Table Of ContentCollana diretta da
Uhaldo Fadilll, Paolo Ferri, Tiziana Villani
La collana Eterotopie si propone di esplorare un versante importante del
pensiero e della realtà contemporanei: quello in cui le trasformazioni, i
processi di innovazione tecnica incontrano domande, soggetti, corpi c figure
che dal passato sono transitate sino a noi. Si tratta di guardare in modo non
dogmatico ma critico il corpo del nostro presente.
In questo percorso sono presenti temi e autori che hanno voluto
scommettere la propria ricerca nel tempo contraddittorio del mutamento.
La collana ospita testi di filosofia, estetica, antropologia, architettura, che
non si limitano a fotografare i problemi ma che intendono costituire un vero e
proprio laboratorio di idee, incontri grazie ai quali possa essere possibile la
messa in opera di un progetto forte c indipendente dalle mode.
GILLES DELEUZE
ISTINTI
E ISTITUZIONI
a cura di Ubaldo Fadini e Katia Rossi
Mimesis
Eterotopia
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DELEUZE POSITIVO
di
Ubaldo Fadini
Il testo deleuziano su Instincts et institutions (1955) si presenta come una
raccolta dei contributi più importanti che sono stati forniti, a partire dal primo
Settecento, sul tema cruciale del rapporto tra le “tendenze” dell’umano e il
dispositivo istituzionale. Filosofi, sociologi, antropologi, biologi ecc. sono
chiamati a testimoniare di un impegno costante nei riguardi della questione di
un possibile confronto tra l’istinto e l’istituzione, in particolare sulla base del
primo grande studio di Deleuze su Empirismo e soggettività. Saggio sulla
natura umana (1953). Già in quest’ultimo lavoro – vero e proprio apripista
della ricerca deleuziana, precocemente schierata a favore di un empirismo già
allora “eretico”, per dirla con P. P. Pasolini, e provocatoriamente marginale
rispetto agli interessi comunque “fenomenologici” di buona parte della
cultura filosofica francese di quegli anni – si trova infatti un’attenzione
profonda nei confronti di una individuazione dell’ “essenza” della società non
tanto nella legge, quanto nell’istituzione, considerata come un sistema
artificiale di mezzi di soddisfazione dei bisogni naturali. Deleuze è appunto
interessato al fatto che in Hume si trova una teoria dell’artificio, una
concezione complessiva dei rapporti tra natura e cultura, tendenza e
istituzione:
Come dimostrerà più tardi Bentham con precisione ancora maggiore, il bisogno è naturale, ma
l’unica possibilità di soddisfazione del bisogno, o almeno di costanza e durata per questa
soddisfazione, è artificiale, industriale e culturale. L’identificazione degli interessi è quindi
artificiale, ma nel senso che essa sopprime gli ostacoli naturali all’identificazione naturale di quei
medesimi interessi. In altri termini, il significato della giustizia è esclusivamente topologico.
L’artificio non inventa un’altra cosa, un principio diverso dalla simpatia. I principi non s’inventano.
Ciò che l’artificio assicura alla simpatia e alla passione naturali, è un’estensione in cui esse potranno
esercitarsi, svilupparsi naturalmente, ma liberate dai loro limiti naturali. Le passioni non sono
limitate ma allargate, estese, dalla giustizia”1.
L’artificio sta quindi dalla parte della natura ed è questo che si vuol dire
quando si afferma che la tendenza si soddisfa soltanto nell’istituzione e che la
natura raggiunge i suoi obiettivi attraverso la cultura. La storia appartiene
così alla natura umana e, insieme, si dimostra come la continua presa d’atto
di una impossibilità a spiegare/definire tutto (la natura come “residuo”
nella/della storia, come ciò che persiste/insiste in quello che vi è di comune in
tutti i modi di soddisfare tendenze). È in quest’ottica che si articola lo stesso
ragionamento, ampliato fino al punto da diventare comprensivo di più assetti
“disciplinari”, che si ritrova nella introduzione a Instincts et institutions e che
appare rivolto a considerare come un insieme natura e cultura, contestando
così il determinismo di coloro che riconducono tutto ciò che l’uomo compie
all’istinto oppure alla politica e all’educazione. Deleuze sottolinea come in
Hume la tendenza non sia “mai astratta dai mezzi che si organizzano per
soddisfarla”, significando questo, tra l’altro, un’idea molto forte di società,
che si accompagna alla formulazione di “una critica del contratto che non
solo gli utilitaristi, ma la maggior parte di coloro che si opporranno al Diritto
naturale, non avranno che da riprendere. Ecco l’idea principale di questa
concezione: l’essenza della società non è la legge, bensì l’istituzione. La
legge, in effetti, è una limitazione delle imprese e delle azioni e ritiene solo
un aspetto negativo della società. Il torto delle teorie contrattualistiche è di
presentarci una società la cui essenza è la legge, che non ha altro oggetto che
garantire certi diritti naturali preesistenti, altra origine che il contratto: il
positivo è posto fuori dal sociale, il sociale è posto da un’altra parte, nel
negativo, nella limitazione, nell’alienazione. Tutta la critica di Hume allo
stato di natura, ai diritti naturali e al contratto mira a dimostrare che occorre
rovesciare il problema. La legge non può, da sola, esser fonte di
obbligazione, perché l’obbligazione della legge presuppone un’utilità. La
società non può garantire dei diritti preesistenti: se l’uomo entra in società è
proprio perché non ha dei diritti preesistenti”2.
Qui sono poste le premesse di quella critica del primato della legge che
attraversa, come un filo rosso, l’intera opera deleuziana, dai lavori su
Nietzsche e su Spinoza a quelli scritti assieme a F. Guattari. Legando “in
negativo” la legge all’utilità e facendo di quest’ultima un presupposto
dell’obbligazione, Deleuze apre la strada al protagonismo dell’istituzione, che
ritiene l’aspetto positivo della società proprio nel suo rapporto di fondo con le
tendenze, non quello negativo. L’istituzione si presenta, al contrario della
legge che delimita, come un’ “impresa”, un “modello” dell’agire, un “sistema
artificiale di mezzi positivi”, una “invenzione” di mezzi indiretti. Agganciare
positivamente l’istituzione all’utilità significa allora rovesciare il contenuto
delle teorie contrattualistiche, poiché il positivo sta nel sociale, che è
“profondamente inventivo, creativo”, mentre il negativo si colloca al di fuori
di quest’ultimo. La società viene raffigurata nei termini di un composto di
convenzioni fondato sull’utilità e non come un complesso di obbligazioni
riconducibili ad un contratto: tenendo “ferma” la posizione di apertura della
socialità, non si può che rilevare come la legge non venga “prima”, rinviando
appunto all’istituzione che va eventualmente delimitata. Questa concezione
non traduce il rapporto natura/società in quello di diritti/leggi, ma lo articola
come nesso di bisogni e istituzioni nel momento in cui l’istituzione, come
sistema positivo e funzionale, si presenta come una regola generale, basata
sull’utilità, che indica la relazione con il bisogno. In Instincts et institutions si
legge:
L’istituzione si presenta sempre come un sistema organizzato di mezzi. È proprio questa,
d’altronde, la differenza tra l’istituzione e la legge: quest’ultima è una limitazione delle azioni,
mentre la prima è un modello positivo di azione. Contrariamente alle teorie della legge che pongono
il positivo al di fuori del sociale (diritti naturali) e il sociale nel negativo (limitazione contrattuale),
la teoria dell’istituzione pone il negativo al di fuori del sociale (bisogni) per presentare la società
come essenzialmente positiva, inventiva (mezzi originari di soddisfazione). Una tale teoria ci darà
infine dei criteri politici: la tirannia è un regime in cui vi sono molte leggi e poche istituzioni, la
democrazia un regime in cui vi sono molte istituzioni e pochissime leggi. L’oppressione si manifesta
quando le leggi raggiungono direttamente gli uomini e non le istituzioni preliminari che
garantiscono gli uomini3.
Il sociale “creativo” è l’espressione di una specie umana radicalmente
“inventiva”, talmente inventiva da spogliarsi dei caratteri della specie stessa,
in un processo di rinnovamento che non conosce soste e che tiene stretto il
rapporto tra le istituzioni e l’ontologia in modo da poter delineare forme
nuove di organizzazione dell’artificiale. Sicuramente è presente
nell’antologia del ’55 la figura e l’opera di B. Malinowski, il suo
funzionalismo, con la tesi del significato adattivo delle istituzioni rispetto ai
bisogni elementari (la parentela “risponde” al bisogno riproduttivo) o
secondari (l’istruzione risponde ai bisogni di crescita culturale, all’esigenza di
sapere di più); questa posizione, che “afferra” l’istituzione mediante la
tendenza o il bisogno, non è però quella di Hume, che viene ancora più
chiarita da Deleuze, in un primo confronto con il motivo dell’istinto, laddove
si rivendica l’autonomia, per così dire, dei mezzi di soddisfazione indiretti:
“È un fatto che le tendenze si soddisfino nelle istituzioni. Parliamo qui di
istituzioni propriamente sociali, non d’istituzioni governative. […]
L’istituzione, in quanto modello di azioni, è un sistema prefigurato di
soddisfazione possibile. Solo che non se ne può concludere che l’istituzione
si spieghi attraverso la tendenza. È un sistema di mezzi, ci dice Hume, ma
questi mezzi sono obliqui, indiretti; essi soddisfano la tendenza, ma
contemporaneamente la frenano. Ecco una forma di matrimonio, un regime di
proprietà. Perché questo regime e questa forma? Ne sono possibili altre, che
si ritrovano in altre epoche, in altri paesi. Questa è la differenza tra l’istinto e
l’istituzione: c’è istituzione quando i mezzi mediante i quali una tendenza si
soddisfa non sono determinati né dalla tendenza né dai caratteri specifici”4.
La differenza tra istinto e istituzione è decisiva nel momento in cui si
sostiene che l’uomo non è posto dall’istinto nella condizione di un mero
asservimento all’attualità del presente. In termini non troppo distanti da quelli
propri dell’antropologi filosofica novecentesca (da M. Scheler a H. Plessner e
A. Gehlen), questa caratterizzazione della diversità dell’uomo dalle altre
forme del vivente serve anche ad una determinazione dell’istituzione (si pensi
soprattutto alla “teoria delle istituzioni” di Gehlen, che scaturisce comunque
da una “antropologia “negativa” che non trova riscontri in Deleuze, il quale,
da parte sua, tutto fa fuorché sviluppare una teoria conservatrice
dell’istituzione!). Quest’ultima, seguendo ancora la lettura deleuziana di
Hume, si delinea come l’effetto della “riflessione della tendenza
nell’immaginazione”, il che esprime l’inefficacia totale di una sua
spiegazione che la riconduca alla tendenza. Al contrario, lo specifico
istituzionale deve essere riferito al costume e alla ragione oppure – ed è ciò
che qui interessa – all’immaginazione:
Le istituzioni sono determinate dalle figure che le tendenze, secondo le circostanze, delineano
quando si riflettono nell’immaginazione, in un’immaginazione sottoposta ai principi
dell’associazione. Questo non significa che l’immaginazione nella sua essenza sia attiva, ma solo
che essa riecheggia, che risuona. L’istituzione è il figurato5.
Il carattere non subordinato dell’uomo alla dimensione istintuale gli
consente di rapportare le sue tendenze alla libera potenza formatrice della sua
immaginazione ed è in questo senso che si comprende come la soddisfazione
delle tendenze non avvenga “a misura della tendenza in se stessa, ma della
tendenza riflessa”. Tendenza e istituzione sono da considerarsi una cosa sola
perché si soddisfano a vicenda, ma sono invece da distinguere per il fatto che
la prima non spiega la seconda. Il problema dell’istinto e dell’istituzione,
come mezzi di soddisfazione, è quello della sintesi della tendenza e
dell’oggetto che appunto la soddisfa. Ora, l’istinto costituisce una “potenza di
sintesi originaria” quando appare come “perfetto” o “più appartiene alla
specie”; quando invece è “perfettibile”, quindi “imperfetto”, allora si presenta
– scrive Deleuze – come “sottomesso alla variazione, all’indecisione”;
insieme si può dire che “più si lascia ridurre al solo gioco dei fattori
individuali interni e delle circostanze esterne, – più lascia spazio
all’intelligenza”. Questi sono “passi” della densissima “premessa” a Instincts
et institutions, rispetto alla quale non vale forse come semplice “proiezione”
rintracciarvi suggestioni, spinte, “matrici” teoriche che in una qualche
maniera troveranno una eco in altri momenti della ricerca deleuziana (e
guattariana), ad esempio laddove si affronta – anche “politicamente” – il
problema della qualità della vita traducendolo in quello di una “attrezzatura
istituzionale del desiderio”, in grado di favorire un suo investimento sociale6.
Accanto al compito di pensare infine la società come una “invenzione
istituzionale”, cioè come una creazione di istituzioni, di artifici, in grado di
rilanciare la produzione della vita, si può vedere, in queste pagine deleuziane
del ’55, anche una anticipazione del motivo del divenire molteplice, proprio
come produzione e composizione, in particolar modo del divenire animale,
della “deterritorializzazione assoluta dell’uomo”. In questa direzione vanno
assunte le “conclusioni” della “premessa”, che rispondono alla questione di
come possa essere “intelligente” una tale “sintesi”, “che dà alla tendenza un
oggetto”, soprattutto quando si consideri che la sua realizzazione implica “un
tempo che l’individuo non vive, delle prove alle quali egli non
sopravviverebbe”. Per Deleuze, la soluzione sta nell’attribuire all’intelligenza
una qualifica sociale piuttosto che individuale, ritenendo che essa trovi nel
sociale l’ambiente “che la rende possibile”. Il sociale come “ambiente
intermediario” è ciò che consente di “integrare le circostanze in un sistema di
anticipazione, e i fattori interni in un sistema che regola il loro apparire,
sostituendo la specie”. L’effetto di tutto questo è proprio l’istituzione in
quanto mezzo sociale “originario” di soddisfazione delle tendenze, che di per
sé non sono assolutamente sociali. L’istituzione è letteralmente il modo in cui
l’uomo, privo di istinti, fa i conti con la sua specificità, spogliandosi della
specie. Ma ancora – e forse sta qui il carattere “straordinario” dell’avventura
intellettuale di Deleuze: il valore dell’istituzione, la necessità della sua forma
(da rinnovare continuamente), è dato – sarà da darsi (compito politico…) –
dalla sua capacità di integrare le urgenze dell’animale, di delineare una “zona
di indiscernibilità” di uomo e animale (come si sostiene nello splendido
Francis Bacon. Logica della sensazione), all’interno della quale appunto
“l’uomo diviene animale, non senza che l’animale al tempo stesso divenga
spirito, spirito umano, spirito fisico dell’uomo […]. Non è mai combinazione
di forme, è piuttosto il fatto comune: il fatto comune all’uomo e all’animale.
Al punto che in Bacon, anche la Figura più isolata è già in sé una Figura
accoppiata, l’uomo affiancato dal suo animale in una tauromachia latente”7.
1 G. Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, tr. di
M. Cavazza, Cappelli, Bologna, 1981, p.33 (si veda ora anche la pubblicazione di questo testo da
parte delle Edizioni Cronopio, Napoli, 2000).
2 Ivi, pp.35-36.
3 Cfr. infra.
4 G. Deleuze, Emprismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, cit.,
p.37.
5 Ivi, p.39.
6 In quest’ottica sia consentito il rinvio al mio Deleuze plurale. Per un pensiero nomade,
Pendragon, Bologna, 1998, soprattutto alle pp.47-102.
7 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. di S. Verdicchio, Quodlibet,
Macerata, 1995, p.52.