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LA SFIDA
DELLA
CULTURA
□ I MASSA
Nel eorso della grande trasformazione elle ha reso l'Italia una
fra le potenze industriali del mondo, il Pei si è affermato come
una forza politica di massa con profonde radici nella società. Con
una inedita angolatura, questo libro ricostruisce la vicenda del
comuniSmo italiano, analizzando le risposte che. da Togliatti a
Occhetto. il partito ha offerto airirrompere della modernizzazione
culturale, ai cambiamenti del costume, dei consumi, delle forme
di svago e di intrattenimento.
Incentrata sul tema della politica culturale, la lucida e appas
sionata ricostruzione di Gundle dedica un'attenzione particola
re ai rapporti fra cultura “alta", cultura popolare e cultura di mas
sa nella società e nella sinistra. Degli snodi cruciali della storia
italiana è offerta una nuova interpretazione, e il persistere dei ca
ratteri originari delPidentità comunista è esaminato in rapporto
a fenomeni quali l'associazionismo di sinistra, i modi di consu
mo. l'industria culturale, i costumi sessuali, l'universo giovani
le. i bisogni e le identità individuali e collettive.
Di fronte a quel complesso fenomeno di “americanizzazione del
quotidiano*’ sostenuto dai miti e dai simboli irradiati dal cine
ma. dai rotocalchi, dalla televisione i comunisti italiani si sono
divisi fra due contrapposti modelli ideologici e universi simboli
ci che hanno, con impari risultati, contrassegnato la moderniz
zazione nell'Italia repubblicana. Fino a quando l'accelerazione
degli avvenimenti internazionali e il nuovo volto della società ita
liana hanno irrimediabilmente incrinato la stessa identità co
munista.
Stephen Cundle
I COMUNISTI ITALIANI
TRA HOLLYWOOD E MOSCA
La sfida della cultura di massa
1943 1991
( - )
Presentazione di
Enzo Siciliano
Traduzione di Richard Ambrosini
Adattamento per l’edizione italiana di:
Between Hollywood and Moscow.
The Udine. Communists and thè Challenge ofMass Culture, 1943-91
© 1995 by Stephen Gundle
ISBN 88-C9-20642-8
© 1995 Giunti Gruppo Editoriale, Firenze
Il paese Italia
e la parola “comunista”
La parola “comunista”, nella polemica politica dell’ultimo anno, è stata
molto spesso usata come un insulto, a indicare una colpa da cui era diffi
cile purgarsi. “Comunista” significava, nella bocca di chi l’usava con
questa intenzione, qualcosa di assai simile a un peccato d’origine che
avrebbe macchiato in modo devastante quasi cinquantanni di vita re
pubblicana.
Sono stato comunista: voglio dire che sono stato iscritto alla Federa
zione giovanile comunista ai tempi dell’università, fra il 1954 e il 1956.
Firmai poi, al momento dei fatti d’Ungheria, la cosiddetta “lettera dei
101”, la lettera che un gruppo di scrittori e di intellettuali rese pubblica
affermando una scelta di libertà e il rifiuto delle indicazioni di partito.
Non mi sono mai sentito uno spretato. Nelle scelte politiche che ho
fatto in seguito, ho sempre privilegiato la sinistra, spesso anche il Pei. Mi
sono chiesto, davanti alle accuse cui ho accennato: sono i comunisti da
mettere alla gogna per tutto quanto hanno compiuto durante cin-
quant’anni di repubblica? Ho partecipato, sia pure dall’esterno, a qual
cosa di cui vergognarmi?
Il vecchio Pei è stato un protagonista della vita politica italiana: non
c’è dubbio. E stato anche un protagonista della vita culturale del nostro
paese. Si era già cominciato a dire, da più di una diecina d anni a questa
parte, che la politica culturale elaborata dal Pei ha avuto caratteri repres
sivi, censori, su un libero sviluppo intellettuale; così come si è parlato di
una soggezione al dettato di Botteghe Oscure da parte di numerosi scrit
tori, artisti, accademici, editori.
Semplificato in questo modo, se un problema d’interpretazione c’è,
sembrerebbe escludere ogni interrogativo: la scena parrebbe invasa da
un gruppo di loschi mandarini travestiti da politici, i quali non avreb
bero avuto altro fine se non quello di far ricadere subdolamente il paese
Italia nell’area sovietica, catturarlo a quell’ambito mediante le posizio
ni imposte alla maggioranza dei ceti intellettuali, - ceti senza nerbo,
v
PRESENTAZIONE
proni per interesse di sopravvivenza ai dettami di una setta politica.
Questa accusa, variamente articolata, a mio giudizio non tiene conto
di alcuni dati di fatto: per esempio della forza di convinzione, durante gli
anni dell’antifascismo clandestino, e subito dopo, che ebbero nel formar
si di un’opinione “comunista” gli studi di Croce e di Gentile su Marx e
sul socialismo italiano. Il carattere del comuniSmo italiano, chiarissimo
negli stessi appunti dal carcere di Gramsci, si definisce per una singolare
peculiarità: esso non fu un frutto d’importazione, non fu un leninismo di
risulta (pure se il leninismo non era assente da esso, a cominciare da
Gramsci medesimo; pure se Mosca certo non era lontana da alcune deci
sioni che il partito prendeva).
Alle origini, il socialismo italiano è un movimento che trasforma in
maniera autonoma le idee d’una parte della sinistra ben radicata nel Ri
sorgimento. Voglio dire che il socialismo e poi il comuniSmo non calaro
no dall’esterno su un’Italia piegata a qualunque dipendenza, ma che fu
rono anzitutto il frutto di un pensiero e di un atteggiamento dai rapporti
lunghi e profondi nella storia nazionale.
Paimiro Togliatti può far compiere ai militanti la cosiddetta “svolta di
Salerno” poiché il potenziale di autonomia che il partito aveva accumula
to durante gli anni della dittatura fascista rendeva naturali simili scarti
dalla omologante norma sovietica.
Era una anomalia schizofrenica il vecchio Pei, ma una anomalia che
aveva motivati legami col passato: e se non si considera l’evidenza di que
sta anomalia si rischia di travisare il processo storico per cui la cultura
italiana del secondo dopoguerra è stata ciò che è stata — un evento di
grande significato nell’orizzonte della sinistra europea.
Tutto ciò portò anche ad errori, ma da quegli errori non si può dedur
re che tutto fu un errore. E innegabile un forte impianto democratico
nella nostra cultura repubblicana; e il comuniSmo, così come vi era inte
so, a esso diede singolarmente impulso e ragione.
Le antiche radici liberali rendevano i comunisti italiani atipici a con
fronto di tutti gli altri comunisti, sovietici in testa. Ma il problema non era
fissare queste differenze: per i comunisti italiani il problema fu sempre
come rendere credibile agli occhi dell’intero paese la propria atipicità,
come non cristallizzare differenze tra la propria cultura di partito e la
cultura nazionale. In definitiva: come lenire la propria obbligata schizo
frenia.
Gramsci, negli appunti dal carcere, discute molto nei dettagli l’orga
nizzazione degli intellettuali - ma la sua discussione non è altro che un
riverbero critico del rapporto coagulatosi, nel corso del Risorgimento,
fra ceti dirigenti, cultura e masse popolari.
vi
PRESENTAZIONE
Proprio fra gli intellettuali, di sinistra come di destra, era nata la rivol
ta che aveva portato un paese “che nome non ha” sulla strada di una pro
spettiva unitaria. La dittatura fascista era scaturita da una caduta di cul
tura, che aveva rimesso le sorti della nazione nelle mani di una piccola
borghesia agraria e di un gracile ceto industriale dominati da incontrolla
bili scontentezze e frustrazioni.
Gramsci non si negò anche al tema del partito egemone, un tema
squisitamente leninista, ma insieme non si negò a una riflessione tutta
italiana sul rapporto fra cultura borghese e proletariato: la sua nozione
di “partito egemone” scaturisce da annotazioni per nulla improvvisate,
sia pure non condivisibili, sul Principe di Machiavelli. La sua idea del
“nazional-popolare”, così viva negli anni Cinquanta, poi così discussa,
letta prue come una proiezione a sinistra del populismo fascista, nella
sua stessa prepotenza concettuale, conteneva un nucleo dinamico,
quello che fondava una necessità integrante fra cultura di élite e cultura
di massa.
Questa idea, “popolare” e non populistica, rappresentava una pro
posta innovativa di non scarso contenuto, una proposta ricca di sugge
rimenti, in una situazione non solo politica che esigeva ricostruire
l’identità nazionale depurandola dai residui alluvionali, retorici, del
fascismo.
Lo stesso Ignazio Silone, grande avversario dei comunisti in quegli
anni, e peri comunisti “un traditore”, coltivava un’idea parallela, ricavan
dola da Pisacane: o la giustizia è per tutti o non c’è libertà per nessuno.
D’altra parte, sia l’egemonia sia l’idea nazional-popolare scaturivano
da un’esigenza che la dittatura aveva reso acuta: costituire e organizzare
uno strato sociale tanto vigilante su ogni rischio di involuzione politica
quanto capace di far rispettare a tutti le norme di convivenza democrati
ca e costituzionali, collettivamente deliberate.
La scoperta di un’ottica dal basso della realtà nazionale - il neoreali
smo nella narrativa, ma, ancora di più, nel cinema - fu il fatto che rese la
cultura italiana immediatamente permeabile alle culture occidentali. La
stessa scoperta e lo stesso rapporto che si instaurò con la cultura america
na furono focalizzati da quell’ottica.
Se di questa posizione fu poi fatta un’ipostasi, quasi che il mondo non
potesse essere letto altrimenti, è stato di sicuro un errore: ma non c’è sco
perta che non porti con sé una zona d’ombra. Nonostante quell’ombra, il
paese italiano si arricchì proprio attraverso l’intuizione di trovarsi unito
nei propri parcellizzati fondamenti linguistici, nelle costumanze frantu
mate, nella stessa opposizione dei valori ideali diffusi, come il cattolicesi
mo e il laidsmo.
VII
PRESENTAZIONE
I gramsciani del secondo dopoguerra parlavano con orgoglio di un
secondo Risorgimento. Tutto ciò era patrimonio della sinistra, sia pure di
una sinistra in cui il vecchio Pei aveva un ruolo non secondario, accanto
a molti cattolici.
Lo studio di Stephen Gundle mette a segno, come meglio non si po
trebbe, questa vicenda, ma non solo questa. Mi sembra però che lo stori
co inglese intraweda nell’atteggiamento del Pei di quel dopoguerra qual
cosa che stinge irresistibilmente su tutta la politica comunista, fino al
pronunciamento della Bolognina e alla trasformazione in Pds.
De Sanctis, Labriola, Croce, Gramsci: era un’idea umanistica della
cultura quella che palpitava nel cuore dei militanti del partito, in moltis
simi uomini di cultura e di lettere, in artisti che affiancavano le posizioni
della sinistra, quasi che la novità del mondo moderno potesse essere sca
turita dal cuore di Giosuè Carducci o di Giovanni Pascoli. La questione
va spiegata, poiché l’apparenza deponeva per questo.
La tradizione umanistica - è vero - era radicata fortemente, ad
esempio, nell’animo di uomini come Giorgio Amendola e Giancarlo
Pajetta: basta leggere quel che scrissero sulla propria educazione alla
politica e alla militanza, un’educazione compiuta al confino o in carce
re. Pajetta, il “ragazzo rosso”, uscito di galera, nell’Italia liberata, pro
gettò e mise in atto una collana editoriale, l’Universale economica, con
la quale intendeva educare gli iscritti al partito e il proletariato naziona
le alle lettere alla filosofia al pensiero scientifico, nella certezza che sol
tanto così si potesse rendere concreto l’ideale del socialismo. L’Univer
sale economica svolse un ruolo insostituibile, pari a quello che svolse
poi la prima serie della Bur con copertina grigia su un versante non
politicizzato.
I quadri dirigenti dei partiti che avevano sofferto il carcere fascista,
proprio in carcere avevano trovato nella cultura lo strumento per resiste
re alla sconfitta subita: della forza rigeneratrice della cultura, negli anni
del dopoguerra e oltre, costoro fecero un punto di riferimento obbligato.
Bisogna riconoscere ai quadri comunisti una appassionata e costante in
sistenza su questo - che trasformarono in arma di lotta e, certo, in stru
mento di egemonia. Tutto ciò è rimasto estraneo alle generazioni di poli
tici che sono seguite.
A giudizio di Gundle, la cultura umanistica impedì al partito di legge
re al cuore gli enigmi del mondo moderno. Credo che quella cultura o
quell’orientamento servì comunque a ricucire nel paese la lacerazione
provocata dalla dittatura. Essa non aveva generato il fascismo. Basta la
testimonianza di Benedetto Croce a provarlo, - e la testimonianza di
Croce non è soltanto una testimonianza personale: vale per tutti i liberali
vili
PRESENTAZIONE
democratici, per i quali l’awento della dittatura portò a una riflessione
accanita sul significato del Risorgimento e dell’Unità.
Non vanno dimenticati, appunto, gli impulsi che ebbero allora gli stu
di di storia della scienza, di linguistica, di etnologia, gli studi di matema
tica, o gli studi storici che riguardarono il mondo agrario e industriale
italiano. Sono anni in cui la ricerca mette a segno un ricchissimo patrimo
nio di conoscenze, — proprio quel patrimonio che concerneva un passato
obliterato e che bisognava reintegrare come presente all’intelligenza col
lettiva.
Viene messo oggi sotto accusa, quanto a questo, il cosiddetto conti
nuismo di Paimiro Togliatti, una mentalità che aveva senza dubbio pro
blematici e negativi risvolti politici, ma che, nell’ideazione della linea
culturale, ebbe alcuni riflessi positivi - quelli legati al rapporto con una
storia che apparteneva non a questa o a quella parte in campo, ma a tutti.
Contemporaneamente l’editoria italiana conquistava l Europa. Qual
che tempo addietro, per esempio, si fece gran chiasso intorno al caso
Nietzsche: si lamentò, come conseguenza dell’egemonia culturale comu
nista, la non pubblicazione delle opere del filosofo di Umano, troppo
umano in quegli anni. Venne accusato Giulio Einaudi di aver ostacolato
la cosa: ma Einaudi nel 1943 aveva stampato le nicciane Considerazioni
sulla storia, e avrebbe poi proseguito qualche anno dopo con Ecce Homo.
Ma la questione, a restringerla su Nietzsche, si fa magra: il suo acqui
sto alla cultura occidentale non poteva avvenire con rapidità, è compren
sibile, dopo gli stravolgimenti nazisti. Se si pensa, per restare al catalogo
Einaudi, a tutto Proust tradotto da scrittori (la Ginzburg, Fortini, Capro
ni e così via), poi al Ramo d’oro di Frazer, ai testi di Malinowski, di Freud,
di Jung, di Kerényi, di Katz eccetera, per la felice singolarità che vedeva
affiancati Pavese ed Ernesto De Martino nella direzione editoriale, non si
può non dire quanto la cultura della sinistra italiana, anche quella più
vicina alle posizioni del Pei, fosse aperta, interessata ai contagi più diver
si, e a un possesso di cose che travalicava gli antichi limiti della cultura
umanistica accademica.
E sufficiente sfogliare i periodici del Pei, «Rinascita», «Società», «Il
contemporaneo»: pure rilevando non una ma mille cantonate, ci si ren
derà conto di questo.
Insisto su quegli anni, perché furono anche anni duri, di forzosi e fu
nesti schieramenti, gli anni della guerra fredda, anni in cui il Pei volle
pure obbedire ai canoni del “realismo socialista’’ così come Mosca lo si
glava con l’appoggio della mente illustre di Lukàcs. Qualche letterato
comunista con cieca insistenza vi si allineò (sottolineando l’irrimediabile
schizofrenia cui era condannato il partito).
IX
PRESENTAZrONE
È sciocco, come pure viene sostenuto, cristallizzare il romanzo italia
no fra Quaranta e Cinquanta in quella formula: sono gli anni in cui si di
spiega il meglio di una narrativa che trova in Moravia, nella Morante, in
Landolfi, Gadda, Piovene, Pavese, Brancati, Delfini la propria indiscuti
bile varietà e originalità. Va aggiunto che quello è proprio il tempo in cui
matura un atteggiamento sperimentale o di sollecitazione esistenziale o
storicista che vedrà in Fenoglio, nella Ginzburg, in Pasolini, Calvino,
Bassani, Cassola, Pratolini, Sciascia, Parise, Volponi, Ottieri, La Capria
altrettanti segni di vitalità. Nessuno di loro avrà niente da spartire con
l’obbedienza a un qualche codice di natura politica. Alcuni votavano Pei:
ma il voto non li condizionò nell’intelligenza letteraria e nella difesa per
quell’impegno verso se stessi che è l'unico di cui si può fare portavoce
uno scrittore.
Sono anche gli anni, per restare nell’editoria, che videro, da parte del
“comunista” Giacomo Debenedetti, progettata e realizzata una collana,
per il Saggiatore di Alberto Mondadori, “La Cultura”, in avanscoperta
nel tradurre il meglio della produzione occidentale quanto ad antropolo
gia, linguistica, etnologia, musicologia, critica letteraria e delle arti.
Tra i tanti temi toccati da Gundle, quello di più vasta prospettiva ri
guarda l’assolutizzazione che il Pei di Togliatti e Berlinguer fece della
nozione di proletariato, pensando che esso fosse ragione del futuro, vei
colo unico della cultura del domani. Era una concezione errata, dice
Gundle: «Ignorava il dinamismo e la flessibilità della borghesia». Qui la
radice dei tanti abbagli culturali presi dal Pei nell’insieme di tanti buoni
motivi di cui si faceva mallevadore. Se la cultura della sinistra italiana si
rese avvertita delle ragioni, anche, della borghesia, ciò accadde fuori di
quel partito che tutto sommato voleva essere all’avanguardia di un paese
intero.
Il Pei non capì, fu per anni ostilmente chiuso, ad esempio, all’astratti
smo. L’incomprensione della pittura moderna fu l’indizio vistoso di un
ostacolo a intuire il senso innovativo, conoscitivo della solitudine bor
ghese. Se il discrimine fra rivoluzione e rivolta poteva avere una ragione
politica per essere, il sentimento della rivolta, in arte, non poteva venire
letto secondo manierate forme di massimalismo e determinismo.
Dice Gundle, il Pei fu cieco, in quel tempo, nei confronti di tutto
quanto la cultura di massa elaborava: era una cultura che andava incon
tro a esigenze non estranee allo stesso proletariato. Quel proletariato si
avviava ad essere, sulla china del miracolo italiano, parte invasiva dei ceti
borghesi: calamitato sempre più a destra, invece che a sinistra.
Eppure la cecità comunista, chiamiamola così, consentì al partito
aperture di intelligenza sulla modificazione dei rapporti di forza interna
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