Table Of ContentCAPITOLO I
ANTROPOLOGIA DELL’ERRORE
Voler parlare di errore in chiave antropologica significa interrogarsi sul perché
l’uomo, nella sua essenza, si presenti come essere fallibile, il cui comportamento è
soggetto ad errore a causa delle sue caratteristiche antropologiche. Secondo noi l’errore,
se costituisce un tratto peculiare dell’essere umano, va direttamente collegato al tema
della scelta. La riflessione su di esso, infatti, chiama in causa il rapporto tra istinto, ragione
e volontà, quindi la capacità dell’uomo di scegliere, sulla scorta non soltanto di ciò che può
immediatamente appagare i suoi desiderii ma anche in forza delle valutazioni da lui
compiute e degli obiettivi a cui tende.
Secondo l’antropologia personalistica, da noi assunta come quadro concettuale
entro il quale collocarci, l’errore non è da stimarsi soltanto in termini negativi. Esso è
legato al processo di conoscenza umana e come tale può essere impiegato per fini
formativi e promozionali. Dall’errore l’uomo non è governato; da esso può trarre indicazioni
per migliorarsi e incentivo per non più tradire la propria umanità.
1. L’uomo come essere fallibile
Secondo l’antropologia personalistica, l’uomo spicca sulla scena del mondo per la
sua forza e la sua debolezza.
Possiamo scorgere la prima nell’evidente affermazione dell’uomo sul resto del
creato, sia materiale sia vegetale sia animale. Il contesto ambiente, infatti, è stato da lui
plasmato al fine di essere reso adatto non solamente alla propria sopravvivenza, ma
anche al soddisfacimento delle sue più svariate necessità. Ne sono esempi evidenti la
bonifica delle paludi, nel primo caso, e l’alterazione di ecosistemi per edificare villaggi
turistici, nel secondo caso.
L’affermazione dell’uomo sul mondo animale si palesa nella possibilità di decidere
delle sorti di un’intera specie animale, fino addirittura alla sua estinzione, e nel fatto che
quella umana è stata l’unica ad espandersi sull’intero pianeta, imponendo così le proprie
regole ed abitudini. La debolezza, invece, la si può scorgere nel fatto che, per natura e a
livello puramente fisico, l’uomo è l’essere più debole ed indifeso di tutti. Egli manca di denti
acuminati, di artigli potenti; non è dotato di particolare forza muscolare e non sa correre
velocemente; inoltre è l’animale che per più tempo dipende direttamente dai propri
genitori.
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Soppesati entrambi gli aspetti, dobbiamo affermare che l’uomo occupa un posto di
primo piano nel creato, tanto da aver rafforzato la preminenza della propria posizione con
la creazione di strumenti, come l’arsenale atomico, che gli permettono di decidere delle
sorti dell’intero pianeta. La forza dell’uomo, se non può certamente derivare dalle
caratteristiche fisiche che lo contraddistinguono, proviene da uno strumento particolare
che, al contempo, è sconosciuto alle altre specie animali. Questo straordinario strumento è
la ragione, cioè la capacità di scorgere un nesso di causa ed effetto fra due eventi. In
opposizione, possiamo far coincidere la debolezza con l’istinto, vale a dire con la tensione
a soddisfare le pulsioni primarie senza considerare le conseguenze che tale scelta può
portare con sé. Questa concezione è già presente nei racconti mitici, nei quali vi è la
tendenza a «scindere l’uomo in “anima” e “corpo”», separazione tanto netta che il soggetto
«identificherà se stesso con la sua anima e considererà il suo corpo come altro»1.
Nell’uomo, è bene sottolinearlo, albergano entrambi questi aspetti – istinto e
ragione – , benché quest’ultima sia quello per il tramite del quale distinguiamo l’essere
umano dall’animale. Ciò non toglie che l’istinto, coincidente con la parte corporea
dell’essere, sopravviva nell’uomo e, quotidianamente, faccia sentire il proprio peso nelle
scelte anche più banali. Sulla relazione esistente fra questi due aspetti dell’essere umano
torneremo dopo esserci interrogarti sulle caratteristiche e sulla funzione sia della ragione
sia dell’istinto.
La ragione intesa nel modo più classico, vale ad dire come la capacità di rilevare
un nesso di causa ed effetto fra due eventi, è considerata come lo strumento principe per
la spiegazione degli eventi fisici; nessuno, infatti, sostiene che un qualsiasi fatto si possa
autogenerare. Esso, tutt’al più, potrà avere molteplici e complicate cause, difficilmente
rilevabili e comprensibili da parte della mente umana, ma che con il loro intreccio
generano l’evento in questione.
La ragione, però, non gioca un ruolo decisivo solo all’interno del mondo degli eventi
naturali. Essa è impiegata dall’uomo per rispondere alle domande profonde che lo
attanagliano e che spesso appaiono senza risposta. Queste domande riguardano il senso
della vita, che è visto, infatti, come il motivo per cui agire in un determinato modo o la
causa che ci convince a tenere un particolare comportamento. Se tale causa è ricercata al
di fuori di noi stessi, abbiamo la sensazione di dipendere da altre persone o, nel caso
peggiore, da contingenze esterne. Tale dipendenza non arreca al singolo una sensazione
positiva: lo fa sentire schiavo di qualcosa ed incapace di decidere della propria esistenza.
1 P. RICŒUR, Finitudine e colpa (trad. dal francese), Il Mulino, Bologna, 1960, p. 549.
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Se ci poniamo in un’altra ottica di analisi, cercando la causa di una certa modalità d’azione
dentro noi stessi, ci riappropriamo immediatamente del nostro agire, sentendoci così
artefici e padroni della nostra esistenza.
G. Corallo, al fine di identificare questo processo, introduce il termine di
autodeterminabilità, intendendola come «quel rimaneggiamento di tutto l’io compiuto
dall’atto di libertà, per cui l’io diventa il fondamento per una relazione possibile (e anzi
necessaria) con una certa categoria di oggetto, cioè con l’aspetto morale o edonistico»2. È
la persona, in prima istanza, che decide del proprio essere, ponendo nell’azione una
intenzione; questa va intesa secondo il suo significato etimologico, vale a dire come
tensione verso una meta da raggiungere. Questa meta, rappresentata non
necessariamente da un oggetto materiale ma anche da un’idea, diviene, come già
accennato, obiettivo che stimola l’agire e che, perciò, ne rappresenta anche la causa. Se
procediamo sulla via intrapresa possiamo giungere a definire intenzionale un’azione «nella
misura in cui la domanda perché? richiede come risposta non una causa fisica, ma un
motivo psicologico, più esattamente una ragione per la quale l’azione è fatta»3.
La ragione costituisce una dimensione fondamentale per definire un’azione come
umana e personale, dato che la slega dal caso o dai bisogni prettamente fisiologici per
elevarla ad una dimensione più alta, indipendente dalle banali, caduche ed effimere
motivazione che contraddistinguono il momento vissuto. Un’azione, di conseguenza, può
essere considerata razionale nel momento in cui è «capace di motivazione, di norma e di
senso»4.
A questo punto del discorso, al fine di affrontarlo in modo completo, dobbiamo
obbligatoriamente introdurre un nuovo termine, la volontà. La tensione verso una meta,
infatti, manifesta la propria forza attrattiva in modo naturale, ma si giunge all’atto tendente
al raggiungimento di tale meta solamente se la persona si dispone a quello specifico
movimento: serve l’assenso personale all’attrazione. Ciò non significa che possiamo o
dobbiamo dare l’assenso a qualsiasi cosa ci attragga; all’opposto, proprio la ragione fa da
vaglio critico dell’oggetto nei confronti del quale proviamo attrazione. Per il tramite di
questo passaggio possiamo comprendere come «gli atti volontari (…) non sono mai
indifferenti, ma sempre motivati»5.
2 G. CORALLO, Educazione e libertà. Presupposti filosofici per una pedagogia della libertà, S.E.I., Torino, 1951, p.
188.
3 P. RICŒUR, La persona (trad. dal francese), Morcelliana, Brescia, 1997, p. 58.
4 W. FLITNER, J. DERBOLAV, Problemi di etica pedagogica (trad. dal tedesco), La Scuola, Brescia, 1988, p. 48.
5 G. CORALLO, Pedagogia. L’educazione. Problemi di pedagogia generale, Vol. I, S.E.I., Torino, 1965, p. 227.
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Non dobbiamo cadere nel rischio di elevare questo motivo, vale a dire il libero
assenso, ad unica e fondamentale ragione di un’azione. Non dobbiamo credere che il
tema della libertà non si possa sposare con quello della motivazione. Infatti, «l’atto libero
deve essere un’azione motivata, e cioè razionale, con un motivo però che non la
determini, e che quindi non le tolga l’aspetto d’originalità, di principalità di creazione»6.
Non pochi sono i risvolti pedagogici che queste considerazioni ci spingono a fare.
La difficoltà di avvalorare sia la razionalità, centrata sul rapporto causa ed effetto, sia la
libertà, basata su una relazione svincolata da nessi necessari, può creare ostacoli
apparentemente difficili da superare. Le due vie rilevate, infatti, appaiono divergenti,
fondate su logiche opposte. Si rende necessaria una ridefinizione dei termini in questione,
affinché possano coesistere in modo proficuo e si possa giungere a parlare di educazione
alla razionalità, allo scopo che essa «si chiarisca come libertà, come libertà genuina della
volontà, e non come pura spontaneità né come puro fatto intellettuale che non può mai
oltrepassare la soglia del determinismo»7. A tale idea vanno aggiunte la riflessioni di N.
Galli, il quale vede «la libertà, in sede pedagogica, come una qualità positiva, tendente,
attraverso la propria determinazione, al bene»8. Solo così potremo tentare di comprendere
il comportamento umano, capendo cosa possiamo definire responsabilità del singolo e
cosa condizionamento esterno, nella convinzione che l’origine del comportamento, nota P.
Bertolini, «non è mai causale in senso oggettivistico/naturalistico, ma motivazionale e
dunque legata all’ambito delle intenzioni che appunto muovono l’individuo o il gruppo»9.
Con le poche osservazioni svolte abbiamo tentato di identificare i motivi per i quali
la ragione è vista come il lato forte dell’essere umano; quelli tuttavia non devono indurre
alla convinzione che questa sia uno strumento infallibile di conoscenza ed azione. Se
possiamo affermare che la mente, o ragione, è impegnata costantemente nelle attività di
«conoscere e pensare»10, dobbiamo altresì sostenere che la scienza «cammina (e proprio
per questo progredisce) su un terreno impervio e lacunoso»11. Tutto ciò comporta la
consapevolezza che il risultato di un ragionamento non può essere considerato esente da
dubbi ed errori, né tanto meno si può pretendere che venga condiviso da ogni singolo
individuo.
6 Ibidem, p. 200.
7 Ibidem, p. 181.
8 N. GALLI, Educazione familiare e società, La Scuola, Brescia, 1965, p. 467.
9 P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente
fondata, La Nuova Italia, Scandicci (FI), 1988, p. 167.
10 L. MORTARI, Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Firenze, 2002, p. 49.
11 G. MANCA, “Le possibilità pedagogiche dell’errore”, in Pedagogia e Vita, 1996, 2, p. 67.
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L’istinto, come detto, è identificato con il lato debole dell’uomo, proprio perché lo
riconduce alla sua parte carnale, soggetta ad alta instabilità. Ciò richiede che si dia
immediata soddisfazione ai bisogni primari, prescindendo dalla domanda se tale
soddisfacimento sia corretto ed accettabile. Se ci limitassimo a considerare soltanto
questo lato dell’uomo, lo ridurremmo a cosa fra le cose o, ancora più realisticamente, ad
una delle cose più deboli ed insignificanti del creato. La parte carnale dell’essere umano,
però, rappresenta la base fondamentale per lo sviluppo di quella spirituale; offre alla
persona prime e semplici esperienze che avviano il processo di scoperta e di conoscenza.
Proprio per questo è necessario «riconoscere al proprio corpo tutta la sua importanza
funzionale nella costituzione della personalità»12. Possiamo aggiungere che l’istinto non
riguarda solamente il lato fisico dell’essere umano ma, in un certo senso, anche quello
mentale. Possiamo, infatti, considerare la conoscenza intuitiva di un concetto come un atto
istintuale nei confronti di qualcosa di astratto, non più concreto e tangibile. La tesi appena
esposta, e che tra poco spiegheremo in dettaglio, necessita di alcune preliminari
specificazioni. La considerazione di istinto ed intuizione come strumenti che utilizzano la
stessa logica non vuole assolutamente esprimere la loro coincidenza. Infatti, l’istinto è
caratteristico di ogni essere vivente, l’intuizione solamente dell’uomo e, in rari casi, degli
animali più evoluti. Quello che vogliamo sottolineare, pertanto, dato che più di ogni altra
cosa interessa il nostro lavoro, è l’identico modo attraverso il quale questi due strumenti
generano conoscenza, in considerazione del fatto che la ragione segue una modalità di
ricerca differente. Inoltre, è d’uopo ricordare che ogni classificazione segue principii propri,
che il ricercatore applica agli oggetti in esame. Quello da noi considerato non è centrato
sulla coincidenza degli oggetti ma sulla loro modalità di impiego.
A sostegno della nostra posizione corre in soccorso un’autorevole autore, H.
Bergson. Il filosofo francese definisce come fondamentali gli strumenti dell’istinto e
dell’intelligenza, classificando quello come «la facoltà di utilizzare e anche di costruire
strumenti organici» e questa come «la facoltà di fabbricare e di impiegare strumenti
inorganici»13. Pertanto, definiamo istinto la capacità di utilizzare al meglio gli strumenti che
la natura ha fornito ad ogni essere, come l’abilità dei camaleonti di mutare colore per
rendersi invisibile sia ai predatori sia alle prede; intelligenza la costruzione di arco e frecce
per facilitare la cattura di animali, sopperendo alla scarsa efficienza che contraddistingue
la dotazione fisica naturale dell’uomo. Il primo, pertanto, è contraddistinto da una
12 P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente
fondata, op. cit., p. 137.
13 H. BERGSON, L’evoluzione creatrice (trad. dal francese), Mondadori, Milano, 1935, p. 177.
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conoscenza che sorge spontaneamente, che non necessita di spiegazioni o tentativi per
apprendere l’utilizzo dello strumento a disposizione; insomma, «la conoscenza dell’istinto,
virtuale o incosciente che sia, è pur sempre una conoscenza innata e diretta dell’oggetto a
cui si applica»14. La seconda, invece, si sviluppa tramite passaggi logici sequenziali e
necessari, nel tentativo di rilevare rapporti che connettono gli oggetti in analisi; pertanto,
«c’è intelligenza dovunque c’è inferenza, (…) che consiste nell’inflettere l’esperienza
passata nel senso dell'esperienza presente»15. Insomma, a ragion veduta possiamo
affermare che «mentre l’istinto possiede l’innata capacità di cogliere le cose, l’intelligenza
ha un’innata propensione a conoscere i rapporti tra le cose»16. Da quanto osservato è
facilmente deducibile il fatto che l’istinto si palesa come sapere certo e completo, dato che
si rivolge all’oggetto nella sua interezza; l’intelligenza, invece, è una conoscenza parziale
perché ricerca una relazione fra le componenti degli oggetti o fra gli oggetti stessi. Inoltre,
l’intelligenza pone nella cosa in analisi delle categorie da essa stessa create, ma che non
sono inscritte nella natura dell’oggetto; infatti, «la storia della filosofia ci mostra l’eterno
conflitto dei sistemi, l’impossibilità di fare entrare definitivamente il reale in questi abiti
confezionati che sono i nostri concetti bell’e fatti»17. Tale situazione ci induce a
considerare l’istinto una fonte migliore di conoscenza, in virtù del fatto che ci mette in
rapporto diretto con l’oggetto, di cui otteniamo una visione veritiera e completa; la
conoscenza dell’istinto, «però, afferra la cosa, implica cioè una materia, un oggetto, il ciò
che è dato allo stato bruto. L’intelligenza, il cui raggio d’azione ha un’estensione
universale, non afferra le cose ma tende a stabilire i rapporti tra le cose»18. La virtù
dell’istinto risiede nella perfezione della sua attività conoscitiva; il vizio nella limitatezza di
tale attività e nel suo legame con ciò che è concreto. All’esatto opposto, il vizio
dell’intelligenza coincide con la superficialità del suo sapere e la virtù con l’universale
applicabilità del suo procedimento.
A questo punto possiamo riflettere sull’intuizione. Secondo Bergson quando
all’istinto, che offre conoscenza riguardo a ciò che è concreto, si unisce un’attenta
riflessione sull’oggetto in analisi, tramite lo strumento dell’intelligenza, si può generare
l’intuizione, definibile come «la funzione metafisica del pensiero, l’organo della filosofia, il
14 M. PERRINI, L’esperienza metafisica. Saggio sull’itinerario filosofico di Bergson, in H. BERGSON, Le due fonti
della morale e della religione (trad. dal francese), La Scuola, Brescia, 1996, p. 57.
15 H. BERGSON, L’evoluzione creatrice, op. cit., p. 40.
16 A. PESSINA, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 48.
17 H. BERGSON, La filosofia dell’intuizione (trad. dal francese), R. Carabba Editore, Lanciano, 1913, p. 96.
18 M. PERRINI, L’esperienza metafisica. Saggio sull’itinerario filosofico di Bergson, op. cit., p. 59.
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cui oggetto specifico è lo spirito»19; è per questo che, secondo il filosofo francese, esiste
«un’affinità tra il corpo e lo spirito»20: a prescindere dal primo non potremmo mai giungere
al secondo. Poco sopra abbiamo detto che l’intuizione si può generare, ma non ve n’è
certezza. Essa, infatti, richiede uno sforzo d’analisi particolare ed una predisposizione
mentale specifica per tale atto. Nonostante la necessità di un previo studio della
situazione, non dobbiamo pensare che l’intuizione sia un passaggio logico. Tale studio,
infatti, serve, più che altro, a prendere specifica coscienza di ciò che è usualmente
considerato valido. L’intuizione, infatti, «dinanzi a idee che sono correntemente accettate,
a tesi che sembrano evidenti, ad affermazioni che fino a quel momento erano passate per
scientifiche, essa soffia all’orecchio del filosofo la parola: impossibile»21. È questa l’unica
via tramite la quale passare dalla conoscenza dei fatti a quella dei principii, che è
conoscenza dell’assoluto, «perfetto nel senso che è perfettamente ciò che è»22. Questa
nuova tipologia di sapere richiede la coincidenza del soggetto con l’oggetto, che così viene
conosciuto nella sua interezza, estremamente più significativa della conoscenza delle
singole parti che lo compongono e che vengono connesse dalle strutture tipiche della
mente umana. Ecco che l’intuizione, come l’istinto, è un sapere spontaneo, slegato da
premesse necessarie. Se, però, questo ci permette di conoscere l’aspetto concreto di un
ente, quello esteriore e superficiale, «nell’intimo stesso della vita potrebbe condurci,
invece, l’intuizione, cioè l’istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di
riflettere sul proprio oggetto e di ampliarlo indefinitamente»23. Entrambi questi strumenti
conoscitivi, pertanto, si attuano secondo lo stesso criterio, evidentemente differente dalla
logica inferenziale. Per questo possiamo affermare che «l’istinto procede per intuizione: si
attua come sforzo di simpatia divinatrice, che tende a trasferirsi nell’intimo stesso del suo
proprio oggetto»24; ma potremmo tranquillamente affermare l’inverso, cioè che l’intuizione
procede per istinto, dato che, in ogni caso, seguono la stessa logica.
Un interrogativo a questo punto sorgere spontaneo: come mai animali dotati di
istinto mancano di intuizione? Il motivo l’abbiamo già accennato, ma è bene metterlo
nuovamente in risalto. Nonostante istinto e intuizione lavorino grazie allo stesso
meccanismo, essi non sono la stessa cosa, dato che hanno per obiettivo oggetti
completamente opposti. L’intelligenza è necessaria per passare dall’istinto all’intuizione,
19 P. SERENI, Introduzione, in H. BERGSON, L’evoluzione creatrice, op. cit., p. 174.
20 A. PESSINA, Il pensiero, in A. MASSARENTI (a cura di), Bergson, Il Sole 24 ORE, Milano, 2006.
21 M. PERRINI, L’esperienza metafisica. Saggio sull’itinerario filosofico di Bergson, op. cit., p. 63.
22 H. BERGSON, Introduzione alla metafisica (trad. dal francese), Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 45.
23 H. BERGSON, L’evoluzione creatrice, op. cit., p. 195.
24 P. SERENI, Introduzione, op. cit., pp. 34-35.
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così gli esseri non dotati di quest’ultima non potranno accedere all’intuizione. L’intuizione è
la forma più completa di conoscenza, «ma se (…) l’intuizione sorpasserà l’intelligenza,
dall’intelligenza avrà ricevuto, tuttavia, l’impulso iniziale. Senza l’intelligenza, essa sarebbe
rimasta inchiodata, sotto forma di istinto, all’oggetto che la interessa praticamente»25.
L’intelligenza è la chiave di volta, il trampolino che permette il salto dall’istinto all’intuizione,
ma non incide sulla struttura di quegli strumenti, non trasforma la logica del primo in
qualcosa di diverso ed adatto alla seconda. La logica di istinto ed intuizione si mantiene
stabile, cambiano solo gli oggetti con i quali si rapporta. Pertanto, fondamentalmente in
accordo con quanto sostenuto da Bergson e ponendoci nell’ottica di una classificazione
degli strumenti conoscitivi sulla base della loro modalità di funzionamento, possiamo
tranquillamente unire istinto e intuizione, opponendoli all’intelligenza, oppure alla logica
inferenziale o ragione. D’ora in avanti, perciò, parleremo di istinto intendendolo come la
capacità di collegare due cose fra le quali non esiste, o non ci è ancora chiaro, un nesso
diretto di causa ed effetto. Tale fatto non sta a significare che fra gli oggetti in questione
non esiste alcun rapporto, ma che quello presente può essere differente dalla classica
relazione logica che siamo soliti ricercare. Questo fattore, però, incide pesantemente sulla
possibilità della «prevedibilità dell’effetto»26, aspetto determinante se consideriamo gli
eventi come soggetti al nesso di motivo e conseguenza, nonostante la molteplicità e
complicazione delle relazioni esistenti fra le variabili in gioco. Tutto ciò fa sì che l’agire
concreto di un individuo rimanga fondamentalmente un mistero, dato che «nessuno
schema rende mai conto delle infinite combinazioni che in ogni psichismo individuale
alimentano, senza mai esaurirlo, l’inaccessibile segreto interiore»27.
Tra ragione ed istinto, considerata la forte divergenza derivante dall’opposta natura
dei due, si crea una naturale tensione che arreca nella persona dubbio, ansia ed angoscia.
Non sono rare, infatti, le occasioni in cui ci si trova istintivamente propensi verso
un’opzione, mentre la ragione si orienta nell’esatta ed opposta direzione. Questo stato di
instabilità ed irrequietezza non va considerato come una dimensione negativa da
augurarsi di non dovere affrontare. Esso, all’opposto, ci rende coscienti della nostra vera
dimensione di uomini, costretti, proprio perché tali, a dover rendere conto ad entrambi gli
aspetti che ci contraddistinguono. La tensione, perciò, è indicatore del nostro essere
presenti nel mondo in modo attivo e responsabile, coscienti che la realtà si struttura come
complesso sistema aperto, il quale «si mantiene in uno stato continuo di flusso verso
25 H. BERGSON, L’evoluzione creatrice, op. cit., p. 198.
26 H. ARENDT, Tra passato e futuro (trad. dal inglese), Garzanti, Milano, 1999, p. 194.
27 E. MOUNIER, Trattato del carattere (trad. dal francese), Edizioni Paoline, Alba (CN), 1957, p. 57.
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l’interno e verso l’esterno, di costruzione mediante componenti e di disgregazione di tale
costruzione, senza mai trovarsi, per tutto il tempo in cui vive, in uno stato di equilibrio
chimico e termodinamico, ma conservandosi in un cosiddetto stato stazionario ben distinto
da uno stato di equilibrio»28. Ciò comporta che ogni traguardo raggiunto non è mai quello
definitivo; da esso si deve essere sempre in grado di ripartire per ritrovare una nuova,
anche se necessariamente momentanea, stabilità. La chiave indispensabile per poter
leggere il mistero uomo, pertanto, è «l’assunzione della metacategoria della
complessità»29, partendo dalla comprensione e dalla convinzione che egli, essendo
«sostanza corporeo-spirituale (…) partecipa insieme al mondo della natura materiale e al
mondo dello spirituale»30.
La tesi or ora richiamata è sostenuta da molteplici pensatori di formazione
personalistica. Fra tutti spicca E. Mounier. L’autore francese considera talmente labile il
confine fra le due componenti dell’essere umano, da reputare «difficilissima la distinzione
assoluta d’un “interno” o d’un “esterno”»31. Anche R. Guardini pone l’accento sul fatto che
un uomo può essere definito persona quando «vive nell’unità di tutte le strutture e di tutti i
processi della natura concreta»32. Possiamo affermare che, per i suddetti autori, l’uomo
non è solamente un organismo fisico con stimoli e reazioni, come neppure soltanto un
essere psichico senza corpo. L’uomo, differentemente, è un organismo vivente unitario nel
quale sussistono contemporaneamente sia la sostanza spirituale sia quella fisica. Tale
posizione sottolinea la strettissima interconnessione fra i termini in gioco, che si fondono a
tal punto da poter essere difficilmente distinti, così da creare una nuova entità con una
propria specifica identità. Queste considerazioni comportano non poche conseguenze a
livello pedagogico-educativo; basti pensare alla sempre dibattuta questione concernente il
ruolo della scuola nei confronti degli alunni: puramente d’istruzione (pertanto rivolta
all’acquisizione di un sapere spendibile sul piano pratico) o anche d’educazione (cioè
mirante alla crescita relazionale e morale)? A ciò si aggiunge, sempre all’interno dello
stesso ambito, la domanda riguardante l’insegnamento o meno della religione e, in caso
affermativo, secondo quale forma. L’educazione dovrà tener conto di questa duplicità
dell’essere umano, così da avvalorare entrambi gli aspetti, concependo l’educazione come
«promozione della personalità in direzione della cultura, mediante il concorso e l’esercizio
28 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni (trad. dall’inglese),
Istituto Libraio Internazionale, Milano, 1968, p. 75.
29 G. ACONE, Antropologia dell’educazione, La Scuola, Brescia, 1997, p. 71.
30 P. BRAIDO, Filosofia dell’educazione, Pas-Verlag, Zürich, 1967, p. 65.
31 E. MOUNIER, Trattato del carattere, op. cit., p. 104.
32 R. GUARDINI, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia, 1987, p. 190.
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della libertà e della razionalità dell’educando»33. Gli interventi educativi dovranno saper
intrecciare in modo corretto e bilanciato le attività atte ad implementare sia le capacità
razionali sia quelle pratiche. Un’attenta educazione, che mira ad una visione globale
dell’individuo, è chiamata a sviluppare nella persona sia abiti sia abitudini; «i primi hanno
una profonda consistenza nell’individuo in quanto ineriscono nelle facoltà spirituali o in
facoltà appetitive sensibili riducibili al dominio della ragione. Le abitudini, invece,
ineriscono in facoltà del mondo sensibile o addirittura biologico»34.
L’identificazione della personalità secondo l’intreccio delle due strutture identificate
non ci deve condurre a semplici e banali schematizzazioni. La persona, come accennato,
essendo dotata di una componente completamente slegata da un qualsiasi tipo di logica
sequenziale, fa sì che esista «spesso un’incongruenza fra modello e realtà. Esistono dei
modelli matematici ad alto livello di elaborazione e di raffinatezza, ma si è in dubbio sul
come li si possa applicare ai casi concreti»35. Questo nodo di discussione è cruciale in
ambito pedagogico. Se l’educazione è considerata come un’attività che non si può
esimere dal porsi domande di senso, è altrettanto vero che fa ciò al fine di fondare,
rendere valido ed efficace l’atto educativo, che si presenta come l’obiettivo necessario
della speculazione teoretica. Questa idea ci conduce a ritenere che, in ambito pedagogico,
«la nostra ricerca è guidata dal problema non tanto dell’essenza astratta della persona,
ma dell’uomo concreto personalmente esistente»36.
Se poniamo come fine educativo la formazione della persona nella sua integralità,
nel suo essere ragione ed istinto, si rende necessario fare i conti con ostacoli che
inevitabilmente incontriamo sulla strada della perfettibilità. Innanzitutto, dobbiamo pensare
che le variabili intervenienti nell’atto educativo, oltre ad essere particolarmente numerose,
hanno le più svariate origini, difficilmente conoscibili ed influenzabili. Quando si discute di
educazione «non si considera spesso il fatto che le condizioni, dalle quali dipende poi la
realizzazione di questa, risultano raramente del tutto note e, nel migliore dei casi, sono
limitatamente influenzabili da parte dell’educatore»37. In secondo luogo, va rilevato che
oltre alle variabili esterne alla persona, ve ne sono altre interne ad essa che limitano la
programmazione, la previsione e la realizzazione del processo educativo. Ciò deriva dal
33 G. CATALFAMO, Personalismo pedagogico: prospettive, Armando Armando, Roma, 1958, p. 14.
34 P. BRAIDO, Filosofia dell’educazione, op. cit., p. 84.
35 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, op. cit., p. 52.
36 R. GUARDINI, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, op. cit., p. 170.
37 W. BREZINKA, Morale ed educazione. Per una filosofia normativa dell’educazione (trad. dal tedesco), Armando,
Roma, 1994, p. 19.
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