Table Of ContentFranco La Cecla
Essere amici
Essere amici
Premessa
Dio vi assista o amici miei
Nei travagli della vita, nel servizio
E nei festini scapestrati d’amicizia
E nei dolci segreti dell’amore
Dio vi assista, o amici miei,
Anche nelle bufere, e nel dolore d’ogni giorno,
Nel paese straniero, nel deserto del mare,
E nei tetri abissi della terra!
ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN1.
Per noi l’amicizia è interessante proprio perché evade ogni definizione: il modo in cui
l’amicizia agisce, esprimendo costanza e fluidità in diversi mondi sociali, è eccitante e
problematico per la gente che la pratica e per chi la studia.
AMIT DESAI ed EVAN KILLICK2.
Chi scrive è un antropologo, qualcuno che deve stare attento a non
generalizzare. L’amicizia è un fenomeno universale, di cui si trovano tracce
nei testi piú antichi che ci sono pervenuti e nelle lande piú diverse del mondo,
dalle tribú amazzoniche fino alle compagne e ai compagni di prigionia, alle
rifugiate e ai rifugiati delle guerre piú recenti, ai marginali delle nuove città di
Papua, agli amici del bar o alle collegiali giapponesi online. Però cosa si
intenda per amicizia è una variabile tutt’altro che universale, epoca per epoca,
cultura per cultura, si presenta come un legame che costituisce la società in
modi che dipendono dal peso che viene dato agli altri tipi di legame. A volte
è una forza centrifuga che si libera dalla reciprocità dei legami di parentela,
altre invece li conferma, altre ancora è un mondo parallelo. Occorre che il
lettore sappia che, dopo questa premessa, quando parlo di amicizia, mi
riferisco anzitutto (per motivi di competenza diretta) alla strana costellazione
che essa rappresenta oggi per noi occidentali, soprattutto europei. Nel corso
della narrazione entreranno in ballo altri sistemi, altre forme di amicizia e, di
volta in volta, sarà chiaro che queste non rientrano nella nostra concezione
anche se possono somigliarle. È un po’ difficile oggi esimersi dal pensare che
quando Aristotele scriveva i capitoli dell’Etica nicomachea, o quando Michel
de Montaigne trattava dell’amicizia, lo facevano pensando di esprimere
concetti universali, o forse piú semplicemente erano convinti che l’idea di
universale greco e francese dovesse espandersi a tutto il mondo. Oggi
riusciamo a essere piú cauti e, pur non disprezzando la nostra storia di
amicizia, possiamo confrontarla con altre che sono emerse per farci capire
quanto singolare sia la nostra. L’attenzione all’amicizia in antropologia è
qualcosa di recente, e tuttora nutre un vivacissimo dibattito, si alimenta di una
nuova letteratura, di monografie, lavori sul campo, osservazioni partecipanti
che raccontano la ricchezza di una peculiarità umana (ma anche qui abbiamo
dubbi, l’amicizia non è peculiare agli umani, i cavalli3, le galline e altri
animali contraggono legami di amicizia) di cui sappiamo ancora molto poco.
Anzi sta proprio qui la qualità precipua dell’amicizia, che pur praticandola
rimane qualcosa di indefinibile e di difficilmente fissabile.
1. A. S. PUŠKIN, Poesie, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 169.
2. A. DESAI ed E. KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship. Anthropological Perspectives,
Berghahn, New York - Oxford 2010, p. 1.
3. H. SIGURJÓNSDÓTTIR, M. C. VAN DIERENDONCK, e A. G. THÓRHALLSDÓTTIR, Friendship
Among Horses-Rank and Kinship Matter, Iceland University of Education, Reykjavík 1997.
Introduzione
Ci sono sette tipi di persone che è bene non avere per amici: le persone influenti o di
alto rango; i giovani; gli uomini forti, che non sono mai malati; gli uomini cui piace il
sake; gli uomini d’armi fieri e coraggiosi; gli uomini falsi; gli uomini avidi.
Tre sono invece i tipi di persone che è raccomandabile avere come amici: le persone
che fanno regali; i medici; gli uomini saggi.
KENKŌ1.
Quando si parla di amicizia lo si fa come se di questo «fatto della vita»
sapessimo già tutto. Al nostro tempo è dato poco interrogarsi sulla singolarità
di questo legame che non costituisce istituzioni, ma che in realtà è l’aspetto
inafferrabile, costruttivo e distruttivo al tempo stesso, di ogni stare insieme. Il
mondo antico s’interrogava molto sull’amicizia e lo faceva indagando su
qualcosa che preesisteva e resisteva a ogni definizione. Nel Filebo di
Platone2, Socrate tenta di costringere i bei giovani di un ginnasio a darne una
descrizione e il dialogo si conclude nel nulla di fatto. Lui che voleva dare una
mano (sempre un po’ provocatoria, sorniona e cinica) a un giovane
innamorato e timido finisce per interrogare il giovane che è l’oggetto delle
intenzioni dell’innamorato, ma s’impelaga in una serie di contraddizioni.
L’amicizia è qualcosa che avviene tra eguali? Non ne siamo davvero certi. Si
ama in amicizia chi somiglia a noi o chi invece è diverso? Ancora: sono i
migliori a essere amici tra di loro, i «buoni», «gli eccellenti», oppure non è
vero che l’amicizia c’è anche tra i cattivi, tra coloro che sono amici nel
compiere cattive azioni? Qual è la natura di questa affezione? Per i tempi di
Socrate è l’attrazione tra erastes ed eromenos, tra amante e amato, e questa
attrazione si basa su impulsi e sentimenti nobili e meno nobili, va dal volere
somigliare all’altro al volerlo «carpire» in maniera non diversa dalla natura
del desiderio. Lasciando Socrate e venendo piú vicino a noi, quando Michel
de Montaigne parla della sua grandissima amicizia «inconsolabile» con La
Boétie sta ancora parlando di qualcosa che ha la natura di un’affinità elettiva
con componenti erotiche o si tratta in maniera diversa di un’elezione
spirituale inafferrabile e tenace?3. Oggi, quando parliamo di amicizia, è
possibile esimersi dal parlare di antipatia e simpatia, di quelle imprendibili
molle che ci fanno avvicinare o allontanare da qualcuno?
Nel film L’amico americano (1977) di Wim Wenders, Dennis Hopper
interpreta la parte di un criminale introverso, Tom Ripley, che entra nella vita
di un artigiano di cornici di Amburgo, Jonathan Zimmermann (interpretato da
Bruno Ganz). È affascinato dalla competenza manuale di Jonathan e dal suo
«occhio» per i falsi (che fanno parte del commercio di Tom). Questa simpatia
e curiosità non impedisce però a Tom di indurre Jonathan a diventare killer
occasionale e di entrare nella partita pericolosa tra due gang. A un certo
punto, però, quando Jonathan ancora non sa di essere «usato» da Tom, questi
gli dice che ha un grande desiderio, vorrebbe molto diventare suo amico. E
aggiunge che sa che questo è impossibile. Tom è l’«amico americano» che
fino alla fine sarà ambiguo, tentato tra il sentimento di un’amicizia vera (per
cui gli salva la vita) e l’impossibilità di uscire dal suo ruolo. Come se
l’amicizia, o la sua impossibilità, facesse risaltare in maniera particolare le
pastoie quotidiane, il già dato, i compromessi e gli impegni da cui non
riusciamo a svincolarci. L’amicizia come un’avventura che non tutti possono
permettersi di correre.
In un magnifico racconto di Solženicyn, Accadde alla stazione di
Kocetovka (1962)4, è narrata un’altra situazione esemplare. Durante
l’invasione nazista della Russia, in una stazione ferroviaria si vive
l’emergenza. Un onesto individuo che voleva andare a combattere al fronte
viene, per la sua spiccata miopia, assegnato a dirigere il traffico dei treni. È
un uomo di provincia ma ha interessi e una sensibilità fuori dal comune.
Soffre della lontananza della moglie e del figlio rimasti in Bielorussia, tagliati
fuori dal fronte della guerra. È però preciso e attento e si dà molto da fare
perché i profughi raggiungano posti piú sicuri, i soldati e i rifornimenti
arrivino alle prime linee. A un certo punto, in stazione capita un uomo
dall’aspetto singolare. Imbacuccato in un cappotto chiaramente non suo, ha
un’aria smarrita ma simpatica e parla in un modo che al capostazione risulta
familiare. È un uomo di cultura, fa battute sottili e ha un senso dell’umorismo
che subito contagia il nostro addetto ai treni. Parlano, fumano, si scambiano
opinioni. L’imbacuccato è rimasto tagliato fuori dal suo battaglione e vuole
tornarvi. Il capostazione lo vuole istradare sul prossimo convoglio che passa
per Stalingrado. L’altro gli chiede dove si trovi e come si chiamasse prima
(siamo in pieno stalinismo, le città sono state da poco ribattezzate con nuovi
nomi). Il capostazione ha un dubbio terribile. Possibile che quest’uomo non
sappia del cambiamento di nome di Stalingrado? A cosa è dovuta questa sua
ignoranza? È uno sprovveduto, un intellettuale (parlando con lui ha saputo
che è un attore e gli ha confidato la sua passione per il teatro) oppure è una
spia? Tutta l’affinità e la simpatia si mutano in una lotta interna al
capostazione. Cosa deve fare? Seguire il suo istinto e fidarsi o consegnare
quest’uomo come pericolosa spia? Finirà per accompagnarlo in un ufficio
vicino e lasciarvelo, e poi fare in modo che venga consegnato alle autorità.
Non saprà piú nulla di lui, anche se per anni sarà tormentato dal dubbio di
avere sbagliato.
Solženicyn ci mette di fronte alla tipica situazione in cui l’amicizia, una
nascente amicizia, viene contrapposta a un contesto dove sono solo i ruoli che
contano. Non c’è posto per affinità e simpatia, soprattutto in guerra, dove
ognuno può essere un nemico. Non c’è bisogno di essere in guerra, sembra
suggerire Solženicyn, basta essere in un mondo in cui i ruoli sono quelli
dettati da un regime o da una configurazione politica. Tutto è definito da
appartenenze e non da qualcosa di cosí inafferrabile come le simpatie e le
affinità. L’amicizia non costituisce istituzione, non è piú forte dei ruoli, però
costituisce legame al punto tale da potere scardinare i ruoli, se uno volesse.
Qui sta la pericolosità dell’amicizia, il suo essere qualcosa d’inafferrabile che
però si contrappone all’istituito e al costituito e può infrangerlo e farlo
saltare.
Questo è il suo manifestarsi nelle nostre società, un’attrazione, un legame
piú o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali
o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un
«fuori» salutare, un potersi chiamare fuori di tanto in tanto, una valvola di
sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile, la mano sulla
spalla, lo sguardo di comprensione o di complicità. È apparentemente un fatto
«meno importante» (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un
fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro questa
«svalutazione», che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una
strategia interessante, se si può chiamare tale una deriva sommersa. L’«out of
focus» dell’amicizia le consente di resistere alla famelica intrusività della
società contemporanea. Dietro la sua «inutilità» si cela la difesa inconscia che
la nostra società fa di questo baluardo.
Perché sí, per altre strade l’amicizia è proprio la base di quella lotta per la
libertà di scelta che ci ha portato a questa contemporaneità. Essa è la chiave
sia della definizione di individuo e dei suoi diritti, sia della reciprocità tra
liberi che dovrebbe sostenere le radici piú profonde del nostro mondo. È una
relazione tra persone che l’Occidente nella sua voglia autodistruttiva è
riuscita a mantenere in ombra, a parte, sviluppandone però le premesse che
sono presenti in tutte le società.
Si potrebbe dire che l’Occidente è ambiguo nei confronti dell’amicizia:
quando non riesce a farne mercato, preferisce metterla tra le cose «private». È
questo «reservoir» di una non ben definita «privacy» che ci rende miopi di
fronte alla natura invece fondante dell’amicizia come tessuto politico
quotidiano, spazio pubblico ogni volta ricomposto ed elastico alle fluttuazioni
della vita in comune. Oggi è interessante comprendere il perché di questo
gioco ideologico sull’amicizia, il preferire metterlo tra le cose che rendono la
vita piacevole, il «leisure time».
Gli antichi sapevano che l’amicizia non è un turismo dell’anima, ma il
luogo in cui essa si può meglio manifestare. Si può dire che l’ipocrisia
occidentale nei confronti dell’importanza dell’amicizia è parte di quel non
vedere, del contrario della «volontà di sapere», della dissezione anatomica
che l’Occidente ha fatto di se stesso. Una miopia che ci dà respiro e ci
consente di vivere la nostra vita come qualcosa d’inedito e indefinibile. Forse
è per questo che da orizzonti diversi la filosofia contemporanea è arrivata a
porsi come fine quell’arte di vivere di cui l’amicizia era parte preponderante.
Ne sono testimoni gli ultimi lavori di Michel Foucault, ma anche il pensiero
sulla convivialità di Ivan Illich, le riflessioni di Gilles Deleuze e Félix
Guattari, i saggi di Emmanuel Lévinas e il suo rapporto d’amicizia con
Maurice Blanchot, le riflessioni di Jacques Derrida e di Stanley Cavell, un
gran lavoro che è soltanto cominciato, e di cui l’antropologia è fattore
integrante e a volte richiamo verso la concretezza del vissuto di cui, come
disciplina, si occupa in chiave fenomenologica con buona umiltà.
1. KENKŌ, Ore d’ozio [1330-32], a cura di M. Muccioli, SE, Milano 2002, p. 75.
2. PLATONE, Filebo, trad. e note di C. Mazzarelli, in ID., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale,
Bompiani, Milano 2000.
3. M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2014.
4. A. SOLŽENICYN, Accadde alla stazione di Kocetovka [1962], in Una giornata di Ivan
Denisovič, a cura di O. Discacciati, Einaudi, Torino 2017.