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In Francia questo genere si chiama vulgarisation, ma le implicazioni del termine sono del
tutto positive. In America lo chiamiamo popular (o pop) writing, e coloro che lo praticano
vengono detti science writers, anche quando, come me, sono scienziati che cercano di rendere
partecipi della ricchezza e bellezza del loro campo di studio persone che si occupano di altre
cose.
In Francia (e in tutt'Europa) la divulgazione figura fra le massime tradizioni
dell'umanesimo e gode anche di un antico lignaggio: da san Francesco che parlava con gli
animali a Galileo che decise di scrivere le sue due massime opere in volgare sotto forma di
dialoghi, e non nel latino formale delle chiese e delle università. In America, per ragioni che non
capisco (e che sono davvero perverse), le opere di divulgazione sono considerate con disprezzo,
come forme di "adulterazione", di "semplificazione", di "desiderio di far colpo", come "fuochi
d'artificio". Io non nego che queste espressioni possano applicarsi a molti autori; ma le opere mal
riuscite e ispirate da basse motivazioni di profitto non possono invalidare un genere. I romanzi
rosa non impediscono che l'amore possa essere un argomento valido per grandi romanzieri.
Io deploro profondamente l'equazione di divulgazione con un discorso inferiore e con una
forma di degradazione della verità, per due ragioni principali. Innanzitutto, un tale giudizio
rischia di esporre a un giudizio negativo scienziati (specialmente scienziati giovani che non
hanno una cattedra), che potrebbero volersi cimentare in questo genere aperto a un contatto con
un grande pubblico. In secondo luogo, esso arreca un danno all'intelligenza di milioni di persone
desiderose di qualche forma di stimolazione intellettuale che non sia impartita con paternalistica
condiscendenza. Se gli autori di libri di scienza adottano un atteggiamento di altezzosa
superiorità, non solo manifestano una forma di disprezzo verso il prossimo, ma contribuiscono a
spegnere la luce dell'intelligenza. Il profano "acuto e intelligente" non è un mito. Queste persone
sono milioni: forse sono poche in percentuale, ma il loro numero assoluto è elevato e la loro
influenza è molto superiore alla loro proporzione nella popolazione. Io lo so nella forma più
diretta possibile: attraverso le migliaia di lettere che ho ricevuto da profani nei vent'anni in cui ho
scritto questi saggi, e in particolare dal gran numero di lettere di persone in età avanzata -
ultraottantenni e anche ultranovantenni - i quali si sforzano ancora, con la massima intensità, di
capire la ricchezza della natura e di accrescere la comprensione acquisita nel corso della loro
lunga vita.
Noi tutti dobbiamo impegnarci a recuperare la divulgazione della scienza come una
tradizione intellettuale onorevole. Le regole sono semplici: non si deve mai rinunciare alla
ricchezza intellettuale né si deve fare alcuna concessione all'ambiguità o all'ignoranza; si deve
ovviamente evitare il più possibile l'uso del gergo scientifico sforzandosi però sempre di
esprimere le idee nel modo più completo (qualsiasi complessità concettuale può essere espressa
nel linguaggio comune). Oggi in America ci sono vari autori che si cimentano in questo tipo di
pubblicazione, e chi è bravo ha successo. Il nostro compito primario consiste perciò nell'avere
rapporti chiari col pubblico: dobbiamo impegnarci al massimo per far capire al pubblico che cosa
siamo e che cosa non siamo, dobbiamo essere inflessibili nel richiamarci alla tradizione
umanistica che risale fino a san Francesco e a Galileo e non alle ideologie anti-intellettualistiche
che formano un'altra grande tradizione americana (le quali si appellano spesso a emozioni
irrazionali che possono favorire rigurgiti di fascismo).
La storia naturale umanistica si presenta in due distinte genealogie fondamentali: alla luce
di quanto ho già detto, io le chiamo francescana e galileiana. Lo stile francescano è poesia della
natura: un'esaltazione della bellezza organica attraverso una scelta corrispondente di parole e
frasi. La sua genealogia va da san Francesco a Thoreau sul laghetto di Walden, a W. H. Hudson
sulle colline inglesi, per arrivare, nella nostra generazione, fino a Loren Eiseley. L'atteggiamento
mentale di Galileo trae invece piacere dagli enigmi intellettuali della natura e dalla ricerca della
spiegazione e della comprensione. I galileiani non negano la bellezza viscerale, ma traggono un
piacere maggiore dalla gioia della comprensione causale e dal suo potente tema dell'unificazione.
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La genealogia galileiana (o razionalistica) ha radici molto più antiche del suo eponimo: essa va
da Aristotele, che sezionava calamari, a Galileo che sconvolse il cielo, a Thomas H. Huxley che
assegnò un nuovo posto all'uomo nella natura, a Peter B. Medawar (1915-1987), che ha
denunciato le follie della nostra generazione.
A me piace il modo di scrivere dei "francescani", ma mi considero un fervente, impenitente
galileiano puro, per due ragioni principali. Innanzitutto, sarebbe per me imbarazzante cadere nel
genere francescano. Il modo di scrivere poetico è il più pericoloso di tutti i generi perché gli
insuccessi sono vistosi, costituendo di solito la forma più ridicola di prosa fiorita. Ognuno
dovrebbe fare il suo mestiere, e i razionalisti dovrebbero attenersi al loro stile misurato. In
secondo luogo, aveva ragione Wordsworth. Il bambino è il padre dell'uomo. Lo splendor in the
grass della mia infanzia furono la confusione e gli edifici di New York. Le cose che mi hanno
dato più gioia nella mia vita adulta sono state passeggiate in città, in mezzo a una sorprendente
varietà di comportamenti umani e di architetture - dal Quirinale a Piazza Navona all'imbrunire,
dalla New Town georgiana alla Old Town medievale di Edimburgo all'alba - più che escursioni
nei boschi. Io non sono insensibile alla bellezza della natura, ma le mie gioie emotive si fondano
particolarmente sulle opere improbabili e nondimeno talvolta mirabili di quel minuscolo e
accidentale ramoscello dell'albero dell'evoluzione chiamato Homo sapiens. E fra queste opere
non trovo niente di più nobile della storia dei nostri sforzi per capire la natura: un'entità maestosa
di una tale vastità spaziale e temporale da non potersi curare di un piccolo ripensamento
mammaliano associato a una curiosa invenzione dell'evoluzione, anche se, per la prima volta in
circa quattro miliardi di anni di vita sulla terra, quest'invenzione ha prodotto la ricorsione, grazie
alla quale un organismo ha la capacità di riflettere sulla sua origine e sulla sua evoluzione. Io
amo perciò la natura primariamente per i rompicapo e i piaceri intellettuali che offre al primo
organo capace di una tale curiosa contemplazione.
I francescani possono ricercare un'unità poetica con la natura, ma anche noi razionalisti
galileiani abbiamo un programma di unificazione: la natura ha prodotto la mente, e la mente le
restituisce ora il favore cercando di comprendere l'entità che l'ha prodotta.
Questa è la quinta raccolta di saggi editi nella mia rubrica "This View of Life" nella rivista
"Natural History" (nel corso di diciotto anni ho pubblicato circa duecento saggi): i volumi
precedenti sono, nell'ordine, Ever Since Darwin (Questa idea della vita), The Panda's Thumb (Il
pollice del panda), Hen's Teeth and Horse's Toes (Quando i cavalli avevano le dita) e
Flamingo's Smile (Il sorriso del fenicottero). I temi possono essere familiari al lettore (ma,
confido, con un bel po' di novità), ma gli argomenti sono per lo più nuovi (e Dio non ha mai
smesso di vivere nei particolari).
Contro una possibile accusa di ridondanza, posso avanzare l'immodesta asserzione che
questo volume è il migliore dei cinque. Io penso di aver fatto progressi come scrittore attraverso
l'abitudine di scrivere un saggio al mese (a volte vorrei che tutte le copie di Ever Since Darwin si
autodistruggessero), e in questo volume mi sono concesso più ampie facoltà di selezione e di
scelta. (Mentre nella formazione dei volumi precedenti avevo raccolto la quasi totalità dei saggi
pubblicati nella rivista in tre anni, lasciandone fuori solo un o due, in questo volume, che attinge
da sei anni di attività, presento solo i pezzi migliori, o piuttosto quelli più in tema, lasciando
fuori quasi il quaranta per cento della mia produzione.)
Questi saggi, pur essendo incentrati sui temi sempiterni dell'evoluzione e delle
innumerevoli, istruttive stranezze della natura, come le gigantesche uova del kiwi, registrano
anche il distacco dei sei anni trascorsi dal quarto volume. Ho registrato anche, come dovevo, il
nostro attuale stato di disagio e i nostri insuccessi: la situazione deplorevole dell'istruzione
scientifica (considerata, com'è mia abitudine, non in modo astratto e tendenzioso, ma attraverso
esempi e divagazioni che permettono di elevarsi quasi di soppiatto a generalità: fox-terrier e
copiatura meccanica di libri di testo, o la possibilità di sfruttare la passione per i dinosauri a
beneficio dell'istruzione) e un mesto epilogo sull'estinzione, avvenuta fra la pubblicazione su
rivista e quella in questo libro, della rana che covava le uova nello stomaco.
Devo però confessare che gli articoli che preferisco sono di solito quelli che trattano di
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argomenti più immediati, e persino oscuri, specialmente quando la correzione di errori che li
condannavano al ridicolo o all'oscurità permette oggi di riraccontare tali storie come pertinenti e
istuttive. Così mi occupo della teoria di Abbott Thayer che i fenicotteri sono rossi per
mimetizzarsi contro i predatori al tramonto del sole, e indago su quale sia stata la reale
intenzione di Petrus Camper (criteri artistici) nel fissare una misura che sarebbe stata usata in
seguito da scienziati razzisti, e tento di ricostruire la storia vera (e molto più interessante) che si
cela dietro la stereotipa versione eroica della controversia fra Huxley e Wilberforce nel 1860.
Alcuni hanno visto in me un enciclopedico, ma io insisto nel dire che non so far altro che il
mio mestiere. Ammetto di fare uso di una vasta gamma di dettagli di vario genere, ma essi sono
stati tutti scelti in funzione dell'obiettivo di illustrare gli argomenti usuali del mutamento
evolutivo e della natura della storia. E spero che questo obiettivo limitato possa garantire
coerenza e unità a una varietà dichiaratamente disparata di argomenti. La pallottola che colpì al
sedere George Canning mi offre in realtà un modo per discutere quella stessa contingenza storica
che governa l'evoluzione. Il racconto della nostalgia da me provata nell'assistere, a trent'anni di
distanza dal mio conseguimento della maturità, al saggio di fine anno scolastico del coro della
scuola superiore, vuol essere una formulazione generale (agrodolce, nella sua incapacità di
risolvere una dicotomia fondamentale) sulla natura dell'eccellenza. Un altro sugli inizi del
baseball esplora l'opposizione creazione-evoluzione come storie primarie per l'origine di ogni
oggetto o istituzione.
Un pensiero finale a francescani e galileiani alla luce delle nostre preoccupazioni
ambientali, mentre un pianeta devastato si avvicina al millennio (nella cronologia umana,
giacché la natura, contando in miliardi di anni, può solo ridacchiare). I francescani partecipano
della gloria della natura per comunione diretta; eppure la natura è sommamente indifferente a noi
e alle nostre sofferenze. Forse la sua vera gloria sta proprio in questa indifferenza, in questa
maestà di una durata che si è estesa su miliardi di anni senza alcun corso predeterminato (prima
che noi facessimo la nostra tardiva apparizione). Una quartina di Omar Khayyam colse questa
verità fondamentale (anche se egli avrebbe dovuto descrivere il suo albergo orientale, la sua
metafora per la Terra, come grandioso anziché come frusto):
Tu pensa come, in questo frusto caravanserraglio
Le cui porte si aprono e chiudono ogni giorno e ogni notte,
Sultano dopo sultano, con tutta la sua pompa
Attese il suo tempo prescritto, e poi se ne andò via.
La vera bellezza della natura è la sua grandezza; essa non esiste né per noi né a causa
nostra, e possiede un potere di sopravvivenza che i nostri arsenali non possono minacciare
(mentre noi possiamo facilmente distruggere le nostre meschine esistenze).
Quell'hybris che fu la causa principale dei nostri guai, e che gli ambientalisti cercano a tutti
i costi di evitare, fino a includere questa finalità nella definizione del loro (dovrei dire del
"nostro) movimento, torna spesso a insinuarsi in una forma inattesa (e perciò potenzialmente
pericolosa) in due princìpi spesso avanzati dai movimenti "verdi": 1) che noi viviamo su un
pianeta fragile, soggetto a essere distrutto in permanenza dalle malefatte dell'uomo; 2) che gli
esseri umani dovrebbero erigersi a salvaguardia di questo fragile ambiente così minacciato per
salvare il nostro pianeta.
Ma non siamo certo così potenti! (Leggi questa frase nel mio accento newyorkese come
derisione del senso male inteso della nostra onnipotenza, e non come un'espressione letterale di
desiderio.) Nonostante tutta la nostra eccellenza mentale e tecnologica, penso che non potremmo
fare molto per far deragliare la storia della Terra in un senso permanente alla vera scala di tempo
planetaria, che è quella di milioni di anni. Nulla che sia in nostro potere può avvicinarsi a
condizioni e catastrofi che la Terra ha spesso subìto e superato. Il peggiore scenario di
innalzamento globale della temperatura planetaria nei modelli dell'effetto serra fornisce una
Terra considerevolmente meno calda di quanto essa sia stata in molte epoche prospere e felici nel
passato preumano. La potenza dell'impatto di materiale extraterrestre che probabilmente innescò
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l'estinzione in massa del tardo Cretacico è stata stimata 10000 volte maggiore di tutti i megaton
che potrebbe fornire l'intero arsenale nucleare oggi accumulato sulla Terra. E questa estinzione,
che spazzò via il 50 per cento circa delle specie marine, fu trascurabile rispetto alla grandissima
estinzione del Permiano, che circa 225 milioni di anni fa potrebbe aver cancellato dalla faccia
della Terra fino al 95 per cento delle specie esistenti. Eppure la Terra si riprese da questi urti
terribili, e l'evoluzione produsse alcuni interessanti novità (consideriamo solo le potenzialità del
dominio dei mammiferi, compreso l'emergere dell'uomo, dopo l'eliminazione dei dinosauri).
Ma il recupero e una nuova stabilizzazione hanno luogo su scale di tempo planetarie, non
umane, ossia nell'arco di milioni di anni dopo l'evento perturbatore. A questa scala noi non
possiamo fare alcun danno; il pianeta si prenderà cura di se stesso, nonostante la nostra meschina
follia. Ma tale scala di tempo, anche se è naturale per la storia planetaria, non è commisurata alla
nostra legittima preoccupazione campanilistica per la nostra specie e per le configurazioni attuali
del pianeta che rendono possibile la nostra esistenza. In questi istanti planetari - i nostri millenni
- noi abbiamo il potere di imporre grandissime sofferenze (sospetto che la catastrofe del
Permiano sia stata decisamente sgradevole per le diciannove specie su venti che non
sopravvissero).
Noi non siamo certamente in grado di spazzar via i batteri (essi sono stati probabilmente
gli organismi tipici sulla Terra fin dall'inizio, e probabilmente lo saranno fino a quando il sole
concluderà la sua esistenza esplodendo); non penso che siamo in grado di provocare una grande
devastazione permanente sugli insetti nella loro totalità (quale che sia il nostro potere di
distruzione di popolazioni e specie su scala locale). Ma possiamo senza dubbio metter fine alla
nostra fragile esistenza, e la nostra Terra ben protetta potrebbe tirare allora un metaforico sospiro
di sollievo per il definitivo insuccesso di un esperimento interessante ma pericoloso di coscienza.
L'innalzamento della temperatura su scala planetaria è preoccupante perché avrebbe come
conseguenza la sommersíone delle nostre città (spesso costruite al livello del mare, specialmente
nel caso di città portuali) e sconvolgerebbe la nostra agricoltura, con gravi danni per milioni di
persone. La guerra nucleare è una suprema calamità per le sofferenze e la morte di miliardi di
persone, e per le alterazioni genetiche che apporterebbe a milioni di persone nelle generazioni
future.
Il nostro pianeta non è affatto fragile alla sua scala di tempo e noi, modesti ultimi venuti,
comparsi solo nell'ultimo microsecondo del nostro anno planetario, non possiamo erigerci a
lungo termine a protettori di nulla. Eppure nessun movimento politico è più vitale e tempestivo
dell'ambientalismo moderno, poiché noi dobbiamo salvare noi stessi (e le specie nostre vicine)
dalle conseguenze immediate della nostra follia. Si parla molto di etica ambientalistica, e molte
proposte incarnano l'astratta maestà di un imperativo categorico kantiano. Eppure io penso che
abbiamo bisogno di qualcosa di molto più terra terra e di molto più pratico. Abbiamo bisogno di
una versione del principio morale più utile e più antico di tutti: il precetto che è stato sviluppato
in qualche forma da quasi tutte le culture poiché agisce, nel suo legittimo appello all'interesse
egoistico, come una dottrina di stabilità fondata sul rispetto reciproco. Nessuno ha mai trovato
niente di meglio di questa regola aurea. Se noi facciamo un patto del genere col nostro pianeta,
impegnandoci a trattare la Terra come vorremmo essere trattati noi stessi, essa potrebbe placarsi
e consentirci di cavarcela in qualche modo. Un obiettivo così limitato potrebbe sembrare a
qualche lettore cinico o miope. Ricordiamoci però che, per un biologo evoluzionistico, la
persistenza è la ricompensa unica. E il potere intellettuale umano, per ragioni che non hanno
alcuna connessione con la sua origine evoluzionistica, ha la più dannata capacità di scoprire le
cose più affascinanti, e di pensare le idee più peculiari. Perché dunque non dovremmo far sì che
questo interessante esperimento possa continuare, almeno per un altro secondo planetario o due?
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Parte prima
La storia nell'evoluzione
1. Il gluteo sinistro di George Canning
e l'Origine delle specie
So che connessione esiste fra Charles Darwin e Abraham Lincoln: essi decisero di venire al
mondo nello stesso giorno, il 12 febbraio 1809, fornendo così alla smemorata umanità un utile
espediente mnemonico per ordinare la storia. (Grazie anche a John Adams e a Thomas Jefferson
per essere morti nello stesso importantissimo giorno, il 4 luglio 1826, esattamente nel
cinquantesimo anniversario della nascita ufficiale della nazione americana.)
Ma che connessione c'è fra Charles Darwin e Andrew Jackson? Che cosa può avere in
comune un gentiluomo inglese che padroneggiava magistralmente le astrazioni della scienza con
quella vecchia quercia di Jackson che inaugurò la leggenda (sfruttata in seguito da Lincoln) del
campagnolo con poca istruzione formale che lotta fino ad arrivare alla Casa Bianca? (Jackson era
nato nel 1767 sul confine occidentale delle due Caroline, ma in seguito mise su bottega nel
territorio pionieristico del Tennessee.) Questa difficile domanda richiede una lunga sequenza di
connessioni, caratterizzate più da associazioni curiose che da necessità logica. Ma facciamo un
tentativo, articolato in nove passi semplici.
1) Andy Jackson, in conseguenza delle sue imprese militari nella sfortunata guerra del
1812 (la seconda guerra d'indipendenza americana), divenne una figura nazionale e infine -
grazie alla fama così conquistata - un candidato alla presidenza. In un conflitto che fu
considerevolmente avaro di buone notizie, Jackson arrecò molto conforto alla nostra nazione
vincendo la battaglia di New Orleans (1815), l'unica importante vittoria terrestre americana dopo
molte sconfitte e punti morti. Con l'aiuto del corsaro Jean Lafitte (che fu allora perdonato dal
presidente Madison, ma che riprese ben presto il suo modo di vita illegale), l'8 gennaio 1815
Jackson inflisse una disfatta decisiva alle forze britanniche costringendole a ritirarsi dalla
Louisiana. Spesso i cinici sottolineano, forse poco generosamente, che la vittoria di Jackson si
verificò più di due settimane dopo la conclusione ufficiale della guerra, notizia di cui nessuno era
al corrente in quella regione paludosa perché il trattato era stato firmato a Gand e allora le notizie
non viaggiavano più rapidamente delle navi.
2) Quando stavamo per ritirarci dal Vietnam e per riconoscere (almeno in privato) che gli
Stati Uniti avevano perso la guerra, alcuni fra i sostenitori di quell'impresa (io non ero fra loro)
trassero conforto dal ricordo che, se si lasciava da parte l'ipocrita retorica patriottica, quella non
era la nostra prima sconfitta militare. Le tradizioni politiche ci presentano la guerra del 1812
come un pareggio, ma in realtà quella fu una guerra persa da noi, almeno in relazione
all'obiettivo più importante che si ponevano i falchi di allora: l'annessione, almeno parziale, del
Canada. Riuscimmo però sia a conservare il territorio sia a salvare la faccia, un risultato
importante per il futuro dell'America e un ingrediente cruciale per la crescente reputazione di
Jackson. Washington, così umiliata solo pochi mesi prima, quando le truppe britanniche
incendiarono la Casa Bianca e il Campidoglio, gioì per le notizie di due fatti, ricevute all'inizio
del 1815 in ordine inverso a quello del loro accadimento: la vittoria di Jackson a New Orleans e
le condizioni favorevoli del trattato di Gand, firmato il 24 dicembre 1814.
3) Il trattato di Gand ripristinò tutti i confini nazionali prebellici; noi potemmo quindi
sostenere che non avevamo perso un centimetro di territorio, anche se l'espansione in Canada
non era stata un obiettivo tanto nascosto dei fautori della guerra. Il trattato affidò a commissioni
di arbitrato la risoluzione di altri punti in discussione fra Stati Uniti e Canada; tutte le restanti
controversie - fra cui l'istituzione di confini non fortificati, l'eliminazione delle forze navali dai
Grandi Laghi, e l'instaurazione del confine sul San Lorenzo - furono negoziate pacificamente
nell'ambito di queste disposizioni. Thomas Boylston Adams, discendente di John Quincy Adams
(che negoziò e firmò il trattato), ha scritto recentemente su quell'esemplare documento (nella sua
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