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LA RIVOLUZIONE LIBICA
Dall’insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi
Prefazione di Guido Olimpio
© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
Presentazione
Otto mesi d’insurrezione, repressione, guerra di liberazione e intervento
internazionale. Cinquantamila morti, duecentomila feriti, centinaia di migliaia di
sfollati e rifugiati. Fino all’esecuzione sommaria del colonnello Gheddafi, per
quarantadue anni dittatore della Libia, che aveva minacciato di sterminare gli
abitanti di Bengasi pur di mantenere la presa sul potere. L’inaspettata
rivoluzione libica, iniziata il 17 febbraio 2011, pone diversi interrogativi sul
futuro di un’intera nazione. Com’è scattata l’insurrezione a partire dalle
manifestazioni di protesta spontanee sull’onda del successo dei movimenti
rivoluzionari di Tunisia ed Egitto? Si può parlare d’intervento militare
umanitario? Quale validità ha la tesi della cosiddetta «eccezione araba»
sull’inconciliabilità fra Islam e democrazia? E la Libia, legata all’Italia da
un’infelice storia coloniale, riuscirà a garantire al proprio popolo democrazia,
stabilità politica ed equa distribuzione della ricchezza petrolifera? Farid Adly dà
un volto agli eventi fatidici e agli scontri armati che hanno portato alla caduta del
regime e riflette sugli interrogativi posti dalla rivoluzione libica, analizzando
anche il ruolo e il coinvolgimento delle potenze straniere negli affari della
famiglia Gheddafi . La sua voce autorevole conduce il lettore sul sentiero della
conoscenza dei fatti e della loro genuina interpretazione, partendo dal suo essere
un osservatore di provata professionalità e al contempo protagonista
emotivamente coinvolto, «con le braci in mano», nel processo di cambiamento
democratico del suo paese.
Farid Adly è un giornalista libico che da anni risiede in Italia. Collabora con
Radio Popolare, il Corriere della Sera e il Manifesto. Negli anni settanta ha
fondato a Milano un periodico dedicato al Medio Oriente, Al-Sharara (La
Scintilla).
In ricordo del professor Guido Valabrega, maestro che ha illuminato
il cammino della mia ricerca storica e sociale, e amico affettuoso che
non si è mai risparmiato nel confortarmi nei momenti difficili, a
causa delle note vicende e tragedie del Vicino Oriente.
Prefazione di Guido Olimpio
Popolazioni che si ribellano dalla Libia alla Siria. Movimenti popolari.
Rivolte armate. Dittatori inamovibili strappati a forza dai loro troni. Vecchi
sistemi di potere e relazioni stravolti. Un vulcano politico e sociale che non si è
ancora spento. Una realtà non sempre facile da decifrare. Tanto per i diplomatici
che per i giornalisti, costretti a inseguire processi repentini. Spesso brutali, con
conseguenze tutte da decifrare. Sappiamo, forse, come sono iniziate molte di
queste storie ma non possiamo dire come finiranno.
Per questo è prezioso e vitale, quando si deve seguire crisi di queste
proporzioni, avere un punto di riferimento. Una figura che racchiude molti ruoli:
giornalista, analista, esperto, figlio di quella terra inquieta che è il Nord Africa.
Con la non comune caratteristica di essere libico trapiantato da decenni in Italia.
Farid Adly è tutto questo. Per me – e per il Corriere della Sera – Adly, oltre che
essere un amico, è diventato una fonte preziosa. Che ti informa ma è pronta ad
ascoltare. In uno scambio di idee che porta poi a risultati concreti, ti evita di
scrivere imprecisioni, ti permette di avere quei particolari che possono fare la
differenza e attirare l’occhio dei lettori più critici.
In questi anni di collaborazione, continua e precisa, abbiamo discusso di
tutto. Con passione, con senso critico e ricerca dei fatti. Un percorso
giornalistico iniziato con la tragica pagina dell’11 settembre 2001 e che non si è
mai interrotto. Farid Adly mi ha aiutato a interpretare articoli, a cogliere quelle
sfumature così importanti della lingua araba, a scoprire notizie nei lunghi
interventi di capi estremisti e leader. La sua telefonata o l’email sono spesso
arrivate prima del dispaccio di agenzia o della notizia lampo lanciata dalle tv.
Un’allerta accompagnata dall’inconfondibile: «Controllo e ti dico». A volte il
processo è scattato in senso inverso: «Guarda ho letto che…Vedi se c’è qualcosa
in giro». Una richiesta d’aiuto mai caduta nel vuoto. Una risposta mai banale.
Perché insieme alle news nude e crude – quelle che ogni reporter insegue – c’era
e c’è un’annotazione. Un’idea su cui lavorare. Ma non un’imposizione. Ed è
questo il bello di lavorare con Farid. Niente dogmi, nulla di scontato, grande
prudenza nel decifrare gli eventi. A volte abbiamo messo insieme i pezzi dopo
giorni di ricerca paziente. Io da una parte e lui dall’altra.
E il nostro asse professionale è cresciuto – inevitabilmente – con
l’insurrezione in Libia, la terra natale del collega. Il paese dal quale per anni è
stato costretto a rimanere alla larga. Quando si sono accesi i primi lampi di
rivolta abbiamo avviato un meccanismo che ricordava un’altra epoca del
giornalismo. Quando non c’erano telefonini e computer. Allora c’era la «fissa»,
un appuntamento telefonico o al telex con l’inviato. Era il solo modo per
comunicare. Ebbene, per mesi, ci siamo sentiti con due chiamate quotidiane. Io a
Washington, lui in Italia. La prima nel mattino americano, per capire cosa era
accaduto durante la notte e verificare le news apparse sui media. La seconda
consultazione era quando in Italia si dormiva, per fare un bilancio. Tra questi
due appuntamenti un mare di contatti, di email, di messaggi. Inseguendo quelle
straordinarie e drammatiche giornate che hanno cambiato il volto della Libia.
Sono nati così «pezzi» a quattro mani sullo status del regime, sugli sviluppi
militari, sulle divisioni dei clan, su prospettive e pericoli. Ma con un approccio
«laico». Farid Adly ha difeso le scelte dei suoi connazionali ma non ha mai
avuto paura di rimarcare errori e iniziative pericolose. Un approccio giornalistico
riconosciuto anche da tanti colleghi e osservatori. Appassionanti le ricerche – e
le discussioni – su cosa avrebbe fatto Gheddafi, su cosa si agitava nella mente di
un leader indecifrabile, se alla fine si sarebbe arreso. E poi i «lavori» sul denaro
all’estero, sugli aiuti di altri paesi, sul flusso di mercenari. Non c’è aspetto che
non sia stato affrontato e sviscerato. A volte per realizzare un articolo, altre solo
per il gusto di archiviare dati importanti ed essere pronti al momento opportuno.
Con l’autore di questo libro non condivido solo la passione per il mondo
arabo ma anche il metodo di lavoro. Che è sì giornalistico ma reso più profondo
da un sistema – come si dice in gergo – di «scavo». Un metodo fatto di passi
costanti: raccolta, archiviazione, analisi, verifiche. Ma con la voglia di essere un
passo avanti nel mettere insieme i famosi tasselli del mosaico. Se poi non si
tramuterà in un «pezzo» – ce lo siamo detti tante volte – non importa. Certi che
prima o poi vi sarebbe stata un’occasione. E così è stato.
A Farid Adly va poi riconosciuta l’obiettività. In questi mesi non ha mai
smesso di mettere in guardia sull’ambiguità di alcune forze all’interno al
movimento ribelle, sulle possibili infiltrazioni qaediste, sulle manovre poco
chiare e sui tanti Gattopardi, abili nel cambiare pelle una volta che il tiranno è
caduto. Una denuncia proseguita con le denunce degli eccessi e delle violenze
compiute dalle milizie libiche nei confronti di migliaia di civili. Aver cacciato un
despota non autorizza nessuno a ritorsioni e persecuzioni. E se ogni rivoluzione
si porta dietro regolamenti di conti – purtroppo inevitabili – bisogna adoperarsi
perché cessino il più presto possibile.
E questo libro – La rivoluzione libica – è la ricostruzione rigorosa di mesi
tumultuosi e pieni di incognite. Una catena di eventi dove il primo anello non è
l’insurrezione popolare di Bengasi del 2011 ma qualcosa accaduto molto tempo
prima: la strage nel carcere di Abu Selim nel 1996. Da qui si sviluppa un viaggio
drammatico, appassionante e sconvolgente che si chiude con il crollo di un
despota che sembrava imbattibile. Un finto matto capace di sopravvivere tra gli
intrighi del Medio Oriente, furbo come pochi nel giocare su mille tavoli,
spregiudicato nel dire una cosa e farne un’altra. Un leader che si atteggiava a
padre dei libici e poi mandava i suoi agenti a eliminare gli oppositori all’estero.
Predicava la pace e poi organizzava legioni straniere per combattere i rivali in
Africa. Faceva affari con tutti e trescava con organizzazioni terroristiche,
armandole e finanziandole. Episodi narrati con precisione dall’autore, in un
racconto tra cronaca e storia.
Nel libro si illuminano aspetti poco esplorati. Come il ruolo delle donne nella
società libica, l’esistenza di realtà economiche difficili che sfatano la leggenda
che in Libia sono «tutti ricchi», lo sfruttamento degli immigrati venuti dal cuore
dell’Africa. E non mancano spunti polemici per chi in Occidente sembrava
rimpiangere i bei tempi di Gheddafi, pronto a fare a pezzi i capi della rivolta.
Non meno «calde» le riflessioni sui tanti amici del colonnello che aveva
estimatori interessati nel nostro paese. Farid Adly affronta anche il tema dello
scontro laici-religiosi, una costante delle rivoluzioni arabe, così come le difficili
scelte per chi ha appena iniziato a gestire un sistema democratico. Con errori
prevedibili e accettabili. Ma anche con comportamenti da rinnegare, come le
vendette nei confronti di chi non ha abbracciato la nuova rivoluzione. L’autore
non ignora questo lato oscuro, lo racconta, lo sanziona. Ma, a dispetto di scenari
foschi e apocalittici, ha fiducia nelle capacità di un popolo che si è lasciato alle
spalle decenni di terrore.
Il libro si chiude con un sentito messaggio: «Auguri terra mia». Auguri che
facciamo nostri e rilanciamo, sperando che la Libia trovi la sua strada sicura.
Guido Olimpio
Washington, 25 febbraio 2012
La genesi di una rivoluzione:
la strage nel carcere Abu Selim
La prima volta che ho appreso «ufficialmente», ma indirettamente, della
strage di detenuti nel carcere Abu Selim, un sobborgo a sudovest della capitale
libica, è stato nella stessa sede centrale di Tripoli del Mukhabarat, il servizio
segreto di sicurezza del regime. Ero andato per seguire la pratica del mio
passaporto sequestrato alla frontiera libico-tunisina di Abu Jdeir, al momento del
mio rientro nel dicembre 1996. Allora la Libia era sotto embargo Onu per
l’attentato di Lockerbie e non c’erano voli diretti da e per il paese.
Colonnello Mustafa. Così si è presentato, senza cognome, il personaggio che
doveva delucidarmi sulle ragioni del sequestro del passaporto da parte della
polizia. Dopo i soliti salamelecchi che si scambiano i libici ogni volta che si
vedono, si è chiuso in un eloquente mutismo. Il viso contornato dai palmi delle
due mani con i gomiti appoggiati sul tavolo, guardava assorto in un punto
indeterminato dell’ampia stanza, senza profferire parola. Conoscendo
l’ambiente, anch’io ho ricambiato con la stessa moneta. Dopo un interminabile,
per me, lasso di tempo con uno scatto ha schiacciato un pulsante e nella stanza
adiacente si sono sentiti il suono di un campanello, il rumore di una sedia e i
passi di un uomo dagli scarponi militari. L’ufficiale entrato aveva tra le mani un
dossier. Dalla confabulazione fra i due, pur in arabo, sembrava che usassero un
codice per comunicare. Quando il mio fascicolo è stato posato sul tavolo del
colonnello, l’ufficiale ha pronunciato le uniche parole a me comprensibili: «Non
merita un trattamento alla Abu Selim!».
L’accostamento non mi era molto chiaro. Della durezza del carcere speciale
di Abu Selim, in Libia, tutti raccontavano aneddoti e storie al limite
dell’impossibile. Ma le voci che giravano dalla precedente estate erano, a dir
poco, allarmanti. Circolavano notizie, trasmesse dal tam tam popolare, su una
rivolta dei detenuti politici repressa nel sangue, con molti morti. Uccisi nelle
celle, si diceva. Non si scendeva nei particolari, non si facevano nomi. La radio e
la tv di Stato non ne hanno mai parlato e la stampa scritta, tutta in mano al
ministero dell’Informazione, men che meno.
«Si mette male» ho pensato. In questi casi, la cosa migliore è quella di
mantenere la calma e di non reagire alle provocazioni; si tradirebbe altrimenti
uno stato d’animo debole. Ho continuato a fissare il dossier, poi, incrociando gli
occhi del mio interlocutore, ho chiesto lumi sulla sorte del mio documento. Dopo
aver consultato le carte, il colonnello ha iniziato un lungo ragionamento,
prendendola da lontano. Un discorso sul potere, sull’affidabilità delle persone,
sulla patria e sulla nostalgia, sulle forme pratiche della sovranità popolare, sul
socialismo che non vuol dire povertà, ma neanche uguaglianza, sul privilegio di
chi ha studiato e sulla riconoscenza che è sottomissione al potere del popolo.
«Chi gode della fresca aria d’Europa, non dovrebbe dimenticare la calura dei
nostri deserti» ha concluso in modo sibillino. Frasi scollegate che non formavano
un discorso compiuto e non seguivano un ragionamento logico con premesse e
conclusioni. Soprattutto non avevano nulla a che fare con la storia che vedeva il
mio passaporto sequestrato come protagonista principale, e la cui eventuale
mancata soluzione metteva in serio pericolo tutto il programma del mio breve
soggiorno in Libia e il sicuro rinvio del viaggio di ritorno in Italia. Con tutto il
self control del quale sono dotato ho indicato il fascicolo e ho chiesto
esplicitamente se quel giorno stesso sarei potuto tornare a Bengasi con il mio
documento. La risposta è stata lapidaria: «La pratica è lunga. Manca la firma».
Non c’era da scherzare; la percezione che ho avuto era quella di una richiesta di
collaborazione. «Torni tra una quindicina di giorni.» Seduta tolta.
Il calvario durò tre lunghi mesi. I monologhi del colonnello si erano
trasformati in discussioni. Non avevo nulla da perdere, avendo perso la speranza
di vedere riconsegnato il mio documento di viaggio. Sapevano tutto sulla mia
vita in Italia. Dalla direzione del movimento degli studenti libici alla solidarietà
con i palestinesi, dall’occupazione dell’Ambasciata libica di Roma ai tempi
dell’impiccagione degli studenti all’Università di Bengasi, nel 1977, alle
manifestazioni contro la guerra nel Golfo, dall’andamento degli studi al lavoro a
Radio Popolare, e soprattutto sapevano della trasmissione Radio Shaabi, in
lingua araba. Non mancavano riferimenti alle frequentazioni di amici e
fidanzate, con trascrizione dei loro nomi, in arabo, un po’ storpiati. Mi rendevo
conto che parlando e discutendo non avrei aggiunto nulla alle loro conoscenze. Il
gioco era ormai a carte scoperte, esplicito. Ho ripetutamente declinato ogni
offerta, ma il mio interlocutore non desisteva. Elogi lusinghieri, «il paese ha
bisogno dei suoi figli migliori», si alternavano con cupe prospettive, «perdere il
comodo lavoro di giornalista, per di più in una bella città come Milano, sarebbe
un vero peccato!». La confidenza era diventata tale, che i nostri dialoghi avevano
assunto una dimensione culturale, non aspettata in un poliziotto, scoprendo
passioni comuni per la poesia di Mahmoud Darwish e per il romanzo di Abdel-
Rahman Munif Città di sale.