Table Of ContentLE SCIE.
Arrigo Petacco.
IL CRISTO DELL'AMIATA.
La storia di David Lazzaretti.
2003 ARNOLDO MONDADORI EDITORE - MILANO.
I EDIZIONE MARZO 2003.
SCANSIONE DI SERENELLA
Dello stesso autore
In edizione Mondadori
Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale
Dear Benito, caro Winston
I ragazzi del '44
La regina del Sud
Il Prefetto di ferro
La principessa del Nord
La Signora della Vandea
La nostra guerra. 1940-1945
Il comunista in camicia nera
L'archivio segreto di Mussolini
Regina
Il Superfascista
L'armata scomparsa
L'esodo
L'anarchico che venne dall'America
L'amante dell'imperatore
joe Petrosino
L'armata nel deserto
Ammazzate quel fascista!
L'Editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza
riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di
quanto occorra nei loro confronti.
http://www.mondadori.com/libri
ISBN 88-04-51269-5
INDICE
3 I Il secondo figli» di Dio
14 II Il sinedrio di Roma
22 III La visione
41 IV La chiamata
53 V Il bollo divino
68 VI L'uomo del mistero
79 VII L'ultima cena
87 Viii I codici
99 IX L'arresto
108 X L'infiltrato
117 XI In Francia
127 XII La perizia psichiatrica
135 XIII L'aiuto della Provvidenza
141 XIV Per l'Europa
151 XV I dodici apostoli
156 XVI «La Repubblica è il Regno di Dio»
164 XVII La manifestazione
172 XVIII In nome della legge
187 Bibliografia essenziale
ARRIGO PETACCO
Il CRISTO DELL'AMIATA
**********
La storia di David Lazzaretti «Lassù sul monte Amiata è morto Gesù
Cristo da vero socialista ucciso dai carabinieri»: così i versi di
un'antica canzone popolare rievocano la leggendaria figura di David
Lazzaretti, umile barrocciaio nativo di Arcidosso, paesino in provincia
di Grosseto, che, scopertosi mistico visionario, divenne nell'Italia
postrisorgimentale predicatore di un radicale rinnovamento religioso e
fondatore di una comunità di fedeli basata su un ideale di socialismo
evangelico. Dopo l'unificazione si verificò nel nostro Paese un
peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne, soprattutto nelle
regioni centro-meridionali. I contadini si trovarono da un lato vessati
dalla politica «coloniale» del nuovo Stato, che li gravava di tasse
particolarmente odiose, e dall'altro sottoposti alla subdola influenza
di una Chiesa arroccata su posizioni antiliberali e antimoderniste. Fu
questo l'humus primario in cui maturarono non soltanto il brigantaggio e
le insurrezioni anarchiche di quegli anni, ma anche la singolare
esperienza spirituale di Lazzaretti. Autodidatta dalla fantasia fervida
e impetuosa, con una naturale propensione al comando, il «santo David»
ricevette l'«illuminazione» nel 1868, a trentaquattro anni. La sua
predicazione, iniziata nel territorio del monte Amiata e poi diffusasi
oltre i confini italiani, s'ispirava a un cristianesimo delle origini.
Attraverso grandiose e spesso stravaganti visioni egli vaticinava
l'avvento di un'era di fratellanza e uguaglianza che sarebbe culminata
nella manifestazione, per suo tramite, del «grande liberatore del mondo,
il secondo Cristo». Lo slancio profetico di Lazzaretti si concretizzò
poi in un ampio progetto comunitario, la Società delle famiglie
cristiane, che introdusse riforme rivoluzionarie invise sia allo Stato
liberale sia alle gerarchie ecclesiastiche, come l'abolizione della
proprietà privata, la comunanza dei beni, la suddivisione degli utili e
la parità di diritti fra uomini e donne. Nel Cristo dell'Amiata, edito
per la prima volta nel 1978 e ora riproposto all'attenzione dei lettori,
Arrigo Petacco ricostruisce le vicissitudini di David Lazzaretti al di
là della tradizione popolare ancor oggi viva nell'Amiata e della
confusione con le rivolte e i movimenti così diffusi nell'Italia
postunitaria. Ne emerge l'immagine di un popolano semianalfabeta,
di un visionario ingenuo che, nell'ansia di realizzare il regno
di Dio su questa terra, divenne suo malgrado un ribelle, e come
tale morì, raggiunto da un colpo d'arma da fuoco durante uno scontro
con le forze dell'ordine.
Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a
Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore
de «La Nazione» e di «Storia illustrata», ha sceneggiato alcuni
film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri
affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità
giudicate incontestabili.
Fra gli altri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Joe
Petrosino, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova
edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio
al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò
(nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Dear Benito,
caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La
signora della Vandea, La nostra guerra. Il comunista in camicia
nera, Regina. La vita e i
segreti di Maria Hosé,
L'armata scomparsa, Ammazzate quel fascista!
**********
Sono intimamente convinto che se Lazzaretti avesse avuto maggior
cultura e fosse nato in altri tempi e in altri luoghi, avrebbe potuto
riuscire un san Paolo, un sant'Agostino, o per lo meno un Lutero.
ANDREA VERGA.
Se David è matto son matti tutti i santi in Paradiso.
Detto dell'Amiata.
Gli allucinati compongono una strana famiglia dalla quale sono usciti
eroi, martiri, santi e assassini.
ANDREA VERGA.
CAPITOLO I.
IL SECONDO FIGLIO DI DIO.
«Ego sum! Sì, io sono quello che attendevano le nazioni. Sono il Figlio
dell'Uomo. Ego sum! Sì, è giunto il tempo che io riveli a voi la mia
natura divina. Io sono il David d'Isaia, sono il Leone della tribù di
Giuda, sono il Cristo, Duce e Giudice, la reincarnazione di Gesù...» Le
parole di David Lazzaretti si levarono alte nella stanza ampia e
disadorna, che torce e lumi a olio sfrigolanti per i soffi d'aria
provenienti da mille fessure rischiaravano malamente. Fuori, intanto,
continuava a diluviare, il vento ululava e le folgori squarciavano lembi
di cielo illuminando con bagliori sinistri la vetta bianca e brulla del
monte Labbro dove David aveva fatto erigere il suo eremo e la sua torre.
«Ego sum!» gridò ancora David in piena crisi mistica. La sua figura,
gigantesca e spettrale, si stagliava contro l'altare in un gioco
suggestivo di ombre e di luci. Grosse lacrime gli solcavano il volto
barbuto e scavato dai lunghi digiuni. «Sì,» ripeté «io sono quel
Cristo.» Poi cadde in ginocchio e aggiunse, con quella sua
caratteristica parlata toscana, che il lungo soggiorno all'estero non
aveva affatto migliorato: «Voi non dovete temere della tempesta che
infuria fuori, perché la tempesta è in me. Questa è la notte in cui si
aprono gli abissi e milioni di anime volano al cielo. Voi non dovete
temere perché io vi porto la redenzione. Io solo sono la vittima
predestinata. Il sangue delle mie vene placherà lo sdegno di Dio». Circa
cento persone ammassate una sull'altra sul freddo pavimento di
terra battuta ascoltavano estatiche le parole del profeta, ma
nessuno dei fedeli parve capire il vero significato della
sconvolgente dichiarazione di David. Soltanto i due sacerdoti che
officiavano all'altare l'avevano accolta con un brivido di paura e poi,
folgorati dalla rivelazione, erano caduti in ginocchio accanto a lui
borbottando freneticamente sommesse preghiere. Era la sera dell'8 marzo
1878, venerdì. La Nuova Sion (questo il nome imposto all'eremo da David,
il quale aveva anche modificato quello del monte Labbro in monte Labaro
perché gli pareva più suggestivo) era più affollata del solito. La
notizia del ritorno di Lazzaretti, il «santo David», come tutti lo
chiamavano nell'Amiata, era corsa di bocca in bocca, di villaggio in
villaggio e tutti i membri della Società delle famiglie cristiane si
erano inerpicati sotto la pioggia fin sulla vetta del monte per
ascoltarlo. C'erano, in prima fila, i dodici apostoli col loro
caratteristico cappello di lana grigia e poi gli eremiti penitenzieri,
i militi crociferi, i discepoli, le matrone, le figlie dei cantici, le
vergini e gli altri componenti degli ordini e dei sottordini religiosi
che David aveva meticolosamente classificato e di cui quei montanari di
animo semplice si erano lasciati investire accettandone le regole
rigorose con sincero entusiasmo e autentica fede. Tutti i presenti
portavano appuntato sul petto il «simbolo di David» che distingueva i
seguaci di Lazzaretti dagli altri cristiani. Si trattava di una sorta di
distintivo composto da due «C» contrapposte con una croce in mezzo e che
appariva all'incirca così: <O + C». David era sempre stato restio a
fornire spiegazioni sul significato del misterioso simbolo che portava
impresso sulla fronte come una stimmata, ma aveva imposto ai suoi
seguaci di appuntarlo sulle vesti e anche di scolpirlo sull'uscio di
casa. Con questa disposizione aveva favorito senza volerlo il lavoro del
delegato di pubblica sicurezza di Arcidosso. Questi, infatti, quando gli
era stato ordinato di tenere d'occhio la presunta setta papista
sviluppatasi nell'Amiata, non aveva dovuto faticare molto per
redigere l'elenco completo dei suoi componenti.
Ma neanche il delegato, fino a quel momento, era riuscito a
scoprire il recondito significato di quelle due «C» con la croce in
mezzo che i lazzarettisti usavano anche per marchiare i beni e gli
animali appartenenti alla loro comunità. Scriveva infatti al prefetto di
Grosseto, Cotta Ramusino, il quale più per curiosità che per altro gli
aveva chiesto lumi in proposito: Dicesi che questo simbolo ricalchi
fedelmente un misterioso tatuaggio che il suddito Lazzaretti David
porterebbe impresso sulla fronte. Io personalmente non ho mai visto
questo marchio né l'hanno visto persone di mia fiducia poiché il
sedicente profeta, che usa portare i capelli alla nazzarena, è solito
nasconderlo sotto il ciuffo. Secondo una credenza popolare qui molto
diffusa e che il Lazzaretti alimenta furbescamente, il marchio gli
sarebbe stato impresso in fronte addirittura da San Pietro durante un
suo lungo eremitaggio in una grotta di Montorio Romano, allora negli
Stati Pontifici, nel corso della quale egli avrebbe avuto delle
conferenze con la Madonna e altri Santi... Il tanto discusso simbolo, la
sera dell'8 marzo 1878, figurava ricamato in rosso anche sulla cotta dei
due sacerdoti della Nuova Sion di monte Labaro. Don Filippo Imperiuzzi
e don Giovanni Battista Polverini erano due frati, poco più che
trentenni, dell'ordine di san Filippo Neri, che il vescovo di
Montefiascone, monsignor Concetto Focacetti, aveva autorizzato a
lasciare il convento di Gradoli per andare a prendersi cura delle anime,
a suo parere un po' confuse, dei lazzarettisti dell'Amiata. Di quei
tempi, infatti, quando era ancora nell'aria il rombo delle sacrileghe
cannonate di Porta Pia, i clericali revanscisti annidati in Vaticano o
distribuiti nelle diocesi erano prodighi di approvazioni, di benedizioni
e persino di sovvenzioni verso tutti coloro che gridavano «Viva Pio IX».
E non si dava gran peso se a gridarlo erano dei briganti
dell'Aspromonte o dei visionari dell'Amiata. Per questa ragione,
monsignor Focacetti e il suo collega Raffaele Pucci Sisti, vescovo di
Montalcino nella cui diocesi sorgeva l'èremo di monte Labbro,
avevano preso sotto la loro benevola protezione il nascente
movimento lazzarettista. Questa protezione spirituale era
durata anni, anche dopo che i due vescovi avevano cominciato a nutrire
un certo sospetto verso quella strana comunità cristiana di stampo
primitivo dove, se da un lato si proclamava l'assoluta fedeltà a Pio IX,
dall'altro si mettevano in pratica sistemi di vita associativa che non
potevano non allarmare chi aveva a cuore la conservazione dell'ordine
sociale esistente, come, per esempio, l'abolizione della proprietà
privata, la comunanza dei beni, la suddivisione degli utili e persino
l'elezione del consiglio della comunità con l'estensione alle donne del
diritto di voto. La decisione di Lazzaretti di assegnare a uomini e
donne parità di diritti per poco non aveva fatto traboccare il vaso
della pazienza dei due vescovi. Una cosa simile non era mai accaduta! Ma
quelli erano tempi duri per i clericali, la Chiesa aveva un gran bisogno
di alleati per frenare l'avanzata liberalmassonica e, di conseguenza,
non si poteva guardare troppo per il sottile. Così, i due vescovi non
erano intervenuti, anche se «L'Osservatore Romano», dopo la
pubblicazione del Sillabo che condannava in pratica tutti i princìpi
essenziali del liberalismo, non si stancava di mettere in guardia i
credenti e i benpensanti contro certe idee socialiste e rivoluzionarie
che giungevano d'oltralpe a confondere i cervelli e a suscitare
ribellione e odio di classe. Oltre che a dir messa, dunque, i due
giovani frati filippini erano stati mandati sul monte Labbro per
mantenere la comunità cristiana il più possibile vicino a Dio e al papa
e il più possibile lontano dal modernismo e dal socialismo. Ma i due
religiosi non avevano atteso al loro compito, anzi col passare del tempo
si erano lasciati affascinare dalla forte personalità del santo David,
avevano finito per sposare la sua causa, convincendosi della veridicità
della sua missione celeste e, quando si era verificata la paventata
«scissura» fra la grande Chiesa di Roma e la microscopica chiesa
dell'Amiata, non avevano esitato a schierarsi con questa contro
quella pur essendo ben consci dei rischi che tale scelta
comportava. La temuta scissura aveva cominciato a profilarsi sul
finire del 1877. David Lazzaretti si trovava in Francia da circa tre
anni, ospite, con la famiglia, del giudice Leon du Vachat, un
ricchissimo esponente dei circoli clericali e reazionari francesi. Si
diceva che avesse lasciato l'Italia e la comunità della Nuova Sion per
sfuggire alle persecuzioni della polizia che non si stancava di spedirlo
in catene davanti ai tribunali dai quali usciva immancabilmente assolto.
Dalla Francia, tuttavia, egli aveva mantenuto stretti contatti coi suoi
fedeli amiatini, che continuava a guidare da lontano attraverso una
copiosa corrispondenza. Oltre alle istruzioni sul modo di amministrare
la comunità, improntate di buon senso pratico, David inviava anche
dettagliati resoconti dei suoi fantastici colloqui col Padreterno. Si
trattava solitamente di pastrocchi letterari, quasi sempre scritti in
versi a rima baciata, in cui, con assoluto disprezzo per la sintassi e
l'ortografia, il buon Dio illustrava al suo profeta quale sarebbe stato
il futuro assetto del mondo. Erano stati appunto gli ultimi scritti di
David a mettere in allarme i censori del Sant'Uffizio. Fino a quel
momento, anche se erano state giudicate allarmanti certe innovazioni
adottate dalla comunità dell'Amiata, la prolissa produzione letteraria
del profeta non aveva mai preoccupato eccessivamente i difensori
dell'ortodossia cattolica. Questo perché David aveva sempre manifestato,
sia in versi che in prosa, la sua assoluta obbedienza alla gerarchia e
anche perché le sue profezie, fino a quel momento, non erano mai uscite
dal seminato. Ma ora era diverso. Ora il Dio che parlava per bocca di
David cominciava a dimostrare, sia pure in modo confusionario, un forte
impegno politico e anche una gran voglia di cambiare l'ordine delle
cose. A mettere in guardia il Sant'Uffizio contro la predicazione del
profeta dell'Amiata aveva provveduto in particolare l'arciprete di
Arcidosso, paese natale di Lazzaretti. Don Francesco Pistolozzi, al
quale David inviava ingenuamente copia di tutti i suoi scritti,
era da tempo roso dall'invidia. Lui, per la verità, non aveva
mai visto di buon occhio l'attività di quel suo parrocchiano
squilibrato che si spacciava per emissario del Padreterno,
ma aveva dovuto pazientare in obbedienza agli inviti ammiccanti del suo
vescovo. In segreto, però, don Pistolozzi invidiava il successo di David
tra i fedeli, gli addebitava il progressivo spopolamento della sua bella
chiesa arcipresbiteriale a vantaggio dell'inospitale eremo del monte
Labbro e, soprattutto, non gli perdonava di aver causato la drastica
riduzione del gettito delle elemosine. Così, appena gli era parso di
avvertire puzza di eresia negli scritti del profeta (di cui era
attentissimo lettore) si era affrettato a inviarli trionfante al vescovo
di Montalcino il quale, a sua volta, dovette dirottarli verso il
Sant'Uffizio. Gli scritti di Lazzaretti presi particolarmente in esame
dai censori erano due opuscoli da lui stampati in Francia. Il primo
aveva per titolo: Il libro dei celesti fiori, il secondo: La mia lotta
con Dio. Si trattava in effetti di due componimenti di difficile lettura
e dal contenuto assai confuso. In essi il profeta, o meglio, il Dio che
parlava per suo tramite, vaticinava un prossimo straordinario
avvenimento che avrebbe provocato la fine dell'Era della grazia e
l'inizio dell'Era del diritto, in cui «il mondo sarà guidato da un solo
pastore, unito in una sola fede e cadrà ogni vincolo imposto alla
libertà di coscienza degli uomini». Questa era, che avrebbe comportato
la completa riforma della cristianità, doveva avere inizio il 14 marzo
1878 e realizzarsi cinque mesi dopo, esattamente il 14 agosto, vigilia
della festa dell'Assunzione. «Quel giorno» annunciava lo scritto di
Lazzaretti «apparirà il grande liberatore del mondo, il secondo Cristo.
Egli scenderà dai monti dell'Appennino toscano, raggiungerà Roma e tutti
i monarchi della terra si inginocchieranno davanti a lui...» Ora, già in
queste frasi un po' sconclusionate (gli opuscoli erano anche infarciti
di allusioni all'abolizione della proprietà, alla spartizione delle
terre, alla fine del regno dei papi) di affermazioni eretiche ce
n'erano persino troppe e qualcuna si rivelava di sconcertante
attualità. Per esempio: il riferimento alla caduta di ogni
vincolo «imposto alla libertà di coscienza» suonava apertamente
come una contestazione del Sillabo di Pio IX che condannava
appunto, oltre il liberalismo, il progresso e la moderna civiltà, anche
la libertà di coscienza e di stampa. A ben vedere, c'era inoltre un
attacco indiretto al recente dogma dell'infallibilità del papa che aveva
suscitato discussioni e perplessità anche in molti ambienti cattolici.
Tuttavia, ciò che soprattutto scandalizzò i giudici del Sant'Uffizio fu
l'annuncio relativo alla venuta sulla terra del «secondo Cristo». Qui,
oltre all'eresia, appariva evidente il peccato di superbia, di
presunzione diabolica. Non ci voleva molto, infatti, a capire che David,
collocando il secondo Cristo sull'Appennino toscano, alludeva a se
stesso. Come sua consuetudine, il Sant'Uffizio aveva preso in esame la
questione con molta cautela, ma anche con insolita fretta. Ai primi di
dicembre del 1877, i vescovi di Montalcino e di Montefiascone,
sollecitati da don Pistolozzi il quale, desideroso di riunificare il
proprio gregge e di rimpinguare le cassette delle elemosine, continuava
a dipingere con tinte sempre più fosche lo svilupparsi dell'eresia
nell'Amiata, avevano ordinato ai due filippini di monte Labbro di
interrompere i servizi religiosi nella Nuova Sion e di rientrare nel
convento di Gradoli. Per don Imperiuzzi e per don Polverini, quelli
erano stati giorni molto difficili. Lontani dal loro maestro, del cui
consiglio avrebbero avuto gran bisogno in quel frangente, e incerti sul
come interpretare i suoi messaggi, sempre di difficile lettura, essi
pregarono a lungo, si macerarono in digiuni e, alla fine, risposero ai
superiori che perdonassero la loro disobbedienza, ma che non se la
sentivano di abbandonare l'eremo e i fedeli del monte Labbro. In
risposta al loro atto di ribellione, il vescovo Focacetti li sospese a
divinis, mentre il vescovo Pucci Sisti dichiarò la chiesa di monte
Labbro interdetta all'esercizio delle funzioni religiose.
Frattanto, finalmente libero di lanciare anatemi contro gli
«eretici», don Pistolozzi non aveva perduto l'occasione di scatenare una
violenta campagna diffamatoria contro Lazzaretti e i lazzarettisti (che
ora preferiva chiamare «lazzaroni»). Gli davano man forte non soltanto i
ricchi possidenti dell'Amiata, ma anche i liberali, i repubblicani, i
liberi pensatori e i pochi circoli di sinistra. I primi perché
avvertivano il pericolo rappresentato dal fervoroso attivismo
comunitario dei lazzarettisti, i secondi perché incapaci di capire (e
non lo avrebbero mai capito) che quel «ritorno al medioevo», come essi
definivano il lazzarettismo, era in realtà un movimento di agitazione
sociale che, sia pure in maniera confusa e primitiva, mirava alla
creazione di una società più libera e più giusta. In ogni modo, gli
anatemi dei clericali e lo scherno dei liberali si erano rivelati
controproducenti. Come sempre accade, anche in questa occasione la
persecuzione aveva ottenuto l'opposto risultato di aumentare il numero
dei seguaci di David. In quei giorni la cappella dell'eremo di monte
Labbro fu più frequentata che mai, mentre le chiese di Arcidosso e di
tutta l'Amiata registrarono vuoti paurosi persino durante le feste
natalizie. Quando poi, ai primi di gennaio del 1878, morì Vittorio
Emanuele II, primo re d'Italia e, poche settimane dopo, Pio IX lo seguì
nella tomba, sul monte Labbro si gridò al miracolo. Il «grande
avvenimento» profetizzato pochi mesi prima da David era accaduto. Ora
stava dunque per avere inizio l'Era del diritto, un'era di cui quei
semplici montanari capivano ben poco, ma in cui comunque travasavano
tutte quelle speranze di giustizia sociale e di fratellanza umana che
sono sempre state alla base dei movimenti millenaristi. La morte di Pio
IX aveva portato confusione e scoramento negli ambienti clericali e in
tutto il mondo cattolico. Crollava definitivamente la leggenda
autorevolmente diffusa dai pulpiti che questo pontefice era destinato a
scacciare da Roma gli «usurpatori subalpini» e a ridare nuova
forza e nuova gloria alla Chiesa.
Da parte sua, David Lazzaretti, che non era un mistificatore ma un uomo
assolutamente convinto della propria missione, scorse in
quell'avvenimento il segno della volontà divina. A Lione, dove lo aveva
raggiunto la notizia, David si era autoproclamato «Gran Monarca» e aveva
promulgato una serie di Editti alle nazioni latine che, secondo lui,
avrebbero dovuto avviare la Riforma dello Spirito Santo subito dopo
l'inizio dell'Era del diritto. Dal 14 marzo 1878 in poi, diceva il primo
editto, i conclavi per l'elezione dei futuri pontefici, cominciando da
quella del successore di Pio IX, si sarebbero dovuti svolgere in
Francia, nella città di Lione. Con sconcertante sicurezza, Lazzaretti
aveva inviato i suoi editti anche a Roma, in Vaticano, dove nel
frattempo il conclave aveva già proclamato papa, col nome di Leone XIII,
il cardinale Vincenzo Gioacchino Pecci. Non sappiamo se il nuovo
pontefice abbia avuto modo di leggere questi curiosi proclami. E' certo
tuttavia che furono presi in esame dai giudici del Sant'Uffizio. Questi
infatti, allarmati forse più del dovuto (ma probabilmente si riteneva
che alle spalle di David si celasse una parte del clero francese), con
insolita solerzia si erano affrettati a convocare il sedicente profeta a
Roma per il 10 marzo. David Lazzaretti aveva scorto in questo perentorio
invito un altro segno del volere divino. Era così convinto di essere
l'«inviato del Signore» che neppure per un attimo si era affacciato
nella sua mente confusa il dubbio che a Roma lo attendesse una trappola.
A rafforzare questa sua convinzione era stata anche la data fissata per
l'incontro romano: essa cadeva esattamente quattro giorni prima di quel
14 marzo che, nelle sue visioni, Dio gli aveva indicato quale inizio
della nuova Era del diritto. «Io vado a Roma» aveva confidato al suo
credulo protettore, il giudice du Vachat «perché Dio mi ha ordinato di
portare la luce in quella che sta diventando una bottega.» Poi aveva
scritto ai suoi seguaci della Nuova Sion per annunciare loro che
sarebbe passato dall'eremo («per schiarirvi con la mia viva voce
i progetti di Dio») prima di raggiungere la città di Roma.
David partì da Lione ai primi di marzo dopo avere affidato la moglie
Carola e i figli Tarpino e Bianca alle cure della sua più attiva
sostenitrice francese, suor Marie Gregoire. Giunto a Siena la mattina
del 7 marzo, ebbe la sorpresa di incontrare alla stazione nientemeno che
don Pistolozzi. L'arciprete si finse sorpreso dell'incontro, ma
certamente mentiva. Forse era stato informato dell'arrivo di David da
qualche parrocchiano. Il fatto è che, senza perdere troppo tempo,
cominciò a prenderlo di petto rovesciandogli contro una serie di accuse
roventi e ordinandogli di non mettere piede a monte Labbro e di
proseguire invece al più presto per Roma. «Altrimenti» concluse
minacciosamente il sacerdote «ti farò rinchiudere in galera o in
manicomio.» David era abituato da anni a sentirsi dare del matto e
dell'imbroglione, e tali accuse non lo avevano mai turbato; anzi,
manifestava commiserazione verso chi gliele rivolgeva. Un tempo rissoso
e collerico, David pareva ormai incapace di uno scatto d'ira e neppure
in questa occasione perse la sua abituale serenità. «Tu non mi fermerai,
prete» si limitò a dire con la sua parlata lenta e ispirata. «Nessuno
può fermare i passi dell'inviato di Dio.» Don Pistolozzi, paonazzo di
rabbia, si fece il segno della croce nell'ascoltare quella che riteneva
una bestemmia, poi riprese a discutere, a minacciare, a supplicare e,
alla fine, convinse David a seguirlo dal vescovo di Montalcino. «Per un
chiarimento» precisò. Senza più parlare fra di loro, i due uomini
affittarono una carrozza e raggiunsero la sede vescovile. Monsignor
Pucci Sisti, però, era seriamente ammalato, così almeno aveva mandato a
dire ai due visitatori: che lo scusassero quindi se non era in grado di
riceverli. Don Pistolozzi accolse la notizia con un gesto di stizza,
David invece con totale indifferenza. «Comunichi a monsignore che
pregherò per lui» disse al famiglio del vescovo che lo osservava
incuriosito per via del suo strano abbigliamento, poi si allontanò
a piedi senza rivolgere una parola di saluto allo stizzito
arciprete. Quando, nel pomeriggio del giorno seguente, David
Lazzaretti giunse ad Arcidosso, una grande folla di seguaci,
ma anche di curiosi si radunò all'ingresso del paese per
accoglierlo. Avvolto in un ampio mantello nero che rendeva ancor più
gigantesca la sua figura (era alto un metro e novantasei centimetri),
David venne avanti maestosamente fra la sua gente distribuendo sorrisi e
benedizioni. Molte donne che si erano inginocchiate al suo passaggio
allungavano il collo per baciargli la mano. La barba lunga, i capelli
alla nazarena, il profeta indossava un maglione di lana rossa con
ricamato in oro sul petto il suo ormai famoso simbolo. In testa portava
un curioso cappello di pelle attorno al quale era avvolto un lungo velo
nero che gli ricadeva sulle spalle. A chi gli chiedeva il significato di
quel velo, rispondeva: «Porto il lutto per il nostro re».
CAPITOLO II.
IL SINEDRIO DI ROMA.
Dopo che col canto di inni sacri si concluse la suggestiva
cerimonia nel corso della quale si era rivelato ai suoi seguaci come il
secondo Cristo, David Lazzaretti si riunì con i due frati e i discepoli
più intimi nella vasta caverna naturale che si apriva sotto il luogo in
cui era stato eretto l'eremo della Nuova Sion. In questa caverna,
primitivo centro di riunione dei fedeli del profeta all'inizio della sua
predicazione, si svolse un convivio spirituale di alta drammaticità. I
presenti erano tutti molto commossi e al tempo stesso molto felici. Da
quasi tre anni non vedevano il loro maestro e ora lui era tornato per
rivelarsi figlio di Dio e per ridare forza ed entusiasmo alla loro fede
un po' appannata dalle persecuzioni di quegli ultimi mesi. David li
invitò a recitare insieme i «misteri dolorosi», essendo venerdì, poi
tolse di tasca una banconota da 10 lire, l'ultimo denaro rimastogli, e
lo consegnò all'eremita Federigo Bocchi dicendo che non poteva più
tenere con sé alcuna moneta dopo che si era compiuto il grande
avvenimento. Riprese quindi a pregare mentre fuori continuava a
imperversare la tempesta e il vento faceva rotolare dall'alto della
torre le pietre murate a secco. «Terminata la preghiera» racconterà un
testimone «David diventò pallido in faccia mentre, nel tempo stesso, la
fronte gli grondava di sudore in così grande quantità che anche la sua
barba era bagnata. Si capiva che stava soffrendo moltissimo e questo
fece piangere tutti noi che lo vedevamo.» Seguì un lungo silenzio, poi
David si rivolse direttamente a don Imperiuzzi e a don Polverini
per invitarli a continuare il loro servizio divino senza tenere
conto della sospensione decretata dal vescovo.
«Io vi dico» soggiunse «che la santa messa sarà celebrata in eterno nella
nostra chiesa di monte Labaro.» Prese quindi fra le mani una copia del
suo libro La mia lotta con Dio; ne lesse alcuni brani, poi annunciò ai
discepoli che l'indomani sarebbe partito per Roma allo scopo di
difendersi dalle accuse che venivano mosse al suo scritto. «Io dico che
il mio sangue» spiegò David «è unito al sangue di Cristo, ed essi
affermano che questa è eresia.» Poi uscì dal vago in cui era solito
avvolgere le sue affermazioni e cominciò a parlare con chiarezza e a
rispondere a tutti gli interrogativi che gli venivano posti o che vedeva
scritti negli sguardi dei presenti. Ripeté che fra il 14 marzo e il 14
agosto la società umana e la Chiesa si sarebbero finalmente rinnovate.
«Io vi dico figlioli miei» continuò David «che il trono si riunirà
all'altare, che i dissidi sociali si sopiranno fino a scomparire e che
il clero sarà finalmente purificato.» Ma tutto questo non sarebbe stato
ottenuto senza sacrifici. «Il raggiungimento della pace sociale»
annunciò «costerà lunghi e terribili sconvolgimenti che provocheranno lo
spargimento di molto, molto sangue...» Pertanto, i figli della Nuova
Sion dovevano organizzare delle legioni le quali, sotto le bandiere e il
simbolo di David e l'aiuto degli angeli di Dio, avrebbero alfine
sgominato le schiere nemiche... Mentre Imperiuzzi e Polverini, gli unici
in grado di leggere e scrivere della compagnia, prendevano frettolosi
appunti sopra dei quaderni per non perdere una parola del maestro, gli
altri, in piena estasi mistica, ascoltavano il verbo con fiducia e
devozione assoluta e senza manifestare la minima preoccupazione per il
loro futuro che, secondo le parole del profeta, non si preannunciava per
niente rassicurante. David cambiò poi argomento e prese a descrivere
molto dettagliatamente le novità di rito e di culto che la sua riforma
avrebbe comportato. «Oltre all'abolizione di ogni vincolo alla libertà
di coscienza» disse «sarà abolito anche il voto del celibato
per i sacerdoti. E non solo,» aggiunse «sarà dato a tutti sulla
terra ciò di cui hanno bisogno, e non sarà negata più a nessuno
la speranza della vita eterna. Perché io vi dico, figlioli miei,
che il diavolo è stato finalmente sconfitto, che non ci sarà
più inferno per nessuno, ma solo un più lungo purgatorio...» Fra
una preghiera e l'altra, David parlò fino all'alba illustrando nei
minimi dettagli, con la sua abituale meticolosità, le innovazioni future
della sua chiesa. Ciò che maggiormente colpì la fantasia dei presenti fu
l'annuncio che fin dall'indomani la «confessione auricolare» sarebbe
stata sostituita con la «confessione di emenda», ossia con una
confessione pubblica nel corso della quale sarebbe stata concessa
l'assoluzione a chi, sinceramente pentito, si fosse inginocchiato
davanti all'altare per chiedere perdono dei propri peccati qualunque
essi fossero e senza l'obbligo di elencarli. David tornò poi a parlare
del suo prossimo viaggio a Roma, avvenimento questo per cui tradiva una
trepida aspettazione. «Le cose che vi ho detto» annunciò ai discepoli
«io le ripeterò anche ai Giuda Iscariota di Roma che hanno tradito
Cristo per avidità dell'oro e dei godimenti terreni. A costoro io mi
rivelerò come la reincarnazione del Cristo che hanno tradito e guai a
loro se non si pentiranno in tempo, perché i terribili giorni da me
annunciati non sono lontani.» E levatosi in piedi, concluse con enfasi:
«Io andrò a Roma. Andrò alla grande città per parlare al nuovo papa e
fate conto che io vada al Calvario. Ma guai a Roma se non farà profitto
della riforma da me predicata. Io vi dico che il Leone di Roma avrà a
che fare col Leone delle montagne...». Per il resto della notte, mentre
continuava a infuriare la tempesta e i numerosi seguaci del profeta
dormivano ammucchiati nei tre edifici che costituivano la Nuova Sion,
gli uomini riuniti nella caverna pregarono in silenzio davanti alla
Madonna della Conferenza, un dipinto naif raffigurante la prima visione
divina ricevuta da David Lazzaretti dieci anni prima nell'eremo di
Montorio Romano. L'autore del quadro, il barbiere e becchino di
Arcidosso Filippo Corsini, era anche lui fra i presenti e pregava
alla destra del maestro di cui era stato il più giovane discepolo.
Nei due giorni che seguirono, sabato e domenica, l'eremo di monte
Labbro fu meta di un incessante pellegrinaggio. Da tutti i villaggi
dell'Amiata giunsero comitive di fedeli, gruppi festosi di
famiglie, giovani e vecchi, chi a piedi, chi a dorso di mulo. Sul
monte la tempesta si era placata, ma faceva molto freddo, tanto che si
era reso necessario accendere dei fuochi per riscaldare la gente che non
aveva trovato posto nella cappella o nell'eremo ed era stata costretta a
trascorrere la notte all'aperto. Questi fuochi, che illuminavano la
vetta del monte, alta più di 1200 metri sul livello del mare, erano
visibili anche da Arcidosso e davano un gran fastidio ai notabili e,
soprattutto, a don Pistolozzi, che dal pulpito della sua chiesa
semideserta continuava a inveire contro quel suo parrocchiano
squilibrato che gli aveva scompigliato il gregge. La mattina di
domenica, davanti a una turba enorme di fedeli (il delegato di pubblica
sicurezza ne contò circa tremila) ardenti di fede da far invidia non
soltanto a don Pistolozzi, ma anche al vescovo di Montalcino, David
assunse in pubblico funzioni sacerdotali. Fino a quel momento, infatti,
aveva sempre rifiutato di sostituirsi al sacerdote, come aveva sempre
rifiutato di operare miracoli. «I miracoli» diceva «servono per gli
allocchi. All'uomo deve bastare la ragione.» Dopo la messa, David parlò
alla folla. Spiegò la sua riforma e come sarebbero stati, da quel
momento, la confessione di emenda e il nuovo modo di avvicinarsi ai
sacramenti. «Bisogna innanzitutto» disse «che vi pentiate in cuor vostro
dei vostri peccati e il pentimento deve essere sincero. Dopodiché
verrete a ricevere il Signore qui davanti all'altare in modo naturale,
semplice e franco. Dovete comportarvi come fanno i bambini quando
vogliono il latte dalle loro madri. Dovete procedere senza caricature di
alcuna specie: venite composti e modesti, ma non confusi e
impacciati, e con tanta confidenza verso il nostro Padre amoroso
e benefico...» Poco dopo, tutti i presenti eseguirono con
compostezza le istruzioni ricevute e si comunicarono con sincero fervore
ricevendo il boccone di pane casareccio che, secondo un'altra
innovazione dettata da David, sostituiva da quel momento l'ostia
consacrata. Nel pomeriggio, dopo avere mangiato pane e formaggio con i
discepoli più intimi, David Lazzaretti lasciò monte Labbro per recarsi
davanti al Sant'Uffizio, che lui preferiva chiamare il «sinedrio di
Roma», con la scoperta intenzione di modellare la propria vicenda umana
su quella vissuta da Gesù. David lasciò l'eremo in stato di totale
sovreccitazione. L'invito del Sant'Uffizio lo intimoriva e lo
inorgogliva nello stesso tempo. Era la prima volta, dopo dieci anni di
predicazione, che la Chiesa di Roma sembrava essersi accorta di lui, e
si può intuire quale turbamento avesse provocato questo fatto nella sua
mente esaltata. Partì comunque sicuro e deciso a portare a termine la
sua missione. Aveva con sé, come confidò ai suoi compagni, una gemma,
una verga e un sigillo che avrebbero dovuto convincere i giudici del
«sinedrio» che lui era l'inviato del Signore, il nuovo Cristo, Duce e
Giudice. Circa questi tre oggetti consegnati da David agli inquisitori
del Sant'Uffizio, sappiamo che la gemma era una pietra di nessun valore,
il sigillo un marchio metallico raffigurante le solite due «C»
contrapposte con la croce in mezzo, e la verga un bastone formato da tre
pezzi di legno d'ulivo incastrati insieme. Centinaia di fedeli,
sovreccitati quanto lui, accompagnarono il santo David alla stazione
ferroviaria di monte Amiata. Partì con l'accelerato delle 16.15, dopo
avere promesso di far avere al più presto sue notizie. Invece, per un
mese intero non si seppe più nulla di lui. Cosa sia accaduto in quel
mese che David Lazzaretti trascorse rinchiuso nel convento dei Santi
Giovanni e paolo, situato sul Celio, e affidato ai padri
passionisti, nessuno probabilmente lo scoprirà mai con esattezza
poiché gli atti del processo (insieme alla gemma, al sigillo e
alla verga) sono tuttora custoditi gelosamente negli archivi vaticani.
Di certo sappiamo soltanto che lo smarrito montanaro attraversò allora
il momento più difficile della sua carriera di profeta. Per giorni e
giorni fu sottoposto a estenuanti penitenze e a interminabili
interrogatori. Dovette rendere conto dei suoi copiosi scritti eretici di
fronte a una severa commissione (presieduta da un assessore di cui si
conosce soltanto il cognome: Saula) che gli contestò punto per punto le
sue affermazioni e le sue «illusioni diaboliche». Oltre il processo,
David dovette anche subire un robusto lavaggio del cervello a opera di
monsignor Gaetano Carli e del francescano Gioacchino da Scai. I due
religiosi avevano una certa influenza sull'inquisito perché gli erano
stati vicini all'inizio della sua predicazione, quando ancora, in
Vaticano, si sperava di indurre il sedicente profeta a dar vita a un
movimento sanfedista e antiunitario. Dopo un mese di questo trattamento,
David Lazzaretti crollò. In preda a una profonda crisi di disperazione,
riconobbe di essere caduto in errore, chiese perdono e promise di non
mettere più piede nell'Amiata. Sarebbe tornato in Francia, alla certosa
di Lione, a far penitenza e a pregare per il resto della sua vita. David
Lazzaretti partì effettivamente per la Francia ai primi di aprile. Ma
prima di lasciarlo andare, i suoi inquisitori lo invitarono a vergare
di sua mano una lettera ai due frati apostati di monte Labbro per
indurli a rientrare nei ranghi di santa madre Chiesa. Il messaggio,
copia del quale venne inviata anche ai vescovi di Montalcino e di