di Heathrow, 
quello degli arrivi. Vidi la stessa gioia, lo stesso sorriso irreprimibile sulla faccia di 
una  robusta  nigeriana,  di  una  nonnetta  scozzese  dal  labbro  sottile  e  di  un 
impeccabile  pallido  businessman  giapponese  nell’atto  di  spingere  i  rispettivi 
carrelli e di riconoscere qualcuno tra la folla in attesa. Se è vero che osservare la 
varietà  umana  può  essere  fonte  di  piacere,  lo  stesso  vale  anche  per  l’umana 
uguaglianza. Non facevo che sentire la stessa nota calante del mezzo singhiozzo 
che spesso accompagnava un nome, mentre due persone si facevano largo per 
abbracciarsi.  Cos’era?  Una  seconda  maggiore,  una  terza  minore  o  una  via  di 
mezzo? Pa-pà! Jolan-da! Ho-bi! Nz-e! D’altra parte, esisteva anche la cantilena 
ascendente rivolta a bambini dall’aria serissima e diffidente da padri e da nonni 
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assenti da molto tempo, tutti a blandire e implorare un immediato compenso 
d’amore. Hann-ah? Tom-my? Mi vuoi? 
La varietà stava semmai nei singoli drammi: padre e figlio adolescente, turchi 
probabilmente, si stringevano in un lungo abbraccio, forse di perdono, o di lutto, 
dimentichi  dell’ingorgo  di  carrelli  intorno  a  loro;  due  gemelle  identiche,  sulla 
cinquantina, si salutavano con evidente antipatia sfiorandosi appena le mani e 
baciandosi a fior di pelle; un bambino americano, issato sulle spalle di un padre 
che non riconosceva, urlava per farsi mettere giù, e faceva saltare i nervi alla 
madre esausta. 
Ma per lo più erano abbracci e sorrisi, e nel giro di trentacinque minuti assistei 
a più di cinquanta lieti fini teatrali, sempre meno riusciti, finché non mi sentii 
emotivamente stanchissimo e cominciai a sospettare persino della sincerità dei 
bambini. Mi stavo chiedendo quanto io stesso mi sarei reso plausibile salutando 
Clarissa, quando mi sentii battere su una spalla: era lei che uscendo non mi 
aveva visto ed era tornata a cercarmi. Il distacco svanì in un istante e recitai il 
suo nome, unendomi al coro degli altri. 
Meno di un’ora dopo avevamo parcheggiato su una strada sterrata che tagliava 
attraverso un bosco di faggi nelle Chiltern Hills, nei pressi di Christmas Common. 
Mentre  Clarissa  si  cambiava  le  scarpe,  preparai  lo  zaino  del  picnic.  Poi  ci 
avviammo  sul  sentiero  sottobraccio,  ancora  sotto  l’effetto  gioioso  del  nostro 
incontro; quanto di lei mi era ben noto - come le proporzioni e la sensazione della 
sua mano nella mia, il tono pacato e affettuoso della voce, la pelle chiara e gli 
occhi verdi di taglio celtico -, assumeva tuttavia un certo non so che di nuovo, si 
illuminava  di  una  radiosità  estranea  facendomi  tornare  alla  mente  i  primi 
appuntamenti e i mesi del nostro reciproco innamoramento. Oppure vedevo me 
stesso  nei  panni  di  un  altro  uomo,  del  mio  stesso  rivale  in  amore,  venuto a 
portarmela via. Quando glielo dissi lei rise e commentò che ero lo scemo più 
complicato del mondo, e fu mentre ci fermavamo per darci un bacio e domandarci 
a voce alta se non avremmo fatto meglio a rimontare in macchina e andare subito 
a casa, che scorgemmo tra le foglie nuove degli alberi, il pallone spostarsi come in 
sogno attraverso la valle boschiva a ovest. Non potevamo vedere né l’uomo né il 
ragazzo. Ricordo di aver pensato, senza farne parola, che si trattava di un mezzo 
di trasporto piuttosto insicuro quando, a segnarne la rotta, era il vento più che il 
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pilota. Ma riflettei che forse proprio in quello doveva consistere la natura del 
divertimento. E l’idea mi svanì di mente all’istante. 
Attraversammo College Wood diretti a Pishill, fermandoci ad ammirare il verde 
recente sui faggi. Ogni foglia sembrava accendersi di una luminosità interiore. 
Parlammo della purezza del colore della foglia di faggio in primavera e di come 
osservarlo purificasse i pensieri. Mentre passeggiavamo nel bosco, il vento prese 
ad alzarsi facendo cigolare i rami come ingranaggi arrugginiti. Conoscevamo bene 
la strada. Era senza dubbio il posto più bello a un’ora di viaggio dal centro di 
Londra. Amavo le ondeggianti distese dei campi disseminati di gesso e di selce, e 
quei sentieri che li tagliavano per sprofondare nell’ombra dei faggi, fino a valloni 
umidi e incolti dove spesse coltri di muschio cangiante foderavano i tronchi morti 
degli alberi e dove, di quando in quando, non era impossibile imbattersi in un 
muntjak che rovistava nel sottobosco. 
Per quasi tutto il tempo della nostra passeggiata parlammo della ricerca di 
Clarissa: John Keats morì a Roma nell’appartamento ai piedi della scalinata di 
Trinità  dei  Monti  che  divideva  con  l’amico  Joseph  Severn.  Era  ipotizzabile 
l’esistenza di tre o quattro sue lettere ancora non pubblicate? Si poteva supporre 
che una avesse come destinatario Fanny Brawne? Clarissa aveva buone ragioni 
per  pensarlo  e  aveva  perciò  trascorso  una  parte  del  suo  semestre  sabbatico 
viaggiando  tra  la  Spagna  e  il  Portogallo,  e  girando  per  le  case  note  a  Fanny 
Brawne e a Fanny, la sorella di Keats. Adesso era di ritorno da Boston dove aveva 
lavorato  alla  Houghton  Library  di  Harvard,  cercando  di  rintracciare  la 
corrispondenza di certi lontani parenti di Severn. L’ultima lettera a noi pervenuta, 
Keats la scrisse quasi tre mesi prima di morire, al vecchio amico, Charles Brown. 
Il  tono  dello  scritto  è  piuttosto  solenne  e  propone,  secondo  lo  stile  tipico 
dell’autore,  una  geniale  definizione  della  creazione  artistica  inserita  quasi  tra 
parentesi: «La coscienza del contrasto, la percezione delle luci e delle ombre, tutto 
quell’insieme di nozioni (nel senso primitivo) necessarie alla poesia, sono i grandi 
nemici della guarigione del mio stomaco». È quella che si conclude con il celebre 
commiato, così straziante per reticenza e per cortesia: «Riesco a malapena a dirti 
addio, anche per lettera. Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo. Dio 
ti benedica! John Keats». Ma tutte le biografie sono concordi nell’affermare che al 
momento  di  redigere  questa  lettera,  Keats  stava  attraversando  un  periodo  di 
remissione  dal  male,  che  perdurò  una  decina  di  giorni  ancora.  Visitò  Villa 
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Borghese e passeggiò in via del Corso. Ascoltò con piacere Haydn suonato da 
Severn, scaraventò con furia la cena fuori dalla finestra per protestare contro la 
qualità scadente della cucina, e pensò addirittura di dare inizio alla stesura di 
una  poesia.  Ipotizzando  l’esistenza  di  lettere  risalenti  a  quei  giorni,  quale 
interesse  potrebbe  aver  avuto  Severn,  e  più  ancora,  Brown,  a  sopprimerle? 
Clarissa riteneva di aver trovato la risposta al quesito in un paio di riferimenti 
rinvenuti  nella  corrispondenza  tra  lontani  parenti  di  Brown  nel  corso  del 
decennio 1840, ma le occorrevano altre prove, fonti diverse. 
- Sapeva che non avrebbe più visto Fanny, - diceva Clarissa. - Scrisse a Brown 
dicendogli che la sola vista del nome di lei gli sarebbe stata intollerabile. Ma non 
smise mai di pensarla. In quei giorni di dicembre era abbastanza forte, e l’amava 
moltissimo.  È  facile  immaginare  che  abbia  scritto  una  lettera  anche  se  non 
intendeva spedirla. 
Le strinsi più forte la mano senza parlare. Di Keats e della sua poesia sapevo 
poco, ma ritenevo possibile che, date le condizioni disperate in cui versava, non 
avesse  voluto  scriverle  proprio  perché  l’amava  moltissimo.  Di  recente  avevo 
pensato che l’interesse di Clarissa nell’esistenza di quelle ipotetiche lettere avesse 
qualcosa a che fare con il nostro rapporto, e con la sua convinzione che un amore 
non  può  essere  perfetto  se  non  trova  espressione  in  forma  scritta.  Nei  mesi 
successivi al nostro incontro, e prima dell’acquisto dell’appartamento, mi aveva 
scritto alcune meraviglie, appassionatamente astratte nello svisceramento di ciò 
che faceva del nostro amore qualcosa di diverso e migliore rispetto a qualunque 
altro sentimento mai esistito. Forse è questa l’essenza di ogni lettera d’amore: la 
celebrazione dell’unicità. Io mi ero sforzato di eguagliarla, ma la franchezza mi 
aveva  concesso  solo  di  attingere  ai  fatti,  che  a  me  parevano  comunque 
abbastanza miracolosi di per sé: una donna bellissima amava e voleva essere 
riamata da un uomo massiccio, goffo, stempiato e incredulo. 
 
Ci fermammo a osservare la poiana nei pressi di Maidensgrove. Può darsi che il 
pallone avesse riattraversato il nostro sentiero mentre percorrevamo i boschi che 
coprono le vallate intorno alla riserva naturale. Nelle prime ore del pomeriggio 
giungemmo al Ridgeway Path, procedendo a nord lungo la linea della scarpata. 
Poi tagliammo per una di quelle ampie distese che si allungano a ovest delle 
Chiltern  verso  la  fertile  campagna  sottostante.  Oltre  la  piana  di  Oxford 
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distinguevamo  il  contorno  delle  Cotswold  Hills  e,  ancora  più  in  là,  la  massa 
azzurrognola  dei  Brecon  Beacons.  Avevamo  deciso  di  pranzare  in  fondo  al 
sentiero, dove si godeva il panorama migliore, ma il vento era ormai troppo teso. 
Tornammo  sui  nostri  passi  e  trovammo  riparo  tra  i  quercioli  del  lato 
settentrionale del prato. 
E fu a causa di questi alberi che non assistemmo alla discesa del pallone. In 
seguito mi sono chiesto come mai non fosse stato sospinto a chilometri da lì. E 
ancora più recentemente ho saputo che quel giorno il vento non era lo stesso al 
livello del suolo e a un’altezza di centocinquanta metri. 
La conversazione su Keats si esaurì mentre preparavamo la colazione sull’erba. 
Clarissa estrasse la bottiglia dal sacco e me la porse tenendola dal fondo. Come 
ho già detto, il collo mi stava sfiorando la pelle quando udimmo il grido. Era un 
tono baritonale su note via via più alte dettate dalla paura. Quel grido segnò 
l’inizio e, naturalmente, una fine. In quell’istante si chiuse un capitolo, o meglio, 
un intero stadio della mia vita. A saperlo, e a poter disporre di un secondo in più, 
valeva la pena di concedersi un pizzico di nostalgia. Il nostro matrimonio d’amore 
senza figli durava da sette anni. Clarissa Mellon amava anche un altro uomo, ma 
con l’approssimarsi del bicentenario dalla sua nascita, il fastidio che mi arrecava 
era in fondo modesto. Anzi, mi dava persino una mano fornendo spunti per gli 
scambi di idee che erano parte integrante del nostro equilibrio, il nostro modo per 
discutere di lavoro. Abitavamo in un edificio art déco nella zona settentrionale di 
Londra con un fardello di preoccupazioni al di sotto della media: più o meno un 
anno di ristrettezze economiche, il passeggero timore per un cancro inesistente, i 
divorzi e le malattie degli amici, l’intolleranza di Clarissa verso i miei occasionali e 
furiosi accessi di insoddisfazione per il mio lavoro - ma nulla poteva minacciare 
l’autonoma intimità delle nostre vite. 
Quel che vedemmo alzandoci in piedi fu quanto segue: un immenso pallone 
grigio, grande come una casa, a forma di lacrima, precipitato sul prato. Il pilota 
doveva essere già mezzo fuori dal cesto porta- passeggeri quando il velivolo aveva 
toccato terra. Una fune attaccata a un’ancora gli si era impigliata intorno a una 
gamba. 
Attualmente, tra raffiche di vento che, sollevandolo, spingevano il pallone in 
direzione della scarpata, l’uomo veniva trascinato ora a terra ora a mezz’aria, sul 
prato. Nel cesto c’era un bambino, un ragazzo di circa dieci anni. Approfittando di 
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un’improvvisa calma di vento, l’uomo si rimise in piedi afferrando il cesto, o il 
ragazzo. Seguì un’altra raffica e il pilota si ritrovò sulla schiena, sbattuto sul 
terreno  ineguale,  nel  tentativo  di  puntare  i  piedi  al  suolo,  o  nello  sforzo  di 
afferrare l’ancora alle sue spalle per assicurare il mezzo alla terra. Anche potendo, 
non avrebbe osato liberarsi dal groviglio della fune. Gli occorreva il proprio peso 
per mantenere il pallone a terra, e il vento avrebbe potuto strappargli la fune di 
mano. 
Correndo, lo sentii gridare rivolto al ragazzo incoraggiandolo a saltar fuori dal 
cesto. Ma il volo incontrollato del pallone scaraventava il bambino da tutte le 
parti. Finalmente recuperò l’equilibrio e appoggiò una gamba sul bordo del cesto. 
Il pallone si alzò e ricadde di schianto su un dosso, e il ragazzo cascò all’indietro 
sparendo alla nostra vista. Poi si rialzò con le braccia tese verso l’uomo al quale 
intanto  gridava  qualcosa,  parole  inarticolate  per  la  paura  che  non  riuscii  a 
distinguere. 
Dovevo trovarmi a un centinaio di metri da lì quando la situazione tornò sotto 
controllo. Il vento si era placato, l’uomo era in piedi chino sull’ancora che stava 
cercando di ficcare nel terreno. Si era liberato la gamba dalla fune. Per qualche 
ragione,  magari  per  volontà  o  per  stanchezza  o  semplicemente  perché  stava 
facendo  quel  che  gli  si  diceva  di  fare,  il  ragazzo  rimase  dov’era.  L’imponente 
pallone oscillava, piegandosi e strattonando le funi, ma la belva era stata domata. 
Rallentai la corsa, pur senza fermarmi. Mentre si raddrizzava, l’uomo ci vide - o 
per lo meno vide me e i due braccianti - e ci fece segno di raggiungerlo. Aveva 
ancora bisogno di aiuto, ma fui lieto di poter assumere un sostenuto passo di 
marcia. Anche i braccianti stavano ormai camminando. Uno dei due tossiva forte. 
L’uomo dell’auto però, John Logan, sapeva qualcosa che noi non potevamo 
sapere e continuò a correre. Quanto a Jed Parry, il pallone me ne ostruiva la 
vista. 
Il vento recuperò la sua furia tra le cime degli alberi poco prima che ne sentissi 
la forza abbattersi sulla mia schiena. Poi tornò a prendersela con il pallone che 
interruppe le oscillazioni innocenti e buffe per immobilizzarsi d’un colpo. L’unico 
movimento percepibile era il baluginio di tensione che andava a incresparne la 
superficie  accumulando  energia.  Poi  si  liberò,  l’ancora  strappò  da  terra  una 
pioggia di fango, e cesto e pallone si sollevarono a circa tre metri. Il bambino fu 
scaraventato all’indietro e non lo vedemmo più. Il pilota, che aveva la fune tra le 
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mani, fu sollevato a mezzo metro d’altezza dal terreno. Se Logan non lo avesse 
raggiunto e non avesse afferrato una delle tante funi penzolanti, il pallone si 
sarebbe portato via il ragazzo. E invece, adesso, i due uomini venivano trascinati 
insieme sul campo, mentre i braccianti e io avevamo ripreso a correre. 
Arrivai prima di loro. Quando acciuffai una corda, il cesto era più in alto delle 
nostre teste. Il ragazzo dentro strillava. A dispetto del vento, sentii odore di urina. 
Jed  Parry  si  impadronì  di  una  corda  qualche  secondo  dopo  di  me,  e  i  due 
braccianti, Joseph Lacey e Toby Greene, fecero altrettanto subito dopo. Greene 
era in preda a una crisi di tosse, ma tenne duro. Il pilota ci gridava che fare, ma 
le sue istruzioni erano troppo frenetiche e comunque nessuno lo stava a sentire. 
Costretto a combattere troppo a lungo, era esausto e aveva perso il controllo 
emotivo. Con noi cinque aggrappati alle corde, il pallone era sicuro. Bastava che 
rimanessimo ben saldi in piedi e tirassimo poco per volta fino a riportare il cesto 
per terra, il che, a dispetto di tutte le grida del pilota, fu esattamente quello che 
incominciammo a fare. 
A  quel  punto  eravamo  prossimi  alla  scarpata.  Il  terreno  si  piegava  in  una 
brusca discesa del venticinque percento prima di trasformarsi in un pendio dolce 
verso il fondo. D’inverno questo è uno dei punti preferiti per gli slittini dei ragazzi 
del posto. Parlavamo tutti insieme. Due di noi, io e l’automobilista, volevamo 
trascinare  il  pallone  lontano  dall’orlo.  Qualcuno  invece  riteneva  che  prima  si 
dovesse  tirare  fuori  il  bambino.  Un  altro  insisteva  che  dovevamo  tirar  giù  il 
pallone e assicurarlo bene al terreno. 
Io non  vedevo  dove  fosse  la  contraddizione,  visto  che  potevamo  tirar  giù  il 
pallone pur camminando in direzione del prato. Ma stava avendo la meglio la 
seconda opinione. 
Il pilota  ne  aveva  una  quarta,  ma  nessuno  la  conosceva  o  aveva  testa  per 
ascoltarla. 
Dovrei chiarire un concetto. Poteva anche esserci una vaga comunanza d’intenti, 
ma non fummo mai una squadra. Non c’era modo, né tempo. A portare tutti 
quanti sotto il pallone erano state le coincidenze di spazio e di tempo, e una 
predisposizione  al  soccorso.  Nessuno  aveva  il  comando  -  o  l’avevamo  tutti  e 
facevamo a chi grida più forte. Il pilota, con la faccia congestionata e grondante, 
veniva  ignorato.  Irradiava  incompetenza  come  una  stufa  irradia  calore.  E  noi 
intanto incominciavamo a strillare le nostre, di istruzioni. So che se avessi avuto 
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