Table Of ContentTìtolo originale Film form
ipyiiglil 1949 Harcourt Brace Jovanovich, Ine. e 1977 Jay Leyda
l’nlibliralo d'intesa con Harcourt Brace Jovanovich, Ine.
© 1964, 1986 e 2003 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Traduzione di Paolo Gobetti
www.einaudi.it
ISBN 88-06-16620-4
Sergej M. Ejzenstejn
La forma cinematografica
Introduzione di Marco Vallora
Piccola Biblioteca Einaudi
Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica
Indice
p. VII Nota introduttiva di Marco Vallora
La forma cinematografica
Dal teatro al cinema
3
L’inatteso
J9
Il principio cinematografico e l’ideogramma
30
La dialettica della forma cinematografica
49
69 Cinema in quattro dimensioni
Metodi di montaggio
77
Una lezione di sceneggiatura
90
1x5 Il linguaggio cinematografico
130 La forma cinematografica: problemi nuovi
158 La struttura del film
187 Traguardi
204 Dickens, Griffith e noi
Appendici
269 Il futuro del sonoro. Dichiarazione
271 Una sequenza tolta da An American Tragedy
276 Appunti di un regista
280 Filmografia
294 Nota lessicale
299 Nota bibliografica
Il nipote di Diderot:
Ejzenstejn o la scrittura delle emozioni
di Marco Vallora
Forme, colori, densità e odori - che cosa
c’è in me che a loro si accorda?
da w. whitman, citato da Ejzenstejn
nel saggio II significato del colore.
Prendiamo un colore, il giallo, per esem
pio. L’oro è giallo, la seta è gialla, l’ansietà
è gialla, la stizza c gialla, la paglia è gialla;
a quanti altri fili si può legare questo filo?
I sogni, la pazzia, le conversazioni sconclu
sionate non sono altro che il passaggio, tra
mite una qualche qualità comune, da un og
getto all’altro. Il pazzo non è cosciente del
passaggio. Tiene in mano un filo lucente
di paglia gialla e urla che ha preso un filo di
paglia.
da d. Diderot, Lettera a Sophie Vollard,
citato da Ejzenstejn.
Tentiamo di ristabilire, sia pure mentalmente, la cro
nologia di questi scritti. C’imbattiamo subito in un bre
ve, nervoso testo del ’29, dal titolo-sorpresa de L’inatte
so-. un titolo lirico, insieme ambiguo e invitante, perfetto
per un racconto. E in fondo l’ambiguità deve perdurare:
nell’universo polisenso di Ejzenstejn è un errore voler a
tutti costi stabilire che cosa sia - in quest’occasione sag
gistica — l’inatteso: se la visita del teatro Kabuki oppure
il matrimonio paradossale, celebrato con enfasi majakov-
skiana, sul finire dell’articolo: «Salutiamo piuttosto l’in
contro del kabuki col cinema sonoro ! » Soffermiamoci un
attimo sulla soglia dell’exergwe. È curioso l’uso decisivo che
Ejzenstejn fa dell’epigrafe, anche quando si tratta, visto
samente, di discorsi accademici successivamente trascritti.
L’exergue sembra avere davvero la funzione di cellula ger
minale da cui consegue tutto il discorso, nonostante Ejzen
stejn sembri poi dimenticarsene: e non è credibile pen-
Vili
MARCO VALLORA
sare che si tratti di un motto conclusivo, apposto a poste
riori. È lì che s’incarna, in fondo, il fuoco saggistico del
l’intero discorso. Prendiamo questo <XtìlyInatteso', già non
è un caso che si tratti di haiku giapponese, il che dimo
stra la volontà di allargamento dell’ottica culturale subito
manifestata dal regista: «Odi! La voce di un fagiano | ha
inghiottito il campo spazioso in un sol fiato». È uno di
quei paradossi dell’intelligenza, uno di quegli 'impensa
bili’ che dovevano affascinare Ejzenstejn.
C’è come un impercettibile rovesciamento d’immagine:
il grido del fagiano, invece di espandersi per l’aria - co
me vorrebbe la piu consueta tradizione poetica — si espan
de per contrazione, 'cattura’ letteralmente lo spazio del
l’immagine, la fagocita: si fa insieme meravigliosa intui
zione metalinguistica del procedere artistico, ma anche
inattesa istantanea sul miracolo dell’immagine cinemato
grafica. E per di piu miracolo audio-visivo: letteralmen
te, la voce si fa immagine, proprio come succede nel ci
nema. Sono questi, del resto, gli argomenti trattati non
soltanto nel saggio in questione, ma in tutto il libro: il
rapporto voce/immagine, il problema della traduzione di
concetti e sensazioni in «visione», il difficile equilibrio tra
il cinema e le altre arti. Inghiottire lo spazio (il «campo
spazioso»: non soltanto dello schermo, ma anche dell’in
teriorità dello spettatore) e mostrare un qualche cosa, fos-
s’anche un grido, trasformato in immagine poetica.
Del resto lo haiku di Yamei non è l’unica epigrafe del
saggio, ma s’accompagna ad un aneddoto russo non meno
illuminante (così com’è illuminante del resto l’inestrica
bile fusione tra tradizione russa e volontà di ampliamento
dell’orizzonte culturale). Un famoso attore russo, notoria
mente privo di voce, deve sostituire, all’ultimo momento
un popolare basso per esibirsi nella Baiadera innamorata.
«Come farai?» gli si stringono intorno sgomenti gli ami
ci. E Zivokini (un nome che ha già, dentro di sé, un de
stino), serenamente: «Le note che non posso fare con la
voce, le farò vedere con le mani». Anche qui ci troviamo
nel cuore della poetica «mentale» di Ejzenstejn (poetica
mentale perché fa parte del suo modo logico di procedere
con il discorso: spesso — quando non riesce a spiegarsi
ejzenStejn o la scrittura delle EMOZIONI IX
meglio - anche il regista-teorico agita d’innanzi al lettore
le ’mani’ delle sue immaginose metafore). Da vero erede
di Diderot, Ejzenstejn si convince che il cinema è essen
zialmente un’arte di traduzione delle emozioni, di trascri
zione, di travaso: ad un certo punto lo vedremo persino
addentrarsi nei corridoi insidiosi della metaforicità elettri
ca. L’arte cinematografica non gli sembra altro che un cir
cuito di cariche elettriche, anzi un trasformatore di sensa
zioni e di idee. In un saggio di alcuni anni dopo (La strut
tura del film, 1939) applicandosi allo studio dei modi di
«svilupparsi del pathos», Ejzenstejn parla letteralmente
di «passaggio da un’intensità all’altra» e cerca mentalmen
te d’insinuarsi in quel preciso istante in cui il vapore si fa
acqua, l’acqua diventa ghiaccio, convinto che «se potessi
mo registrare psicologicamente le percezioni dell’acqua,
del vapore, del ghiaccio e dell’acciaio in questi momenti
critici, momenti culminanti nel salto, questo ci spieghe
rebbe in un certo senso il pathos, l’estasi». L’estasi come
ex-stasis, naturalmente, come uscire da sé, come passag
gio di qualità. Anche Ejzenstejn - e se ne ha la sensazione
palpabile nel procedere stesso del suo discorrere logico -
vuole continuamente uscire da sé, rinnovare con la sor
presa, appunto l’inatteso, la propria duttile ’teoria’. «Ab
biamo avuto la visita del teatro kabuki: mirabile manife
stazione di cultura teatrale».
Ma come dirà altrove, non è certo il coté spettacolare,
d’intrattenimento, che può soddisfarlo: «la parola "diver
timento” mi suona contraria, estranea e nemica. Quando
sento dire che un film deve ’’ intrattenere ”, odo una voce
esclamare: "Serviti!” Il compito del cinema è di mette
re il pubblico in condizione di "servirsi”, non di "intrat
tenerlo”. Di afferrare, non di divertire». È esattamente
quello che Ejzenstejn dimostra di saper fare benissimo:
non gl’importa, come capita ad altri critici, di squittire
nel foyer il proprio entusiasmo per la « scoperta » del ka
buki. Cosi, in un saggio che dovrebbe occuparsi di cine
ma, si giustifica benissimo il suo voìcso-pamphlet militante
contro la critica che sa soltanto «apprezzare» ma non «af
ferrare», che imbalsama l’effetto-meraviglia nella paglia
tranquillizzante del «museo»: «Una meraviglia deve pro-